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IL PERCORSO AD OSTACOLI DEL PROCESSO DI PACE IN COLOMBIA. E LA SOCIETÀ CIVILE SI MOBILITA

Tratto da: Adista Notizie n° 45 del 15/12/2012

36968. BOGOTÀ-ADISTA. Se mai verrà firmato in Colombia l’accordo di pace tra governo e guerriglia, sarà davvero al termine di un impervio percorso ad ostacoli (v. Adista Notizie n. 33/12). Che molte siano le forze interessate al fallimento dei negoziati – partiti ufficialmente il 18 ottobre a Oslo e poi trasferitisi all’Avana – è risultato chiaro una volta di più il 2 dicembre scorso, quando l’esercito ha bombardato un accampamento delle Farc nel municipio de Ricaurte, nel dipartimento di Nariño, alla frontiera con l’Ecuador, uccidendo una ventina di guerriglieri. E ciò malgrado le Farc, il 20 novembre scorso, avessero dichiarato unilateralmente una sospensione di qualsiasi operazione militare fino al prossimo 20 gennaio, per rispondere all’«immenso clamore di pace dei più diversi settori popolari», contribuendo così a stabilire le condizioni più propizie per il progresso delle trattative.

E mentre l’esercito approfitta del cessate il fuoco delle Farc per intensificare i bombardamenti sugli accampamenti guerriglieri, e la guerra sporca combattuta dal paramilitarismo continua a mietere vittime tra l’opposizione, il presidente Juan Manuel Santos, in caduta libera di consensi e nell’affannoso sforzo di recuperarli in tempo per le elezioni presidenziali del maggio 2014, fa la voce grossa ponendo una data limite – novembre 2013 – al negoziato di pace – negoziato che per le Farc, come pure per i movimenti sociali, richiede invece tempi necessariamente lunghi –, e il ministro della Difesa, Juan Carlos Pinzón, gli fa eco assicurando che il modo migliore a disposizione delle Farc per conquistare una credibilità «che non hanno» è quello di «avanzare a tutta velocità» sulla via dell’accordo, come «generosamente» delineato dal presidente della Repubblica.

Malgrado gli ostacoli, tuttavia, il negoziato va avanti, e va avanti con il sostegno di ben il 77% della popolazione, compresa una parte dell’oligarchia, quella legata al settore finanziario e industriale, per la quale il conflitto armato rappresenta un ostacolo agli investimenti internazionali e alle conseguenti opportunità di profitto. Opportunità il cui ambito privilegiato è dato, come spiega il sociologo uruguayano Raúl Zibechi (Adital, 27/11), dall’Alleanza del Pacifico, nata formalmente lo scorso giugno per iniziativa dei Paesi che hanno firmato trattati di libero commercio con gli Stati Uniti (Messico, Perù, Cile e Colombia) e il cui scopo è quello di costituire un sistema di integrazione latinoamericana alternativo al Mercosur.

Costruendo la pace dal basso

Ma se un certo ottimismo si è fatto strada dopo il primo ciclo di colloqui di pace a Cuba, terminato con un’intesa sui meccanismi di partecipazione della società civile, già sulla questione della terra e dello sviluppo agrario, primo punto nell’agenda del negoziato e vero nodo nevralgico del conflitto, le trattative non si annunciano per nulla facili. Se la guerra, come ricorda ancora Raúl Zibechi, è servita ai latifondisti, in stretto collegamento con il narcotraffico e il paramilitarismo, per accrescere a dismisura il proprio controllo sulla terra (dal 32,6% della superficie agraria nel 1984 al 60,8% nel 2010), oggi, ad ostacolare la realizzazione di una riforma agraria assolutamente imprescindibile per una reale democratizzazione dell’accesso alla terra, si incontrano in prima linea anche le multinazionali minerarie e petrolifere, come pure le imprese dell’agrobusiness impegnate nelle monocolture per l’esportazione.

E proprio la questione di una “Politica di sviluppo agrario integrale” sarà – secondo quanto accordato nel primo ciclo di colloqui – al centro di un Forum della società civile in programma a Bogotà dal 17 al 19 dicembre, come contributo alla discussione sul primo punto nell’agenda dei negoziati. 

Intanto, però, dal 4 al 6 dicembre, per iniziativa di un’ampia rete di movimenti sociali (Colombianas y Colombianos por la Paz, Comisión Intereclesial Justicia y Paz, Iglesias por la Paz, Marcha Patriótica, Congreso de los Pueblos, Ruta Social Común para la paz, per citarne solo alcuni), si è svolto all’Università nazionale di Bogotà l’incontro “Pueblos Construyendo Paz”, allo scopo di raccogliere le esperienze nazionali e internazionali relative a differenti processi di soluzione politica dei conflitti armati, da El Salvador al Guatemala, dai Paesi Baschi all’Irlanda, per apprendere le lezioni e articolare strategie per la realizzazione di una pace «con giustizia sociale e democrazia piena», al fine di «sradicare le molteplici forme esistenti di esclusione e di oppressione». Un’impresa possibile solo tenendo conto «delle voci e delle proposte finora mai ascoltate che emergono dai processi di resistenza» in corso nel Paese, dalle iniziative di quelle diverse forze della società civile organizzata decise a non figurare «come convitati di pietra nella risoluzione del lungo conflitto che dissangua il Paese», ma ad esigere «una partecipazione diretta, autonoma e decisiva in tutti i momenti di costruzione della pace», nella convinzione, come si legge nella Dichiarazione finale dell’incontro, «che la pace è affare tuo, mio e nostro».

Una pace di cui il Paese ha un disperato bisogno: come ha evidenziato la Ruta Social Común para la Paz, uno spazio di convergenza tra differenti espressioni politiche, sociali, comunitarie, popolari ed ecclesiali, in 25 anni di conflitto circa 5 milioni e mezzo di persone sono state espulse dalle loro terre, 8 milioni di ettari sono stati strappati con la violenza o usurpati attraverso meccanismi giuridici fraudulenti, si sono registrate oltre 100mila esecuzioni extragiudiziarie, più di 90 mila persone risultano desaparecidos, almeno 10mila sono state torturate, circa 18mila bambini e bambine appaiono vincolati ai differenti gruppi armati. E ciò senza contare le innumerevoli vittime della violenza strutturale, della disuguaglianza e dell’esclusione, della violazione dei diritti delle donne, dei popoli indigeni, dei prigionieri politici. (claudia fanti)

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