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“Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” - La "Gaudium et Spes" nella vita di un prete qualunque

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 21 del 06/06/2015

Storici della Chiesa seri e tutt’altro che anticlericali hanno potuto notare che tutto il Concilio fu un evento difficile da accogliere in tanta parte della stessa Chiesa cattolica e di quella opinione pubblica che su un modello di Chiesa costantiniana aveva trovato una preziosa alleata per diffondere rassegnazione a modelli di sviluppo ed a strategie politiche contrarie al bene comune. Una Chiesa “oppio” o una Chiesa che “infioretta le catene” senza spezzarle, era certamente più gradita ai potenti, rispetto a quella chiesa che emergeva dal Vaticano II.

Tuttavia la Costituzione che forse ha trovato più ostacoli nella sua recezione è la Gaudium et spes. Scomoda per i politici che da tempo avevano escluso l’etica (figurarsi la fede!) dal loro orizzonte. Scomoda per la Chiesa gerarchica che si vedeva privata del suo presunto potere di gestire in proprio il dialogo coi potenti del mondo. Scomoda per il clero che vedeva ampliato oltre il culto il suo compito pastorale. Scomoda per i semplici fedeli che vedevano cadere nelle loro mani una responsabilità fino ad allora demandata ai partiti ed ai governi di cosiddetta ispirazione cristiana.

A queste difficoltà bisogna aggiungere il discredito presto nato in larghi strati della stessa Chiesa non verso quella Costituzione ma verso il Vaticano II in quanto tale. Osservatori acuti e sinceramente cristiani, che forse da tempo aspettavano quella “primavera della Chiesa”, quella “nuova Pentecoste”, registrarono fin da subito, accanto a vere ventate dello Spirito, le resistenze, gli attaccamenti ad un ecclesiocentrismo poco o nulla evangelico, il passaggio di clima da una sessione all’altra, il cambiamento in senso conservatore di autentici leader della prima ora.

Diciamo, per semplificare, che il Vaticano II, fin dal suo nascere, non ebbe il benvenuto da tutta la Chiesa. Nel suo svolgersi fu abbastanza travagliato e nel suo consegnarsi al domani non ebbe vita facile. Si può dire che abbiamo passato 50 anni più a discuterne che a farne esperienza. Forse abbiamo perso così un’occasione unica.

Il frutto di questa comprensibile opposizione dialettica non fu tuttavia un superamento in senso hegeliano (il raggiungimento di un equilibrio che conserva la tesi ponendola su un piano di superiorità concettuale e al di fuori di esasperazioni antitetiche), ma culminò in una triplice linea pastorale:

a) la piena accettazione e pratica della Gaudium et spes che portò a vere inversioni di tendenza e a decisioni coraggiose, che hanno comportato anche emarginazione, diffidenza, martirio;

b) un sotterraneo ed a volte esplicito rifiuto, con ampie connivenze anche in alte gerarchie, durato almeno due pontificati, ed una conseguente pastorale anticonciliare fatta di interpretazioni e citazioni che svuotavano il senso stesso dell’evento;

c) la realistica percezione della necessità di un cammino pastorale di accompagnamento, per una lenta, paziente educazione a percepire la fede come una prospettiva che cambia la vita, e il messaggio di amore (la “buona notizia” del Regno) come elemento che struttura la storia e indirizza il vivere civile. 

Fu quest’ultima la scelta di semplici preti come me.

Non è stata un’avventura piana portare il popolo di Dio, gli stessi giovani, a percepire la fede come un guardare il mondo con gli occhi di Dio. Far scoprire loro che non si può essere Chiesa di Cristo se si condanna il mondo, se si diffida a priori da ciò che viene da esso, ma solo se lo si ama e lo si vuole condurre a redenzione. Tanto meno era facile, se non imbarazzante, chiarire loro che quanti erano emarginati dalle alte autorità ecclesiali, o ammazzati da governi sedicenti cattolici, erano in realtà, testimoni del Cristo che era all’opera per la salvezza di questa umanità.

Ci sono voluti 35 anni per dire che Oscar Arnulfo Romero era stato ucciso “in odium fidei” (e non per coloritura marxiane). Quell’Oscar Romero che era stato invitato da Giovanni Paolo II a farsi gli affari propri e ad andare d’accordo con quei governi che uccidevano cristiani e povera gente, rei di essere convinti che Dio voleva il loro riscatto e la liberazione da tutti quei “faraoni” che si ergevano ad unici arbitri della vita e della morte dei poveri, a proprietari unici della terra.

In questo clima, per un prete qualsiasi diventava difficile, forse pericoloso assumere spirito e lettera della Gaudium et spes e farne parte ai fedeli nella propria esperienza pastorale. Nessun pericolo di “martirio” per gli “untorelli” come me, ma certo incombeva la qualifica di “inaffidabile” per quanti non seguivano la linea ufficiale del momento. Dichiarato io stesso “inaffidabile”, ma in fondo innocuo, ho avuto l’occasione, per quanto mi era dato dalle mie possibilità, di essere amico personale e sostenitore di molti “inaffidabili” che sono stati e sono seme nascosto, lievito di speranza, per il mondo e per il ritorno della Chiesa al nudo Vangelo. Forse contiene molta verità il detto di Ernst Bloch, secondo cui una religione vale per gli “eretici” che produce.

Ancora più pericoloso comunque si rivelava invitare i propri confratelli ad uscire da una teologia astratta e sistematica, dalle sacrestie per affrontare, in nome della fede, problemi concreti, là dove venivano dibattuti (enti locali, piazze, dibattiti …).

Il clima, col passare degli anni, si faceva sempre più diffidente mentre prendevano quota e si affermavano movimenti come Cl, Opus Dei, Legionari di Cristo, Araldi del Vangelo, movimenti carismatici, neocatecumenali, spiritualistici, che restituivano nelle mani di Cesare tutto ciò che aveva attinenza con la concretezza della vita, scippando così diritti inalienabili all’essere umano di ogni angolo della terra. Non restava che adattarsi o auto-emarginarsi.

C’era però un’altra alternativa ed è stata quella che ho scelto attraverso scritti, corsi di esercizi, conferenze, vita pastorale ordinaria. Bisognava liberare fedeli, preti e religiosi dalla paura di censure indebite facendo notare che ogni apertura conciliare era voluta dallo Spirito Santo e dalla stessa Chiesa. Bisognava aiutare a trovare il gusto di riappropriarsi della Scrittura, dei documenti conciliari, della carica “salvifica ed eversiva” della liturgia, soprattutto del diritto e dovere di ascoltare le “urla” della gente oppressa, attraverso riflessioni comunitarie e approfondimenti.

Ma perché questo fosse possibile, bisognava incitare i battezzati (chierici e laici) ad uscire dai giochi di potere e di facili promozioni ecclesiastiche, bisognava spingere a ritrovare il gusto della “libertà dei figli di Dio”, della parresia per amore di quell’essere umano amato da Dio fino al dono del suo Figlio e di quella Chiesa che Cristo ha voluto sacramento della sua presenza nel mondo.

«Se vuoi fare carriera, lascia perdere il Concilio», dicevo ad un seminarista di talento prossimo agli Ordini sacri. «Ma se vuoi essere prete cristiano, lascia perdere la carriera, esci dal gioco, centrati sul Cristo e sul popolo amato da Lui». Ovviamente scelse la carriera.

Togliere paure e spingere verso gli orizzonti della Gaudium et spes, significava anche trovare il “modo” di farsi ascoltare evitando inutili estremismi, toni controversisti denigratori, soprattutto mostrando di avere una seria preparazione teologica capace di andare all’essenziale dei problemi, comprendendo ed apprezzando anche “le ragioni degli altri”.

Poi esplosero gli scandali e con essi il fallimento di decenni di pastorale e di gestione istituzionale della Chiesa. Poi venne papa Bergoglio ed il suo unico vanto è quello di portare avanti le linee conciliari. Anzi di mettere al centro della Chiesa il nudo Vangelo. Martiri che hanno dato il sangue, teologi che hanno subito emarginazioni e scomuniche, pastori generosi che si sono messi in gioco completamente per accogliere quella nuova Pentecoste, forse hanno tenuto desto nel cuore della gente il desiderio di una Chiesa più autenticamente cristiana. Quella Chiesa che oggi esulta per le parole semplici e dirette di papa Francesco e che lo difende da chiari e diffusi nemici della sua semplicità evangelica. 

Raniero La Valle chiude così il suo ultimo libro sull’attuale vescovo di Roma (Chi sono io, Francesco?, Ponte alle Grazie, acquistabile presso Adista: tel 066868692, e-mail abbonamenti@adista.it, internet www.adista.it, ndr): «Se Francesco con la sua Chiesa non ce la fa a riaprire la questione di Dio, a presentarne una immagine non sfigurata agli uomini e alle donne del nostro tempo e a quelli di domani, a far rinsavire le Potenze dalla follia della guerra, a rimettere al mondo l’immensa folla degli scarti degli schiavi e degli esclusi, a fare dei popoli non i dissipatori ma i custodi dei beni del creato, non solo ci sarà un bene non conseguito, una speranza non realizzata, ma sarà una tragedia. Perché il mondo non può andare avanti così».

Accogliamo con convinzione questa responsabilità epocale e con preoccupazione questo allarme. Percepiamo infatti come abbastanza diffusa nella Chiesa una sorta di resistenza allo Spirito nelle alte grida che ormai in modo chiaro e diretto si levano contro il magistero del papa soprattutto dalle fila del clero. Ci chiediamo se edifica la Chiesa, se salva un’umanità a rischio, se chiude l’era degli scandali, questo vezzo di opporre un papa “emerito” di “grande dottrina”, ad un vescovo di Roma in carica che, avendo rinunziato alle insegne imperiali, è accusato di avere rinunziato a “fare il papa”. Non stiamo trovando scuse per non camminare? Per rifiutare ancora una volta quella nuova Pentecoste che sconvolse la Chiesa ma aprì il mondo degli esseri umani alla speranza? Temo proprio di sì. Ed aspetto con fiducia che ci si accorga che la Chiesa non può andare avanti come nel secolo scorso. Che il «mondo non può andare avanti così. Sarebbe una tragedia» annunziata.

Felice Scalia è un gesuita. Intervento tenuto durante l’assemblea nazionale di “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” del 9 maggio 2015 (v. Adista Notizie n. 19/15) 

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