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Cronaca di una pandemia annunciata

Cronaca di una pandemia annunciata

Tratto da: Adista Documenti n° 14 del 11/04/2020

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(...) Dopo l’attacco terroristico alle Torri Gemelle del 2001 e la crisi finanziaria del 2008, la guerra contro questo virus invisibile e così contagioso – un minuscolo pacchetto di RNA avvolto da una capsula di proteine – è il terzo evento, dall’inizio del millennio, a ribaltare la storia, a scompigliare ogni certezza, a tramortire le nostre vite. Certo le epidemie, ci ricorda Walter Scheidel nella sua ampia disamina sulla disuguaglianza, sono tra gli eventi con maggiore potenza di trasformazione della storia umana.

Niente di nuovo sotto il cielo, quindi. Ma noi non abbiamo ancora fatto tesoro delle lezioni del passato, neppure quello recente. Dall’inizio del millennio non è la prima volta che un virus animale della classe dei coronavirus fa il cosiddetto salto di specie. Era avvenuto con la SARS in Cina tra 2002 e 2003, con la MERS in Arabia Saudita e Giordania nel 2012. Altri salti di specie hanno messo alle strette la comunità internazionale con l’influenza suina nel 2009 (H1N1), l’influenza aviaria nel 2013 e nel 2017 (H7N9), altri micidiali patogeni come Zika ed Ebola (quest’ultimo ancora operoso in Africa).

Gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lo andavano dicendo da tempo che una pandemia tipo la grande influenza del 1918 (la Spagnola, per intendersi) non era un’ipotesi di scuola, ma solo una questione di tempo. Adesso nella crisi ci siamo dentro, e Covid19 ha tutta l’aria di essere il patogeno che la comunità scientifica stava aspettando. Primo, perché uccide gli adulti in salute e le persone anziane con problemi pregressi. I dati dicono che la mortalità globale del Covid19 (al 10 marzo) sta intorno al 3,4%, dunque maggiore del 2% della Spagnola. Inoltre il virus ha un tasso esponenziale di trasmissione: una persona infetta in media contagia 2-3 altre persone. L’efficienza del contagio riguarda anche persone asintomatiche, pre-sintomatiche, o paucisintomatiche (con pochi sintomi). Questo significa che Covid19 è molto più arduo da contenere della SARS, che veniva trasmessa più lentamente e solo da pazienti sintomatici. Covid19 ha già causato 10 volte più casi della SARS in un quarto del tempo. Quando la marea dell’emergenza si sarà ritirata, non sapremo più riconoscere il paesaggio. Ma nelle riflessioni che accompagnano il diffondersi di Covid19 possiamo verificare diverse ipotesi della politica, che dalla globalizzazione arrivano agli effetti di casa nostra. Provo a proporne alcune.

Potremmo partire facendo il paragone su come il mondo si prepara alla guerra e a combattere i virus. La NATO, ad esempio, ha una Forza di intervento rapido che fa continuamente esercitazioni per verificare tutti gli aspetti di un’eventuale operazione – logistica, approvvigionamento di viveri e benzina, lingua operativa, le frequenze radio, etc.

Non esiste niente di tutto questo nella lotta alle pandemie. L’ultima seria simulazione di una pandemia negli Stati Uniti, il Dark Winter Exercise, si è tenuta nel 2001. Finalmente, tra mille accortezze geopolitiche, l’Oms ha dichiarato lo stato di pandemia. Le condizioni di diffusione geografica su scala mondiale e di diffusione da contagi secondari, necessarie a riconoscere la pandemia (non basta un focolaio primario), esistevano da tempo. Era assolutamente necessario che l’agenzia lanciasse un segnale di allarme. Soprattutto per quei governi, perlopiù occidentali, che, in nome dei mercati o per opportunismo politico, continuano a sottovalutare la forza di diffusione di Covid19, dichiarano in ritardo l’emergenza, oppure la nascondono.

L’iniziale preoccupazione del direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyeus sulla poca cooperazione tra Stati è solo confermata, a quasi due mesi dall’inizio della mobilitazione sul virus. Contravvenendo ai vincoli previsti dal Regolamento Sanitario Internazionale del 2005 (adottato dall’Oms dopo la SARS con lo scopo di migliorare la capacità del mondo nel prevenire e contenere le malattie), la cooperazione internazionale tra governi ha lasciato il campo al sovranismo sanitario, quando non all’inazione, a fronte delle incognite del Covid19. (...)

Insomma, noi umani siamo una sconfinata prateria di conquista da parte del virus, ma siamo soprattutto un esercito scomposto, arrogante, impreparato, diviso. Si tratta di un fallimento globale con esiti disastrosi. Intanto, al contrario della Nato, tutte le strutture dell’Oms create per promuovere un sistema di allerta e risposta immediata sono prive di fondi e dotate di pochissimo personale.

La tensione fra salute ed economia

Uno dei motivi per cui il diritto alla salute subisce così tante violazioni deriva dal fatto di essere un diritto che non vive in isolamento. Si trascina molti altri diritti sociali, in costante attrito con i profitti della finanza e le leggi dell’economia. Bene: gli esperti hanno calcolato che il rischio di una pandemia ha un costo di 500 miliardi di dollari all’anno – nel 2013, la Banca Mondiale aveva valutato una perdita di 3.000 miliardi di dollari per una singola pandemia influenzale – ovvero una caduta di PIL tra lo 0,2 e il 2%. In Italia, abbiamo sperimentato più volte il dilemma fra salute ed economia (e lavoro) e il caso di Covid19 non fa eccezione. A questa tensione sono da attribuire clamorosi passi falsi del governo Conte nella gestione dell’emergenza, i messaggi contraddittori tipo “Milano non si ferma” di fine febbraio che hanno legittimato comportamenti del tutto organici alla diffusione del virus. (...).

Come italiani, ne sappiamo qualcosa. Dovremo (s)con tare parecchie morti economiche oltre a quelle causate dal virus, morti che rimandano all’esasperante pratica di precarizzazione del lavoro anche nei comparti di traino dell’economia del Paese – penso in particolare al turismo. Insomma, il Covid19 sta facendo emergere tutte le falle del sistema che covavano da tempo nel nostro Paese. Ma se è vero che il virus segna uno spartiacque nella storia del Paese, vogliamo poter immaginare anche da qui una ipotesi di palingenesi sistemica, con il dopovirus.

Un sistema sanitario nazionale pubblico e gratuito. La lezione di Covid19

Ci voleva l’onda d’urto di Covid19 per far comprendere alla società italiana il valore del nostro sistema sanitario nazionale come bene comune che il mondo ci invidia, protezione individuale rispetto alle vicende della vita (altro che leggi sull’autodifesa!). Ritengo questa nuova tardiva consapevolezza la più insperata virtù del Coronavirus, il punto politico di non ritorno di questa sconvolgente epidemia. In nome dell’economia in Italia si è affossato il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) del 1978, uno dei dispositivi istituzionali più rivoluzionari ed efficaci in Europa nel settore del welfare, e la conquista politica e civile che ha contribuito più di ogni altra allo sviluppo economico e sociale della nostra società. In nome del contenimento del deficit, la sanità italiana ha subito liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi pubblici.

Con la scusa della riduzione del debito, o della spending review, i governi hanno chiuso i rubinetti degli investimenti nella sanità pubblica – dal 2001 al 2008 la spesa sanitaria era cresciuta del 14,8%, dal 2009 al 2017 solo dello 0,6%, ciò che ha provocato la riduzione per la spesa del personale sanitario del 6% dal 2010 al 2016, il blocco del turnover, l’abbattimento di 70.000 posti letto, la chiusura di 175 unità ospedaliere, e l’accorpamento compulsivo delle ASL da 642 negli anni ‘80 a 101 nel 2017. I tagli hanno raggiunto 25 miliardi di euro solo tra il 2010 e il 2012. Una scelta avallata dalla vulgata del costo eccessivo del nostro sistema, che ha prodotto ricadute pesanti sui cittadini, tra cui l’esplosione della spesa privata calcolata dal Censis-Rbm in 40 miliardi di euro nel 2017, quando 8 milioni di italiani hanno dovuto ricorrere a prestiti per poter accedere alle prestazioni sanitarie.

Solo il 41% dei nostri cittadini ha un reddito per sopperire alle spese, gli altri vanno a debito e, come illustra il rapporto Censis-Rbm del 2019, lo spalancarsi del business della sanità privata ha raggiunto un livello inquietante. Certo, stando a quanto raccontano i mass media, la transizione dalla sanità pubblica a quella privata appare una scelta inevitabile e sensata. La linea editoriale della malasanità italiana ha venduto all’opinione pubblica e alla classe politica di tutte le appartenenze l’idea che ogni intervento pubblico fosse inutilmente costoso, inefficiente, corrotto. Salvo la smentita di questi giorni. Al netto delle inefficienze e degli sprechi da combattere con determinazione, le spese in sanità sono investimenti, con effetti benefici per l’economia nel medio lungo termine.

Nell’immediato, abbattere il contagio attraverso le misure di contenimento straordinarie varate con i decreti del governo Conte è la sola strategia d’urgenza per evitare il collasso del sistema sanitario, con tutte le conseguenze che produrrebbe. Ma non possiamo aspettare troppo tempo per pianificare la necessaria inversione di rotta, che contemperi la coerenza fra percorso universitario e sistema salute, l’assunzione di personale sanitario, una maggiore formazione alla prevenzione delle malattie, la riapertura di strutture e presidi sanitari chiuse in questi anni, un forte investimento nella ricerca scientifica.

Ci vorrà anche il coraggio di rivedere in profondità alcune politiche strutturali del Paese. Servizio Sanitario Nazionale vuol dire nazionale, appunto: cioè centralizzato. Non spezzettato in strategie regionali, più o meno orientate a settore privato. La devolution sanitaria è stata fonte di gravi disuguaglianze – nel suo piccolo, il nord e sud Italia riproducono il divario sanitario fra nord e sud del mondo. Ha determinato varietà di approcci e spesso inefficienze, ha moltiplicato le possibilità di corruzione (a conferma dell’evidenza empirica globale). La regionalizzazione della salute non è adatta a gestire le complessità sanitarie del nostro tempo, come abbiamo visto nelle prime fasi dell’epidemia. L’Italia dovrà farsene una ragione, mi riferisco anche alla autonomia differenziata ovviamente, se vuole prepararsi seriamente alle condizioni di emergenza che incombono sul nostro Paese più che altrove in Europa. Non solo perché abbiamo la popolazione più vecchia del mondo – il motivo dell’alta casistica di morti da Covid19. Non solo perché sarà il Paese più seriamente colpito dal cambiamento climatico in atto tra quelli europei (per posizione geografica e conformazione orografica). Ma soprattutto perché l’Italia già si porta in pancia condizioni di emergenza sanitaria da affrontare, nell’immediato, con politiche serie, univoche, immediate. Una per tutti? La resistenza agli antibiotici. Siamo il Paese europeo con più ceppi batterici che resistono agli antibiotici, la loro popolazione in dieci anni si è decuplicata, e stando agli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dei 33mila decessi provocati da antibioticoresistenza in tutta Europa, 10mila sono avvenuti nel nostro Paese. Qualche giorno fa, la virologa Ilaria Capua ipotizzava che questa circostanza fosse una concausa della forte mortalità da Coronavirus nel nostro Paese.

Il post Covid19 sarà come un dopoguerra, con le sue macerie, la necessità di ricostruzione. Abbiamo molti strumenti per ridisegnare un sistema Paese più forte, più giusto. Nella sua tragica manifestazione, il silenzioso e invadente Coronavirus è la nostra migliore chance.  

* Coronavirus (COVID-19) - CG, illustrazione di Yuri Samoilov (https://yuri.samoilov.online/) tratta da flickr, licenza Creative Commons

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