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Il materiale e l’immaginario

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 13 del 04/04/2015

Nel 1994 la materialità, ossia la quotidianità della nostra scuola pubblica fondata sulla partecipazione democratica, subì il primo segnale di un’ inversione di tendenza. Il colpo le fu inferto  dal  documento “Una nuova idea per la scuola” sottoscritto da 31 intellettuali e politici di diverse tendenze (in prevalenza dell’area di centrosinistra).

Per la prima volta veniva ufficialmente scavalcata la distinzione costituzionale tra sistema scolastico statale e istituti privati.  Un’offerta formativa “differenziata” comprendente scuole statali e scuole non statali all’interno di un unico sistema d’istruzione definito “pubblico” veniva presentata come garanzia di efficienza. Il principio riformista fondamentale fu individuato nell’autonomia delle scuole. Modello di riferimento divennero le scuole private, imitate nella libera scelta del proprio progetto educativo, nell’esibizione dei servizi offerti, ma soprattutto nell’autonomia gestionale.

I vent’anni che ci separano da quella fatidica data hanno segnato, mattone su mattone, la costruzione del nuovo edificio, con la benedizione dei vari governi, uniti da un obiettivo comune: ridurre i finanziamenti pubblici alla scuola dello Stato, ricorrere ai contributi di privati, sostenere – in contrasto con l’articolo 33 della Costituzione – le scuole private, riconoscendo loro una funzione sostitutiva, non aggiuntiva.

Pietre miliari di questo percorso furono la legge sull’autonomia, con la valorizzazione del ruolo del capo d’Istituto, l’istituzione di “figure obiettivo” che di fatto assumono funzioni che impoveriscono il legittimo protagonismo dei docenti, la legge di parità, l’indebolimento degli organi collegiali con l’affossamento degli organi territoriali, la consunzione del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione (Cnpi) – alla cui rielezione si provvede oggi con una disposizione urgente ordinata dal Tar –, l’introduzione ossessiva dei concetti di competizione,  valutazione,  selezione, i tagli e gli accorpamenti delle discipline, la trasformazione del principio dell’obbligo scolastico in diritto/dovere.

Si tratta di un percorso che è bene conoscere per comprendere il verso della “buona scuola”. La proclamata riforma renziana, in realtà, non è che l’epilogo di un processo, accompagnato da 20 anni di berlusconismo culturale, che ha contaminato anche tanta sinistra.

Nel documento del 1994 e nel decreto legislativo del 1998 sono infatti contenuti in nuce il dirigente scolastico onnipotente che può attingere dal Registro nazionale i docenti più conformi  al “suo” progetto educativo, il riconoscimento economico di un non meglio identificato “merito” ai docenti giudicati i migliori della scuola, l’attribuzione al sistema scolastico del 5 per mille – come se la scuola dello Stato fosse una fondazione privata e non l’obbligo precipuo della Repubblica –, lo sgravio fiscale a chi frequenta nella fascia dell’obbligo le scuole paritarie, vero e proprio regalo alle gerarchie cattoliche.

Matteo Renzi e il suo “giglio magico” sono il frutto di un clima in cui la distinzione pubblico-privato,  diritti-libertà, il concetto di laicità delle istituzioni, che rappresentano il cardine della nostra Carta costituzionale, hanno subìto una serie di cancellazioni. Le distinzioni oggi sono altre: le eccellenze da una parte, gli altri dove capita. Anche questo era già nelle pieghe del documento del 1994.

Nella “buona scuola” non si parla di elevamento dell’obbligo scolastico oltre la scuola media; l’obbligo di istruzione può essere concluso nell’apprendistato; negli istituti professionali e tecnici si attribuiscono 400 ore per stage scuola-lavoro, visto che per chi frequenta questo tipo di scuole l’importante è prepararsi al job act. Perpetuare, insomma, questo modello di società.

La riforma proposta dal governo Renzi, che nei prossimi giorni andrà in discussione alla Camera, potrà essere sottoposta a qualche emendamento, ma l’impianto “inemendabile” non potrà mutare, poiché corrisponde a un sentire diffuso nella popolazione – e il nostro premier e i suoi sostenitori ben lo sanno –, una popolazione sfiduciata, indifferente alla mortificazione di valori (il silenzio sulla laicità nella scuola ne è un esempio), attratta dall’appagamento di pulsioni primordiali: competizioni, premio, punizioni, potere identificato in un capo... Si può definire tutto questo un rischio di nuovo fascismo?

Al di là del “materiale”, tuttavia, molti la visione di una scuola diversa continuano a nutrirla, a preservarla. È quella di una scuola “immaginaria” alla quale stanno dando connotati reali associazioni, movimenti, tanti studenti che non si sono alimentati del berlusconismo e che guardano al cammino intrapreso negli anni ‘70, quando la scuola della Costituzione da immaginario stava diventando realtà. E realtà deve tornare ad esserlo, nella fedeltà ai principi fondamentali della Costituzione. 

La Legge di iniziativa popolare per una buona scuola della Repubblica (Lip), forte di oltre 100mila firme, è lo strumento che apre un orizzonte opposto alla “buona scuola” renziana e restituisce la speranza che dalla scuola possa partire, “essere immaginata” un’idea di società fondata su solidarietà, cooperazione, laicità.

* coordinatrice nazionale dell'Associazione “Per la Scuola della Repubblica”

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