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Signor vescovo, la ringrazio per la sua lettera...

Signor vescovo, la ringrazio per la sua lettera...

Tratto da: Adista Documenti n° 27 del 29/07/2023

Qui l'introduzione di qiesto articolo.

Signor Vescovo, la ringrazio per la Sua lettera aperta, che Lei mi ha cortesemente inviato prima della sua pubblicazione, e mi scuso per non aver potuto risponderLe con la tempestività desiderata. Lei ha sollevato problemi la cui soluzione positiva è molto importante per l'avvenire della società e dell'Italia, per una serena convivenza tra tutti i nostri concittadini, non credenti e credenti, oltre che, in particolare, per lo sviluppo di quel dialogo, per amore del quale ha pensato di rivolgersi a me, come Lei dice, in quanto segretario del Partito comunista italiano.

Le questioni da Lei poste, lungi dal perdere attualità, sono divenute, in questi ultimi tempi, oggetto di un dibattito ancora più serrato e impegnato. Tenterò di far chiarezza, innanzitutto, sopra un punto, che Lei tocca nella prima parte della Sua lettera: quello relativo all'ispirazione ideale del nostro partito.

Lei potrà convenire, credo, che non per caso può essersi formata quella solidale, operante unità politica e organizzativa del nostro partito, in base alla quale iscritti, militanti, dirigenti di ogni livello con diverse formazioni e convinzioni ideologiche, culturali, filosofiche, religiose lavorano insieme giorno per giorno, fraternamente ed egualitariamente.

Uno dei fondamenti di questa unità interna del Pci, della sua piena e rigorosa laicità è da gran tempo costituito dall'articolo 2 del suo Statuto, che mi permetto di ricordarLe: «Possono iscriversi al Partito comunista italiano i cittadini che abbiano raggiunto il diciottesimo anno di età e che – indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche – accettino il programma politico del partito e si impegnino a operare per realizzarlo, a osservare lo Statuto, a lavorare in una organizzazione di partito…».

Proprio da questo principio statutario, voluto da Togliatti e sancito al V Congresso del nostro partito sin dal gennaio del 1946, dal rispetto e dall'apertura che ne conseguono nei rapporti tra comunisti, nel loro costume e nel loro stile di lavoro, nella vita interna di partito, è venuta la capacità del Pci di proiettarsi all'esterno con quel modo libero e multiforme, franco e comprensivo, in una parola unitario, che gli è caratteristico.

Questa regola statutaria, non monolitica e non totalizzante bensì democratica, è però anche tale da consentire che, all'interno del partito venga sempre garantita l'indispensabile funzione dirigente: ma si tratta di una funzione che, essendo fondata sulla ricerca continua dell'unità attraverso il dibattito e il consenso, si afferma non come direzione autoritaria, ma come guida rispettosa della libertà. Infine, si deve sempre a questo articolo 2 del nostro Statuto se, da un lato, abbiamo potuto costruire un partito che, pur conservando e sviluppando alcuni tratti decisivi delle sue origini, fosse un partito «nuovo», perché non solo profondamente di classe ma anche di massa e, anzi, di popolo, non settario, non integralista; e se, dall'altro lato, siamo stati e siamo sempre impegnati nella ricerca delle alleanze democratiche più ampie possibili e di una trasformatrice unità con forze sociali, politiche e ideali diverse da noi.

In considerazione di ciò, è forse esatto dire, per usare Sue parole, che il Partito Comunista italiano come tale, e cioè in quanto partito, organizzazione politica, professa esplicitamente l'ideologia marxista, come filosofia materialistica ateistica? Proprio per i chiarimenti sopra dati, risponderei di no.

Dicendo ciò, non intendo tuttavia affermare che l'elaborazione politica del nostro partito – vale a dire il ricercare, l'individuare e lo stabilire via via, storicamente, gli obiettivi da scegliere e le forze da muovere per trasformare progressivamente la società – sia venuta e venga tuttora formandosi in modo meramente empirico, «praticistico», senza alcun collegamento a principi, senza un'analisi scientifica della società e dello sviluppo storico, priva di un suo respiro ideale.

In realtà, quell'analisi e quell'elaborazione, nonché la condotta politica effettiva che si è intrecciata con esse, con quei tratti che contrassegnano la vita e la lotta dei comunisti italiani, non si sarebbero potute compiere al di fuori di quella grande, vivente lezione (che non è e non può essere un «credo ideologico») trasmessa loro dai maestri del pensiero politico rivoluzionario, dai fondatori del movimento comunista, le scoperte e le invenzioni dei quali costituiscono un patrimonio decisivo a cui hanno attinto e attingono non solo il nostro partito, ma il movimento operaio e rivoluzionario di tutto il mondo, e da cui hanno preso vita molteplici movimenti di liberazione e numerose varietà di modi e di esperienze di costruzione di società anticapitalistiche avviate sulla strada del socialismo. Senza tale patrimonio, infatti, senza l'analisi marxista – senza un marxismo, cioè, inteso e utilizzato criticamente come insegnamento, non accettato e letto dogmaticamente come un testo immutabile – sarebbero del tutto inspiegabili non solo le attuali posizioni del Pci, ma anche la stessa crescita della sua forza organizzata e dei suoi consensi elettorali.

Ora, da questo grande patrimonio di orientamento ideale e culturale discende forse la concezione di un partito politico che professi una filosofia, e in particolare una metafisica materialistica e una dottrina atea, e che si proponga di imporre, o anche solo di privilegiare, nell'attività politica e nello Stato, una particolare ideologia e l'ateismo? Ancora una volta rispondo decisamente di no.

La prova, del resto, sta nei risultati ultimi a cui ci ha portato, sul terreno politico e programmatico, quel nostro convincimento, che discende anch'esso dalla dottrina, cui ci ispiriamo, per il quale l'effettivo processo storico e sociale è senza dubbio influenzato dalle idee (e anche dalle ideologie), ma in cui idee e ideologie sono condizionate dai movimenti reali fino a modificarsi di fatto e ad assumere, secondo un organico sviluppo, nuove accezioni e nuove forme. La prova, cioè, sta nelle adesioni che ricevono le nostre iniziative e i nostri atti concreti di politica interna e internazionale, nella stima che circonda il Pci qui e all'estero e in mezzo a tutti gli strati del nostro popolo: del che anche lei, signor Vescovo, pur con qualche riserva, ha voluto darci atto. Ebbene, come sarebbero stati possibili tali risultati, se il partito comunista non avesse perseguito e ricevuto il consenso, la partecipazione convinta anche di masse di cittadini che atei non sono, ma sono credenti, cristiani, cattolici?

Ma occorre ancora osservare che i risultati raggiunti dal Pci non sono frutto soltanto della sua generale politica rigorosamente laica e coerentemente unitaria: nell'ambito di questa, e data la peculiarità dell'Italia, essi sono anche il frutto del rilievo specifico e tutto particolare che, da Gramsci in poi, abbiamo dato alla questione del rapporto con il mondo cattolico.

Infatti, nonostante che dal 1947 in poi i dirigenti del partito che dichiara di ispirarsi ai principi cristiani – ma anche organizzazioni e autorità del mondo cattolico – si fossero lanciati a predicare e ad attuare il più sfrenato anticomunismo, il Pci i si è mantenuto fedele alla sua politica di comprensione e di collaborazione con le masse popolari cattoliche, con le loro organizzazioni con le loro istituzioni. Oltre venti anni fa, nel 1954, nel nefasto periodo della guerra fredda, Togliatti rivolse un appello per un'intesa con il mondo cattolico per salvaguardare l'umanità dalla terrificante minaccia atomica. Otto anni dopo, nel dicembre 1962, in una, «tesi» che egli propose e che il nostro X Congresso approvò, si compie un importante sviluppo della posizione del Pci verso i credenti: «Oggi – è scritto in quella tesi – non si tratta soltanto più di superare le preclusioni e i settarismi che fanno ostacolo alla collaborazione di forze socialiste e di forze cattoliche per ottenere risultati economici e politici immediati. Si tratta di comprendere come l’aspirazione a una società socialista non solo possa farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma che tale aspirazione può trovare uno stimolo in una sofferta coscienza religiosa posta di fronte a drammatici problemi del mondo contemporaneo. Oltre alla conferma del rispetto dei diritti religiosi, che ha un valore di principio in una società socialista, si pone quindi in modo nuovo per il movimento operaio il problema del rapporto con le masse cattoliche e le loro organizzazioni».

Qui, dunque, viene proclamato qualcosa di veramente nuovo, e cioè che il possedere una fede, l'essere ispirati da una coscienza religiosa, lungi dal venire considerato un fatto di per sé incompatibile con l'aspirazione al socialismo, viene addirittura giudicato una condizione che può stimolare il credente a perseguire anch'egli il rinnovamento in senso socialista della società.

Mi sembra, allora, sia del tutto comprensibile che cittadini di fede cristiana, cattolici professanti, e, come Lei dice, pubblicamente impegnati a restare tali, abbiano accolto l'invito a entrare come indipendenti nelle nostre liste elettorali e a essere eletti dai comunisti. Nessun tatticismo, nessun elettoralismo ci ha mosso e, sono sicuro di poterlo dire, li ha mossi. Anzi, semmai, contingenti motivi di opportunità e di tattica nella battaglia elettorale potevano sconsigliare di prendere una tale decisione. Ma con quel gesto il Pci ha inteso confermare, in modo quanto mai esplicito, non solo il suo rispetto per la religiosità di questi amici (come già aveva fatto per l'addietro verso i molti cristiani che da anni e anni militano nelle sue file), ma ha voluto soprattutto mettere in valore l'apporto che la loro umana e civile esperienza, religiosamente formata, può dare alla comune opera di rinnovamento, sottolineando nel tempo stesso la laicità dalla politica e dell’impegno politico. E non ho bisogno di rilevare che questo richiamo alla laicità non comporta la minima rinuncia alle rispettive tradizioni ideali, né l'immiserimento di queste a un fatto esclusivamente privato, ma sollecita invece a che esse, alla luce del sole, abbiano il giusto posto e cerchino un reciproco arricchimento, proprio quando, come oggi, le energie del Paese debbono unirsi solidamente per risanare la società e lo Stato e modificare la direzione politica dell'Italia.

Le considerazioni che sono venuto facendo mi portano a ricordare, come Lei ha fatto, quel bel passo dell'Enciclica di Giovanni XXIII, la Pacem in Terris, dove si fa distinzione tra dottrine filosofiche e movimenti storici reali che da esse hanno tratto origine, dove perciò, in qualche misura, il giudizio su questi prevale sul giudizio sopra filosofie considerate fallaci: un passo assai importante, pieno di comprensione per la fondamentale positività della storia e, quindi, se così posso dire, davvero non manicheo. Ma mi consenta di ricordare a mia volta un altro periodo di quella enciclica, là dove è scritto: «Gli incontri e le intese nei vari settori dell'ordine temporale fra credenti e quanti non credono o credono in modo non adeguato, perché aderiscono a errori, possono essere occasione per scoprire la verità e renderle omaggio». Dunque, le posizioni assunte e i comportamenti seguiti dal Pci lungo diversi decenni fino ad oggi, penso dovrebbero portarLa a riconoscere, signor Vescovo, che l'insieme di essi costituisce la valida garanzia che nel Partito comunista italiano esiste e opera la volontà non solo di costruire e di far vivere qui in Italia un partito laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista; ma di voler anche, per diretta conseguenza, uno Stato Iaico e democratico, anch'esso dunque non teista, non ateista, non antiteista.

Altrove, come nell'Europa orientate, in Paesi dove si sta costruendo il socialismo, si è dato vita a Stati in cui, per l'influsso di determinate tradizioni teoriche e per peculiari ragioni e condizioni storiche, si è finito nella pratica, per cadere in discriminazioni, anche pesanti, sulla base di criteri ideologici. Ma da questa situazione si sta cominciando a uscire sia pure faticosamente, lentamente e anche contraddittoriamente, giacché in alcuni Paesi dell'Est europeo si hanno anche tuttora manifestazioni di intolleranza ideologica di Stato.

Tuttavia, non si può non riconoscere che nell'Occidente europeo, mentre permane il capitalismo – e cioè il sistema moderno discriminatorio per eccellenza sul piano economico, sociale e politico –, esistono Paesi nei quali si legifera sulla base di aperte pregiudiziali ideologiche (come è il caso della Germania federate) e che, per esempio, il Concordato del 1929, che regola in Italia i rapporti tra Chiesa e Stato, è di cui non si è ancora riusciti ad attuare la necessaria profonda revisione, considera la religione cattolica religione di Stato.

E tacerò di quanto “costantinismo” e “temporalismo” sono ancora intrisi certi atteggiamenti politici ed ecclesiastici in alcuni Paesi europei e in casa nostra; né ricorderò quanto ancora tenaci siano in Italia, nel partito democristiano e in alcune parti della gerarchia della Chiesa, vecchie spinte e pretese integralistiche, pur dopo quel Concilio Vaticano II, quel pontificato di Angelo Roncalli, ed encicliche quali Ecclesiam suam e Populorum progressio dell’attuale Pontefice (Paolo VI, ndr), che hanno sollevato grandi speranze di rinnovamento nella coscienza dei cattolici in Italia e nel mondo.

II nostro Stato, quello che noi comunisti in misura cosi grande abbiamo contribuito a edificare con la Resistenza e la Costituzione, è uno Stato democratico soprattutto per l'ampiezza senza precedenti delle forze sociali che si sono poste a suo fondamento. Il nostro Stato è sorto come conseguenza del pieno ingresso nella vita politica nazionale delle masse proletarie, contadine e popolari di orientamento comunista, socialista e cattolico; è sorto dall'incontro e dalla partecipazione solidale di queste masse e dei loro partiti che, raccogliendo anche il miglior frutto della tradizione cavourriana e liberale, hanno dato luogo a una comune opera di rinnovamento democratico delle istituzioni, della società e del suo assetto. Per sussistere e svilupparsi in armonia con tale sua impronta sociale, politica e ideale questo nostro Stato italiano non può essere che laico, ossia non ideologico: solo cosi, solo in una pienezza di laicità, esso può esprimere veramente, in tutta la sua pregnanza, la propria originaria natura democratica. A questi principi noi comunisti ispiriamo la concezione dei rapporti tra Repubblica italiana e Chiesa cattolica, tra Stato e cittadini di fede cattolica e, più in generate, tra Stato e credenti.

Una sintesi chiarissima delle nostre convinzioni e posizioni su tali rapporti, e specialmente sui caratteri che secondo noi deve avere lo Stato italiano non solo ora ma anche in una società socialista, è contenuta in questo brano del discorso pronunciato da Luigi Longo, nella sua qualità di segretario generate del Pci, all'XI Congresso nazionale del partito nel 1966. In questo discorso si dice: «Affermiamo che noi siamo per uno Stato effettivamente e assolutamente laico; che, come siamo contro lo Stato confessionale, cosi siamo contro l'ateismo di Stato; che noi siamo per l'assoluto rispetto della libertà religiosa, della libertà di coscienza, per credenti e non credenti, cristiani e non cristiani. Siamo cioè contrari a che lo Stato attribuisca un qualsiasi privilegio a una ideologia, o fede religiosa o corrente culturale e artistica ai danni di altre».

Tali posizioni, con approfondimenti, adeguamenti e qualificazioni ulteriori, più volte il Pci ha avuto occasione di sostenere e illustrare in varie sedi, anche internazionali.

Perciò, dopo quanto mi è parso utile ricordarLe sin qui, non riesco proprio a vedere in quale dichiarazione o atto dei comunisti italiani trovino fondamento i timori, che velatamente Lei affaccia, per intolleranze e prevaricazioni ideologiche che possono venire da parte nostra a danno di altre formazioni ed espressioni democratiche della vita sociale, politica, culturale, religiosa e, in particolare, a danno di quelle cristiane e cattoliche. Non c'è alcuna intenzione, da parte nostra, di “trattar da nemiche” istituzioni religiose dedite a opere assistenziali ed educative. Il suo invito a non osteggiarle nasce forse dal fatto che, in talune occasioni, l'espansione dell'iniziativa delle amministrazioni locali nel campo della primissima infanzia, in quello scolastico e in quello sanitario, ha oggettivamente creato difficoltà a istituzioni private, sia religiose che laiche.

Lei se ne dispiace, io posso comprenderLa. Ma vorrei che si ponesse attenzione al fatto che l'azione in questi campi di uno Stato democratico non può essere valutata e giudicata alla stessa stregua del comportamento che fu proprio dello Stato liberal-borghese. Come diretta conseguenza dell'essere sorto su cosi ampie e popolari basi sociali, il nostro Stato democratico dissolverebbe se stesso, si decomporrebbe, e lascerebbe decomporre e dissolvere la società, se non intervenisse con la maggior ampiezza possibile sul terreno dei servizi pubblici, sociali, civili, per soddisfare esigenze primarie del popolo.

Lei sa bene che lo Stato liberal-borghese era uno Stato elitario, oligarchico, che, mentre in conseguenza di un generale laisser faire abbandonava ampissimi spazi vuoti in campo sociale ed educativo, nei quali poteva esplicarsi la supplenza dei singoli (privati e organizzazioni, laici e religiosi), alle istituzioni, cui esso dava vita e che gestiva direttamente imprimeva, invece, un carattere ed un indirizzo, nonché chiusamente classisti, fortemente ideologizzanti in senso anticlericale e massonico. L’estendersi dell'iniziativa di questo nostro Stato, che ha le caratteristiche di cui ho già parlato, avviene invece – è non può non avvenire – con tutt'altro spirito e in tutt'altra forma, e tende a superare, non solo quelle parzialità e quei limiti di classe, ma anche le pregiudiziali ideologiche, che caratterizzavano lo Stato liberal-borghese. Il nostro Stato democratico e pluralistico, soprattutto attraverso le sue autonome articolazioni locali, non può non assumere in proprio – ma per amministrarli democraticamente – fondamentali servizi civili e sociali per il bene della comunità nazionale.

E democraticamente vuol dire che, anche all'interno delle strutture scolastiche, assistenziali e sanitario cui i poteri pubblici danno vita, debbono poter entrare e operare, a titolo pieno, con il loro patrimonio ideale e culturale, le diverse energie di tutti coloro che vogliano e siano capaci di soddisfare esigenze delle famiglie e dei cittadini. E qui si apre un largo spazio alla partecipazione degli appartenenti agli ordini e alle istituzioni religiose, alla iniziativa degli enti e delle autorità ecclesiastiche, sol che si sforzino di comprendere la democrazia con le sue regole, e di appropriarsene, di contribuire a svilupparla non unicamente intendendola come moltiplicazione di corpi separati e incomunicanti, bensì come crescita di realtà sempre più ricche di una loro multiforme, pluralistica vita interna.

Certo, comprendiamo bene che la Chiesa ha in tali campi una così cospicua eredità storica che per muoversi in modo nuovo ha bisogno di tempo. Sappiamo che tutto non può avvenire dall'oggi al domani, che questo processo di passaggio e di trasformazione (che è oggettivo nel quadro di uno sviluppo democratico) non può avvenire in modi drastici e in tempi affrettati perché ciò porterebbe a conflitti che vanno evitati.

Il nostro scopo è di lavorare insieme alle altre forze e organizzazioni, che operano in campo sociale, educativo e assistenziale, nel costante dialogo e nell'informazione reciproca, per giungere a una appropriata regolamentazione che, senza violare i principi costituzionali, garantisca ai cittadini che in ogni istituzione sociale siano assicurate condizioni fondamentali di efficienza e di democrazia.

In conclusione, lo Stato democratico deve, in linea di principio, rispettare le iniziative autonome dei privati sul terreno sociale, ma non può, per malinteso rispetto del pluralismo, rinunciare alle proprie funzioni.

In ogni caso, per quanto riguarda il Pci, Lei non troverà mai in noi, signor Vescovo, le astrattezze settarie o il freddo statalismo di certi ministri francesi della fine del secolo scorso, quali un Ferry o un Combes. Per quanto riguarda i cattolici e le loro organizzazioni, il nostro auspicio è che essi, invece di farsi soltanto i custodi gelosi delle loro istituzioni, soprattutto si impegnino e partecipino al buon funzionamento democratico e al rigore economico dei fondamentali servizi di una società democratica. Noi comunisti vogliamo una società organizzata in maniera tale da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società, “cristiana” o uno Stato “cristiano”; e non già perché siamo anticristiani, ma solo perché sarebbero anch'essi una società e uno Stato “ideologici”, integralisti. Non ho tuttavia difficoltà a riconoscere che, anche quando lo Stato riuscirà ad assicurare un livello quantitativo e qualitativo sempre più elevato di servizi sociali, dovrà essere garantito il libero apporto delle organizzazioni cristiane e delle istituzioni ecclesiastiche nei campi di attività rivolte a soddisfare nuove esigenze per la costruzione di una società democratica, libera, più giusta, nuova.

Togliatti, in un suo discorso del 1963 a Bergamo, dopo aver rinnovato l'appello alla comprensione reciproca tra mondo cattolico e mondo comunista, invitava a persuaderci della necessità di «considerare il mondo cattolico come un complesso di forze reali – Stati, governi, organizzazioni, coscienze individuali, movimenti di varia natura – e studiare se e in qual modo, di fronte alle rivoluzioni del tempo presente e alle prospettive di avvenire, siano possibili una comprensione reciproca, un reciproco riconoscimento di valori e quindi una intesa e anche un accordo per raggiungere fini che siano comuni in quanto siano necessari, indispensabili per tutta l'umanità... Sotto tutti gli aspetti da cui lo si voglia considerare – aggiungeva Togliatti –, il problema dei rapporti tra il mondo cattolico e il mondo comunista si colloca al centro. Bisogna risolverlo in modo positivo, per il bene dei lavoratori e di tutta l'umanità. In modo positivo noi vogliamo che sia risolto e lavoriamo perché lo sia.

Di fronte anche ai più forsennati attacchi anticomunisti – concludeva Togliatti – noi rispondiamo con l'energia necessaria, ma ripetiamo, allo stesso tempo, che non vogliamo la rissa tra cattolici e comunisti, perché questa recherebbe danni a tutti e prima di tutto alla causa per cui noi combattiamo, che è la causa della pace, della salvezza della nostra civiltà, dell'avvento al potere delle classi lavoratrici, della costruzione di una società nuova».

A questa ispirazione e a questa linea posso in conclusione assicurarLe, signor Vescovo, che il Partito comunista italiano si è mantenuto e si manterrà fedele.

Enrico Berlinguer

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