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Famiglia di Maria, dall'abuso alla libertà: una storia

Famiglia di Maria, dall'abuso alla libertà: una storia

ROMA-ADISTA. Una prima fase di “Love bombing”, una spiritualità e una vita comunitaria coinvolgenti, e poi una fiducia nel superiore, voce unica della volontà di Dio, che si fa obbedienza cieca, docilità assoluta e impegno a spingersi oltre i propri limiti, fino a cancellare e dimenticare tutto di sé, lentamente, senza rendersene conto: aspirazioni, bisogni, affetti, libertà personale. Fino a quando il corpo e la psiche si rivoltano e il crollo fa comprendere che non a Dio o alla santificazione ci si è avvicinati, ma alla frattura di sé, all'esaurimento, alla disperazione: un momento di crisi che apre la porta, se si è fortunati o se si cerca un aiuto esterno, alla presa di consapevolezza.

È la storia che accomuna molti membri di comunità con derive settarie, vittime di abusi psicologici e spirituali, in cui ritroviamo quanto ci hanno raccontato alcuni testimoni, ex membri della Famiglia di Maria, comunità dalla storia complicata e controversa, che stiamo raccontando da un anno a questa parte con una lunga inchiesta (v. Adista Notizie nn. 44/22; 3, 6, 19, 25/23; Adista online 7/2/23; 21/4/23). Da un anno e mezzo sotto tutela vaticana, la Famiglia di Maria è stata co-fondata e diretta per trent'anni da p. Gebhard Maria Sigl, ora deposto dalle sue funzioni per presunti abusi psicologici e spirituali e sotto inchiesta del Dicastero per il Clero, con il divieto di contattare i suoi membri. 

Ed è la storia di una persona, ex membro di questa comunità, che ne è uscita in tempi recenti dopo molti anni e molta sofferenza, e che desidera restare anonima. Il suo è un messaggio di consapevolezza e di speranza: la ricostruzione del proprio sé e di un percorso di vita denso di significato dopo un'esperienza di abuso psicologico e spirituale è possibile.

 

Lei è stata per molti anni un membro della Famiglia di Maria. Cosa cercava nella vita religiosa e perché ha scelto proprio questa comunità?

Da giovane avevo il desiderio di dedicare la mia vita interamente all'edificazione del Regno di Dio, che era per me la cosa più ricca di senso. Ciò che mi aveva colpito della comunità era la sua profonda spiritualità e la sua opera missionaria. Ho considerato questi due fattori i migliori presupposti per condurre una vita profondamente appagante.



Qual è stato il suo primo contatto con la comunità e come è stata accolta? Corrispondeva alle sue aspettative? A quali bisogni umani fondamentali rispondeva la vita comunitaria?

Ho conosciuto la Famiglia di Maria durante un pellegrinaggio giovanile a cui partecipavano alcuni fratelli e sorelle. Erano giovani, allegri e molto simpatici. Alcune volte mi avevano permesso di recitare il rosario con loro; non avevo mai sentito meditazioni del rosario così profonde e coinvolgenti. Sono entrata già l'anno dopo, e sono stata accolta con grande affetto, tutti erano felici della mia decisione. L'apprezzamento dimostrato nei miei confronti aveva superato tutte le mie aspettative. Era come se avessi trovato una nuova famiglia alla quale ho sentito di appartenere più della mia.

 

Come sono stati i primi tempi nella comunità? Che cosa pensava di sé e della Famiglia di Maria?

Mi sono sentita come un pesce nell'acqua. Ho assorbito come una spugna la spiritualità che ci veniva trasmessa. Tutta la mia vita mi è apparsa improvvisamente ricontestualizzata: ho scoperto che la comunità era particolarmente orientata al rinnovamento della Chiesa e che come suo membro possedevo una vocazione grande e unica. Ecco perché era importante tendere a una sempre maggiore santità. Per questo fine nessun sacrificio era eccessivo. Ero pronta a fare qualsiasi cosa per diventare santa il prima possibile.

 

Sentiva che la sua personalità, la sua individualità e la sua libertà personale erano rispettate e valorizzate? Ha mai avuto l'impressione che il suo superiore "prendesse il posto" di Dio e agisse e parlasse in suo nome?

Imparai presto che il mio benessere non era importante. In definitiva, tutto ruotava intorno alla realizzazione del regno di Dio e del suo piano per me. L'ho imparato grazie al superiore della comunità, p. Gebhard Sigl, che era anche la mia guida spirituale. Come tutti, credevo fermamente che Dio parlasse attraverso di lui. Perciò ho accettato con obbedienza ciò che mi diceva. All'epoca non mi rendevo conto che stava abusando della mia libertà e che stavo perdendo sempre più la mia individualità.


Il suo rapporto personale con Dio era diretto o mediato da p. Sigl? In che misura e in che modo il superiore si frapponeva tra lei e Dio?

Poiché pregavo molto, credevo di avere un rapporto speciale con Dio. Tuttavia, avevo completamente smesso di prestare attenzione alla mia percezione e non ero più in contatto con me stessa. Avevo sentito troppo spesso dire che i sentimenti e i pensieri possono ingannare e che dovevo rinunciare completamente a me stessa per seguire la guida di chi comanda. Per questo motivo ho messo da parte i miei desideri e le mie esigenze. Seguivo solo ciò che mi veniva detto dalla mia guida spirituale. Solo molto più tardi ho imparato, attraverso il discernimento degli spiriti secondo Sant'Ignazio di Loyola, che era proprio il legame con se stessi e con i propri sentimenti a essere importante per ascoltare la voce dolce di Dio nel cuore.

 

È in modo molto sottile e graduale, dunque, che si perde gradualmente il contatto con se stessi e con la realtà, con il mondo esterno. La realtà che si sperimenta all'interno della comunità diventa “totale”, gli insegnamenti del superiore diventano legge e non si può più vedere oggettivamente il male che si subisce, né l'inganno che a volte si nasconde. Ma il dolore psicologico ed emotivo, se non fisico, è palpabile... Che valore si dà nella comunità al dolore interiore, al disagio, alle difficoltà personali, ai dubbi? È percepito come il risultato di una forma di violenza?

Ci è stato detto che dovevamo stare attenti al “mondo” e che avremmo dovuto essere grati di poter vivere in un ambiente protetto. Fuori c’era il mondo “cattivo” e dentro la comunità “buona”. Questo pensiero in bianco e nero distorceva la mia percezione senza che nemmeno me ne rendessi conto. È stato solo dopo che me ne sono andata via, che ho visto che c’era molto di buono all’esterno e che nella comunità c’erano gravi abusi.

Dovevamo offrire a Dio il dolore interiore o persino la sofferenza fisica. Le difficoltà e i dubbi personali venivano di solito interpretati come "mancanza di devozione" o "troppa poca fiducia". Solo molti anni dopo ho capito che molte difficoltà interiori derivavano dal mancato rispetto di bisogni umani elementari. Mi ci è voluto molto tempo per capire che ero diventata vittima di una violenza spirituale.

 

C'è stato un momento in cui qualcosa è andato in crisi? Un momento in cui si è resa conto che le sue esigenze erano state manipolate?

C’è stato un momento in cui non mi sentivo più bene, né mentalmente né fisicamente, e mi sono trovata in una grave crisi. Ciò era legato a decisioni prese dal superiore che mi avevano fatto del male. Ho capito che Dio non avrebbe potuto volere che ciò accadesse. Fu allora che cominciai ad avere i primi dubbi sul fatto che Dio parlasse davvero attraverso il responsabile.

 

Quali difficoltà incontra chi, ponendosi dei dubbi, vorrebbe confidarsi con qualcuno? E cosa può fare, dall'interno?

Per i nostri dubbi e le nostre domande dovevamo rivolgerci solo al nostro direttore spirituale o alla dirigenza. Non era auspicabile cercare un accompagnamento esterno, perché "la comunità ha tutto ciò che serve". Oggi ritengo che sia estremamente importante guardare dall'esterno per evitare derive spirituali. Raccomando alle persone che si trovano all’interno di questi sistemi di cercare un sostegno professionale per ritrovare la propria libertà interiore.

 

Quali elementi della vita comunitaria, della vita spirituale, del rapporto con Dio, del rapporto con i superiori cominciavano ad apparirle problematici?

Grazie al mio sviluppo interiore, ho iniziato a chiedermi per la prima volta cosa desideravo nella mia vita e cosa era importante per me come persona. Iniziai a porre dei limiti e a farmi valere, anche nei confronti dei miei superiori.

Poiché nella comunità la totale abnegazione era vista come la strada maestra per la santità, ho incontrato più volte resistenza a causa del mio nuovo modo di comportarmi. Allo stesso tempo, mi sono reso conto che Dio mi aveva creato come una persona matura che si sarebbe assunta la responsabilità di se stessa e della propria vita. Tuttavia, all'inizio ho avuto dei dubbi sul fatto che la strada che avevo scelto fosse gradita agli occhi di Dio. Solo con il tempo ho trovato una profonda certezza interiore che stavo facendo la cosa giusta.

 

Di cosa ha bisogno, allora, una persona per superare questo sentimento di profonda insicurezza e paura che può provare nel decidere di riprendere in mano la propria vita?

Mi ha aiutato molto riascoltare il mio cuore. La pace interiore è diventata la mia guida interiore, che mi indica la giusta direzione in tutte le mie decisioni. Anche il sostegno delle persone esterne alla comunità mi ha dato la forza di continuare il mio percorso con determinazione, nonostante i molti ostacoli.

 

Qual è stato l'aspetto più conflittuale, più disperante, in cui si è sentita violata?

Mi ha ferito il fatto che il mio cammino verso la libertà interiore fosse visto come incompleto da alcuni membri della comunità. Ai loro occhi, ero diventata infedele alla spiritualità della comunità. Allo stesso tempo, mi sentivo molto più legata a Dio di prima. Prima dubitavo dell'amore di Dio per me e pensavo che non fosse contento di me se non rispettavo tutte le prescrizioni fino al minimo dettaglio. Ora potevo credere che Dio mi ama incondizionatamente, indipendentemente dalle mie "prestazioni".

 

Perché è così difficile riconoscere e accettare, all'interno della comunità, che alcuni atteggiamenti e insegnamenti sono devianti? Che ruolo hanno in questo i superiori?

Per molto tempo, le idee spirituali che mi venivano trasmesse mi sono sembrate così credibili che non mi è mai venuto in mente che qualcosa potesse essere sbagliato. Non avevamo a disposizione altra letteratura, né eravamo entrati in contatto con altri approcci spirituali. C'era una risposta per tutto, e in qualche modo i pezzi del puzzle si incastravano in modo tale da far emergere un quadro coerente. Se subivamo attacchi esterni, questi venivano interpretati come tattiche del nemico malvagio che voleva danneggiare la comunità. Di conseguenza, tutte le critiche rimbalzavano senza ulteriori discussioni.

Solo dopo essermene andata ho sentito parlare per la prima volta di abuso spirituale e della relativa manipolazione spirituale. Ho riconosciuto esattamente ciò che avevo sperimentato in comunità. Ho capito che ero stata abusata spiritualmente e che, di conseguenza, avevo perso l'accesso a me stessa e a Dio. Non avevo riconosciuto nulla di tutto ciò nei molti anni in cui ero stata nel sistema. Mi ci è voluto molto tempo per accettare questa consapevolezza e la profonda delusione che ne derivava. Anche se i superiori forse non ne erano consapevoli, manipolavano i membri in modo che li seguissero senza mettere in discussione la loro volontà. Solo ora mi sono resa conto del legame con i numerosi crolli mentali e fisici dei membri, di cui avevo sentito parlare nella comunità. Ho capito quanto fosse pericoloso l'intero sistema.

 

C'è un'ambivalenza di sentimenti che prova chi si trova all'interno di un sistema chiuso dal quale desidererebbe uscire?

Ho vissuto molto forte questa ambivalenza interiore: da un lato la comunità era per me una famiglia e non volevo perderla. Ci era vietato avere amicizie esterne, quindi non avevo praticamente nessun contatto sociale, il che mi spaventava. La mia identità era completamente legata alla famiglia di Maria e sentivo di appartenervi, nonostante tutte le difficoltà. Andarmene avrebbe significato dover ridefinire completamente me stessa e fare un passo nel vuoto.

D’altro canto, sentivo che non potevo più continuare il mio cammino in questa comunità. Il divario tra la mia realtà interiore e i dettami della comunità era troppo grande perché potessi restare lì. Ho capito che dovevo essere fedele a me stessa per compiere la volontà di Dio per la mia vita. Pertanto, per me non c’era altra scelta che andarmene.

 

Quali sono le paure che sorgono quando si pensa all'eventualità di lasciare la comunità? C'è, al suo interno, qualche forma di tutela giuridica e di previdenza sociale dei membri? Qualche forma di professionalizzazione dei membri grazie alla quale non si ritrovino senza nulla?

La mia paura di fare questo passo era grande: per prima cosa, non avevo familiarità con la vita lavorativa e nel corso degli anni non era stato versato nulla alla cassa pensioni. Inoltre, mi chiedevo come avrebbero reagito le persone che mi conoscevano quando avrebbero scoperto che me ne andavo. A volte questi ostacoli sembravano quasi insormontabili. Solo la mia profonda fiducia in Dio mi ha aiutato a osare un nuovo inizio.

 

Quando lei è uscita dalla comunità, qual era la ferita più profonda da curare? Ha avuto paura di uscire nel mondo esterno dopo tanti anni?

Contrariamente alle aspettative, ho trovato molta buona volontà nel “mondo”. Nessuno mi ha giudicato, ho ricevuto anzi molto sostegno. Ho sempre trovato le persone giuste al momento giusto che mi hanno aiutato a continuare il mio percorso passo dopo passo. Ho riconosciuto come Dio fosse al mio fianco e mi guidasse. Anche se all'inizio non è stato facile, sono felice e grata di questa esperienza e della certezza che la vita va sempre avanti.

Mi sono resa conto di quanti anni della mia vita mi fossero stati tolti e di come mi fossi persa importanti fasi di sviluppo che ora dovevo recuperare. La sensazione di essere stata tradita mi feriva profondamente.

 

Dopo un'esperienza così assoluta, è possibile costruirsi una nuova vita?

Penso che sia importante non restare da soli a gestire queste esperienze, per non lasciarsi prendere dall'amarezza dentro. Solo quando capisci cosa ti è successo puoi elaborare gradualmente ciò che hai vissuto ed essere di nuovo fedele a te stesso. Anche se il dolore e la delusione possono rimanere, è possibile vivere di nuovo una vita felice, appagante e profondamente significativa.

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