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La difesa del Concordato, gabbia per i cattolici critici

La difesa del Concordato, gabbia per i cattolici critici

Tratto da: Adista Documenti n° 9 del 06/03/2021

Il rapporto con il Pci di tutta l’area del cristianesimo critico, semplicisticamente definito “dissenso”, è molto legato al tema del Concordato.

La questione veniva da lontano: il fascismo aveva voluto chiudere definitivamente la “Questione romana” attraverso i Patti Lateranensi. Lo avrebbe fatto, magari in modo meno favorevole alla Chiesa cattolica, anche un governo liberale, dato che la vicenda si trascinava da oltre mezzo secolo.

Cosa fare dei Patti Lateranensi dopo la liberazione dal nazi-fascismo e la stesura della Costituzione? La Democrazia Cristiana e il Vaticano spingevano per l’inserimento dei Patti in Costituzione. Togliatti portò il Pci su posizioni favorevoli, perché puntava a un rapporto non apertamente conflittuale con la Chiesa; nella prospettiva di una divisione del mondo in blocchi dove l’Italia era stata collocata sul fronte dei Paesi liberalcapitalistici, per Togliatti era importante puntare alla convergenza progressiva dei partiti che rappresentavano le masse socialiste e cattoliche, per realizzare una via al socialismo all’interno della Costituzione. Il regime concordatario fu il frutto di questa strategia.

I deputati DC alla Costituente erano 209 e l’annunciato Sì dei 104 rappresentanti del PCI chiuse la vicenda. E vanificò le speranze degli oppositori che proponevano la fine del regime concordatario, portando la maggior parte dei liberali a non partecipare al voto (lo fecero in 14, tra cui Croce e Einaudi); una minoranza a votare un Sì rassegnato e relegando ad un No di bandiera il resto dei laici (gli altri liberali, soprattutto i due gruppi socialisti e il partito repubblicano), in tutto 149. Fra questi va segnalato il No di Gerardo Bruni rappresentante del Partito Cristiano Sociale, al quale avevo aderito.

La contraddizione di quella scelta sta, ad esempio, nel fatto che all’articolo 3 si dice che i cittadini sono uguali davanti alla legge a prescindere dal credo religioso, mentre all’articolo 7, con il rimando ai Patti Lateranensi, si riconosceva il cattolicesimo quale religione di Stato.

C’è poi la questione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole che discende dalla scelta di costituzionalizzare il Concordato. Dopo la sua revisione, nel 1984, la religione cattolica rimase materia curricolare, seppure non obbligatoria. Anche su questo fronte il Pci non volle ingaggiare battaglia con la gerarchia. Ma l’insegnamento confessionale all’interno di una scuola laica – per di più fatto da insegnanti scelti dalle Curie, ma pagati dallo Stato – resta tuttora un macigno nel percorso che dovrebbe portare verso la realizzazione di uno Stato moderno e laico.

Il regime pattizio condizionò pesantemente anche la vita interna delle comunità ecclesiali, particolarmente nei rapporti fra gerarchia e fedeli. Soprattutto, dagli anni ‘60 in poi, ha ostacolato l’attuazione della profonda in- novazione introdotta dal Concilio Vaticano II, che li vuole ugualmente partecipi, seppure con funzioni diverse, del Popolo di Dio.

Questo perché alla gerarchia cattolica è possibile sentirsi svincolata dal consenso dei fedeli, grazie allo status di interlocutore ufficiale del governo e delle forze politiche garantito da un patto con valore internazionale, e, al tempo stesso, di non aver bisogno del loro sostegno economico, sostituito dal finanziamento pubblico.

La diretta conseguenza di ciò è uno spirito comunitario compromesso, un’evangelizzazione ridotta a indottrinamento e inaridita nella sua valenza profetica, il diffondersi di ritualismo e formalismo nelle celebrazioni. Tutto è finalizzato al consenso da spendere sul versante del rapporto della gerarchia con il governo: in questa prospettiva non solo l’ora di religione garantisce capillare presenza presso le nuove generazioni, ma anche gli spazi privilegiati da sempre concessi sulla televisione di Stato e sui mezzi di informazione privati dai governi “amici” e la presenza di alti prelati a cerimonie istituzionali a fianco delle autorità politiche e militari contribuiscono in maniera decisiva a mantenere solide le posizioni di egemonia e potere della Chiesa nello Stato.

Già con la rivista Questitalia, animata da Vladimiro Dorigo, che era stato come me nell’Azione Cattolica di Carlo Carretto e Arturo Paoli e si era poi impegnato nella sua città – Venezia – nelle file della sinistra democristiana, avviammo ancor prima dell’inizio del Concilio (la rivista iniziò le pubblicazioni nel 1958, le terminò nel 1970) la battaglia anticoncordataria per ragioni non solo di laicità, ma anche e soprattutto per l’esigenza di eliminare il regime di compromesso rifiutato come credenti. Anni dopo ritenemmo grave che la gerarchia cattolica non rinunciasse ai privilegi concordatari, così come auspicava il Concilio Vaticano II.

La rivista non volle mai definirsi "cattolica", pur essendo animata da un gruppo di cattolici: reclamava però il diritto dei credenti a intervenire sulle "questioni" concernenti la comunità ecclesiale, contribuendo a contrastare ogni tentazione integralista all'interno dei gruppi cattolici.

Il percorso continuò con gruppi spontanei di impegno politicoculturale per una nuova sinistra. A Rimini, nel novembre 1967, si svolse un importante convegno sulla fine dell’unità politica dei cattolici. L’incontro era stato preparato dal circolo locale “J. Maritain”, guidato da Antonio Zavoli, con la partecipazione, come relatori, di Luigi Anderlini del Movimento dei socialisti autonomi, Wladimiro Dorigo direttore di Questitalia, Achille Occhetto della Federazione giovanile comunista e Franco Boiardi del Partito socialista di Unità Proletaria. In vista delle elezioni di maggio, si era discusso, su iniziativa di Lorenzo Bedeschi, della possibilità di presentare alcune candidature cattoliche nelle liste del Pci. Il secco rifiuto dell’assemblea – ma il Pci proseguì poi il progetto attraverso l’esperienza della Sinistra Indipendente – mostrava l’idea di un movimento che non in- tendeva farsi assorbire dai partiti. Dopo un successivo convegno, a Bologna, al Palazzo di Re Enzo il 25 febbraio 1968, dal titolo “Credenti e non credenti per una nuova sinistra”, alcuni gruppi accentuarono la loro insofferenza sia contro il dogma dell’unità dei cattolici in politica dentro la Dc, sia nei confronti del Pci, che ritenevano responsabile di ricercare la collaborazione con Cei e Vaticano, ignorando le istanze che provenivano da una “base” ormai così distante dai suoi “vertici”. Nello Statuto dell’“Assemblea dei gruppi di impegno politico e culturale per la nuova sinistra”, approvato nei mesi seguenti, i gruppi si ponevano l’obiettivo di collaborare con tutte le forze di opposizione al sistema capitalistico, a partire dal movimento degli studenti.

L’esperienza delle Comunità Cristiane di Base continuò a sviluppare quelle istanze e a porre come centrale l’obiettivo dell’abolizione del Concordato come presupposto per lo sviluppo di una Chiesa evangelica, conciliare, plurale e realmente in ascolto dei segni dei tempi. E di una generazione di cattolici “adulti”, critici e capaci di compiere scelte autonome, fuori dall’anacronistico esercizio di tutela della gerarchia. Nel 1971, il loro primo convegno nazionale aveva come tema: “Strutture clericali: il Concordato come strumento di potere contro la liberazione del popolo di Dio, contro l’unità delle masse operaie e contadine, contro la giustizia nel mondo”.

Di queste istanze i cristiani critici hanno contaminato tante realtà dell’associazionismo cattolico (si pensi solo alla scelta socialista delle Acli e ai fermenti sviluppatisi nell’Azione Cattolica da Bachelet in poi), parrocchie, comunità, teologi e preti. Persino qualche vescovo! Il Pci ha sempre guardato a questo mondo con un misto insieme di interesse e sospetto. Interesse per la vivacità e la radicalità delle istanze che una parte del mondo cristiano (non solo cattolico) era in grado di proporre; sospetto per la pluralità dei soggetti e delle posizioni con cui interloquire e per la connaturata tendenza a disobbedire alle gerarchie ecclesiastiche, che tradizionalmente il partito riconosceva come interlocutore privilegiato, se non unico.

Ma l’esistenza di strutture ecclesiastiche potenti economicamente e radicate territorialmente, forti di un’alleanza con il potere politico che non si è mai allentata, con la colpevole subalternità delle forze di sinistra, ha reso gli obiettivi anti-concordatari ancora da realizzare.

Oggi un nuovo impegno per l’abolizione del regime concordatario dovrebbe tornare a pieno titolo nell’agenda politica non solo in nome della laicità, ma per la promozione della democrazia. Non c’è più il Pci a garantire il mantenimento del regime pattizio come elemento di stabilità nei rapporti tra la sinistra istituzionale e la gerarchia cattolica. Si sono però formati altri partiti che non sono riusciti ad affrancarsi dalla subalternità alle logiche degli interessi ecclesiastici. E manca, del Pci, l’autorevolezza dell’interlocuzione con un partito che, nei limiti e nelle mancanze, pure rappresentava le istanze di una parte importante di quei ceti – studenti, lavoratori, donne, disoccupati, immigrati – a cui anche la Chiesa “altra” si rivolge in maniera privilegiata. 

Marcello Vigli è storico animatore del movimento delle Comunità Cristiane di Base   

* Palmiro Togliatti in una foto [ritagliata] precedente al 1964; autore sconosciuto, fonte Camera Press Ltd. via IMS Vintage Photos, tratta da wikimedia commons, immagine originale e licenza

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