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27 anni di immersione nella storia ecclesiale e sociale

27 anni di immersione nella storia ecclesiale e sociale

Tratto da: Adista Documenti n° 1 del 13/01/2024

Qui l'introduzione a questo testo. 

Teniamo la nostra 24ª Assemblea nazionale –- la prima dopo la scomparsa di Vittorio Bellavite, per oltre 15 anni Coordinatore nazionale – non alla cascina Contina, impossibilitata quest’anno a ospitarci a causa dei danni provocati da un incendio, ma presso le Acli milanesi, che ci hanno accolto subito con grandissima disponibilità, e di questo le ringraziamo davvero. E la teniamo in un momento storico segnato, sul piano ecclesiale, dal complesso processo sinodale della Chiesa universale, e su quello sociopolitico, dalla ricomparsa della guerra come elemento stabile, almeno indirettamente, nella nostra vita quotidiana.

Questo binomio – sinodalità della Chiesa, presenza permanente della guerra – chiama in causa, a mio parere, le ragioni che sono alla base del nostro movimento fin dall’Appello dal popolo di Dio e ne conferma l’attualità, pur in un contesto ben diverso da quello di 27 anni fa e coscienti dell’esiguità delle nostre forze.

Mi pare perciò utile non tanto proporvi una “storia di Noi siamo Chiesa”, che peraltro Vittorio aveva cominciato a scrivere e dovremo certamente portare a termine – alcuni elementi si possono comunque ritrovare nella sua ampia relazione per il nostro ventennale, che invito caldamente a rileggere (https://www.noisiamochiesa.org/ventennale-dinoi-siamo-chiesa-il-racconto-di-venti-anni/) – ma ripercorrere sommariamente le nostre vicende per individuare alcuni snodi di fondo del nostro cammino, così da rafforzare una “memoria condivisa” non dei singoli fatti, ma dei caratteri e delle scelte che hanno orientato un lavoro quasi trentennale. Questo perché, com’è naturale, gran parte di chi oggi aderisce a Noi siamo Chiesa non era presente alla sua nascita.

Questi tratti, che sono venuti formando "l'identità" o, come diceva Vittorio, "il Dna" di Noi siamo Chiesa, credo si possano ricondurre a cinque: il suo essere un movimento internazionale, il suo agire tenendo conto della congiuntura ecclesiale, il suo concepire la riforma della Chiesa non sconnessa dall’impegno per un mondo più giusto e sostenibile, il suo costante impegno a “fare rete” con altre sigle e la sua scelta di operare per la riforma della Chiesa cattolica.

1. Un movimento riformatore internazionale

Noi siamo Chiesa nasce in Austria nell’estate del 1995, quando alcuni cattolici e alcune cattoliche, di fronte alle rivelazioni sugli atti di pedofilia compiuti dal card. Hans Groër, arcivescovo di Vienna, lanciano un Appello al popolo di – quasi la metà dei cattolici austriaci “praticanti” – in calce a cinque richieste: 1) superamento della divisione tra clero e laicato e partecipazione delle Chiese locali alle nomine dei vescovi; 2) piena equiparazione dei diritti delle donne e loro accesso ai ministeri diaconale e presbiterale; 3) libera scelta del presbitero tra forma di vita celibataria e non celibataria; 4) valutazione positiva della sessualità (quindi libertà di coscienza nella regolazione delle nascite, netta distinzione tra metodi contraccettivi e aborto, maggiore comprensione per i rapporti prematrimoniali e la condizione omosessuale) e più esplicita enfasi su pace, giustizia e salvaguardia del creato; 5) messaggio gioioso e non minaccioso, con maggiore disponibilità alla riconciliazione con divorziati risposati e preti sposati. In autunno, in Germania, un analogo appello raccoglie in due mesi 1,8 milioni di firme e nel semestre successivo un testo in alcuni casi quasi identico a quello austriaco, in altri un po’ modificato, viene lanciato in Spagna, Francia, Belgio, Svizzera, Italia, Olanda, Canada, Stati Uniti, Brasile e Cile, coinvolgendo però un numero più modesto di sottoscrittori (comunque nell’ordine di alcune decine di migliaia); e in novembre a Roma viene fondato il Movimento internazionale Noi siamo Chiesa (Imwac, oggi Wac-I), che nell’ottobre 1997, sempre a Roma, in occasione del 35° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, realizza un “Incontro del popolo di Dio”, cui partecipano oltre 500 persone provenienti da 16 Paesi di tutto il mondo e consegna in Vaticano 2,5 milioni di firme raccolte in due anni, principalmente in Europa.

Qui c’è il primo aspetto fondamentale di Noi siamo Chiesa: il suo carattere internazionale. Iniziative per chiedere riforme della Chiesa, infatti, non erano mai mancate negli anni attorno al Concilio, ma erano sempre state circoscritte a singole personalità, a piccoli gruppi, a Chiese locali o nazionali. La grande intuizione questa volta è stata quella, in una fase ancora “ascendente” dei movimenti nei singoli Paesi, di mettersi insieme e di farlo rispettando le differenze di sensibilità, di storia, di forme organizzative e di attivismo esistenti nei diversi contesti. Così, per fare qualche esempio, non si è mai arrivati a un unico appello internazionale, ma ciascun Paese ha il suo, con differenze a volte significative tra l’uno e l’altro; queste diversità esprimono visioni non del tutto identiche della riforma della Chiesa, prevalentemente centrate sugli aspetti intraecclesiali nei Paesi di lingua tedesca, molto sensibili alla dimensione anche sociale in quelli latini; tra i gruppi nazionali aderenti, a volte ce n’è solo uno per Paese, altre volte ce ne sono di più, con nomi che variano da Noi siamo Chiesa a Nous sommes aussi l’Eglise, ad altri con denominazioni proprie; le stesse dimensioni numeriche variano, da movimento relativamente di massa in Austria e Germania fino a realtà con poche decine di aderenti, come pure gli stili di lavoro, soprattutto all’inizio centrati sulla raccolta di firme nei Paesi tedeschi e su attività di approfondimento altrove, e in seguito su azioni dirette o su produzione di documenti, ecc.

Le dinamiche che si sviluppano in ogni Paese sono distinte. Se in Germania e Austria Wir sind Kirche mantiene una forte identità propria, pur in presenza di movimenti riformatori che la precedono e la seguono nel tempo, in altri Paesi (Spagna, Belgio, Francia, ecc.) da subito le sezioni di Nsc operano soprattutto all’interno di reti con altri gruppi, comunità, riviste, ecc.; in alcune nazioni gruppi presenti all’inizio in seguito scompaiono (Svizzera, Danimarca Sud Tirolo, ecc.), in altri nascono più tardivamente (Svezia, Norvegia, ecc.), in qualche caso sorgono e poi spariscono rapidamente (Catalogna, Sudafrica), a volte per poi ricomparire dopo qualche anno (Irlanda).

Tutto ciò ha comportato anche fatiche, momenti di paralisi, conflitti, che però non hanno impedito a questa organizzazione, fondata esclusivamente sul volontariato e sull’autofinanziamento, di sopravvivere dopo oltre un quarto di secolo. Oggi Wac-I è presente in una ventina di Paesi (Austria, Australia, Belgio, Brasile, Cile, Francia, Germania, India, Inghilterra, Irlanda, Italia, Olanda, Norvegia, Pakistan, Portogallo, Scozia, Spagna, Stati Uniti, Svezia), ma non sono mai state superate le difficoltà ad aprire sezioni o almeno collegarsi con sigle nell’Europa orientale e in Africa.

Questa dimensione internazionale, naturalmente poco visibile nella nostra vita quotidiana, anche per la debolezza del nucleo centrale di coordinamento, che noi abbiamo sempre puntato a rafforzare per renderlo più adeguato alla struttura della Chiesa cattolica, è stata comunque fondamentale per il movimento italiano, non solo perché a quel livello esso ha operato in modo molto caratterizzato (per es. sostenendo un’idea “non autoreferenziale” della riforma) e propositivo (da noi sono venute idee come la partecipazione ai Forum sociali mondiali o il progetto Council 50 che nel 2015 ha riunito a Roma un centinaio di rappresentanti dei movimenti cattolici riformatori e progressisti di tutto il mondo), ma anche perché essa ha dato al nostro piccolo gruppo un respiro e legami extranazionali che nessun altra realtà italiana a noi affine può vantare, ci ha permesso di maturare uno sguardo planetario sui problemi della Chiesa e di non sentirci soli nonostante i nostri evidenti limiti.

2. Operare in un contesto ecclesiale mutevole

Un secondo elemento caratterizzante è stato lo sforzo di perseguire i propri obiettivi tenendo conto della mutevolezza del contesto, soprattutto ecclesiale.

La nascita di Noi siamo Chiesa è risultata subito un evento “controcorrente”. La metà degli anni ‘90 erano infatti il momento in cui il progetto wojtylian-ratzingeriano di neocristianità appariva trionfante: la “normalizzazione” dei fermenti postconciliari era sostanzialmente compiuta, le correnti critiche e riformatrici erano state messe ai margini soprattutto in Europa e America Latina, i nuovi movimenti ecclesiali conservatori (Comunione e liberazione, Opus Dei, Legionari di Cristo, ecc.) vivevano il momento di massima auge, l’istituzione cattolica incassava i dividendi in termini di prestigio e influenza della caduta del Muro di Berlino e della fine dell’Unione Sovietica, ecc.

In questo contesto e per tutto il pontificato di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Noi siamo Chiesa ha svolto un compito “testimoniale”, nel senso che si è adoperata, spesso in solitudine, per tenere accesa la fiaccola delle riforme della Chiesa, nella piena consapevolezza che il loro raggiungimento avrebbe richiesto tempi lunghi, visto che perfino parlarne pubblicamente era di fatto vietato, come testimonia la rimozione del vescovo australiano Bill Morris ancora nel 2011. Da questo punto di vista, se l’arrivo di Ratzinger al soglio pontificio e poi l’incontro tra Benedetto XVI e Hans Küng avevano suscitato qualche speranza in Wir Sind Kirche-Germania, la sezione italiana parlò subito di «pesante continuità, chiusura, rigidità dottrinale, pastorale e disciplinare».

D’altro canto, più che altrove, in Italia i primi anni di vita di Noi siamo Chiesa erano stati segnati dal totale ostracismo da parte dell’istituzione ecclesiastica. Basti citare tre episodi: l’immediato divieto imposto ai Consigli pastorali parrocchiali da mons. Attilio Nicora, all’epoca vescovo di Verona, di discutere i contenuti dell’appello, l’indisponibilità della diocesi di Milano a concedere nel gennaio 1997 l’uso di una qualunque chiesa per una Messa celebrata da mons. Jacques Gaillot, la pressione esercitata direttamente dal card. Martini su mons. Armand Le Bourgeois, vescovo emerito di Autun, in Francia, che aveva accettato di intervenire al nostro convegno del 2001 sui divorziati risposati, affinché desse all’ultimo momento forfait. E quel convegno fu il primo che potemmo svolgere in una sede ecclesiale, grazie alla disponibilità della Corsia dei Servi e di p. Ermes Ronchi. A ciò si aggiungevano la rigida “cortina del silenzio” della stampa cattolica nei nostri confronti, salvo pochissime eccezioni (in primis Adista e Tempi di fraternità, con le quali il rapporto è stato di collaborazione), e il disinteresse della stampa laica (che dura ancora oggi) nonché la distanza anche di settori progressisti del cattolicesimo italiano, per es. quello formato da molti missionari, che giudicavano secondario l’impegno per la riforme della Chiesa rispetto a quello per la giustizia sociale o la pace, ritenendo quindi di non dover rischiare interventi disciplinari delle autorità ecclesiastiche che avrebbero assai ridotto la loro possibilità di operare nelle parrocchie e in altri spazi ufficiali. Ci sono però state alcune eccezioni, rappresentate da Pax Christi, con cui abbiamo sempre avuto un rapporto sororale, da teologi come Carlo Molari e Giannino Piana, e da vescovi come Giuseppe Casale e Luigi Bettazzi, tutti scomparsi di recente, che hanno partecipato da subito ai nostri incontri, hanno prefato i nostri libri e hanno pubblicamente appoggiato le nostre tesi. Di fatto, in molti casi, quella di Noi siamo Chiesa è stata l’unica voce a sollevare certi temi con libertà all’interno della Chiesa italiana.

Con l’ascesa di Bergoglio al soglio pontificio c’è un cambiamento della fase ecclesiale, non perché “dall’opposizione siamo andati al governo”, che è affermazione ridicola, ma perché la libertà di parola fa sì che i nostri temi si trovino tutti al centro del dibattito ecclesiale e vengano discussi perfino in un Sinodo. Il nostro ruolo, allora, non è più quello di “testimoniare”, ma di agire per ottenere risultati concreti, passi avanti nell’adozione delle riforme, in una Chiesa dove la crescita di consenso nella base cattolica in molti Paesi verso cambiamenti strutturali si accompagna alla pesante eredità di quasi 40 anni di restaurazione postconciliare (per es. nella mentalità del clero giovane), ai processi di secolarizzazione nelle aree tradizionalmente “centrali” della cattolicità e ai fenomeni di polarizzazione dell’opinione pubblica ecclesiale che riflettono quelli emergenti in molte società.

Per un decennio i nostri inviti al dialogo rivolti ai vertici della Cei sono stati del tutto ignorati. Solo nel 2007 Vittorio fu ricevuto dal card. Bagnasco, da poco succeduto al card, Ruini alla presidenza della Conferenza episcopale, per un incontro formale e rimasto senza seguito, finché nell’aprile di quest’anno una delegazione di Noi siamo Chiesa si è riunita col card. Matteo Zuppi. Nel frattempo, nel 2015, Vittorio potè partecipare, su nostra richiesta, al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze.

Non si tratta comunque di iscriversi al “partito di Bergoglio”, con un atteggiamento che in fondo ripropone la centralità del Papa, sia pur questa volta più aperto dei due ultimi predecessori, ma di leggere correttamente la congiuntura in cui siamo chiamati a operare, mantenendo sempre la nostra libertà di giudizio e soprattutto sottraendcsi alla pretesa di “leggere nella testa del Papa” per discettare se è un riformista, un rivoluzionario, un conservatore mascherato o semplicemente un “vorrei, ma non posso”, come pure all’altalena tutta sentimentale tra speranza e illusione. Assai più utile, mi pare, per il nostro lavoro, è cercare di interpretare il momento ecclesiale alla luce delle tendenze di lungo periodo che vi operano, dei diversi soggetti che vi interagiscono, dei differenti progetti che vi si incontrano e scontrano.

In questo senso, per esempio, e contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, in una parte dei settori ecclesiali che più avevano patito la “restaurazione” wojtylian-ratzingeriana e ad essa avevano opposto resistenza, l’elezione di Bergoglio, col mutamento di clima che ha comportato, non ha prodotto una mobilitazione finalizzata al rilancio della spinta riformatrice conciliare, ma un ripiegamento accompagnato da una sorta di delega al Papa, quasi che, dopo aver faticosamente tentato di “reggere” al “ritorno alla grande disciplina”, il venir meno della cappa opprimente avesse fatto dire: “Finalmente possiamo respirare e lasciare il campo. Tanto ci pensa Francesco”. Questo fenomeno si innesta in una dinamica più ampia, che mostra le differenze tra l’epoca del Vaticano II e l’attuale: se, infatti, allora le riforme conciliari giunsero sull’onda di una poderosa spinta dal basso, maturata sia nella Chiesa coi movimenti biblico, ecumenico, liturgico, ecc., sia fuori di essa, col movimento progressivo legato all’espansione della democrazia politica, alla decolonizzazione, ecc., oggi il percorso avviato da Francesco appare mosso dall’alto, in una fase di ripresa dei movimenti tradizionalisti nella Chiesa, nel quadro di un rilancio della verticalizzazione delle società e del pensiero reazionario e nazionalista.

3. Una riforma della Chiesa legata dall’impegno per un mondo più giusto e sostenibile

Com’è noto l’Appello dal popolo di Dio viene lanciato in Italia il 6 gennaio 1996 da sei firmatari: Assunta Berardinelli di Napoli, Piero Cappelli di Firenze, Elisabetta Cislaghi di Milano, Luigi De Paoli di Roma, Robert Hochgruber di Bolzano e Augusto Cavadi di Palermo (subito sostituito da Romolo Menighetti e poi da Piero Spalla). Luigi De Paoli assume il ruolo di coordinatore nazionale, ricoprendolo fino al 2005, quando l’incarico passa a Vittorio.

Rispetto a quello austriaco, il testo italiano aggiunge la rivendicazione del «diritto di celebrare l’eucaristia in una pluralità di forme», esplicita la necessità del «superamento di ogni discriminazione delle persone omosessuali» e soprattutto – e questo è per noi un terzo aspetto qualificante – introduce un sesto punto per richiamare la Chiesa a un impegno anche ecumenico per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato, al fine di sottolineare che «la proposta di riforma della Chiesa per essere credibile, non può essere scissa, in chi la propone, da una collocazione chiara e militante sui grandi problemi dell’umanità di oggi, come il rapporto Nord/Sud, il disarmo, l’Aids», ecc, evitando una logica ecclesiocentrica ed eurocentrica nonché favorendo una naturale convergenza coi movimenti cattolici impegnati per una trasformazione della società in senso più giusto, nonviolento e sostenibile nel Nord come nel Sud del mondo. «Non è questo il nostro impegno principale – scriveva Vittorio nel 2006 – ma abbiamo la necessità di testimoniare questo rapporto – “cambiare la Chiesa-cambiare la società” – anche in relazione alle altre sezioni del movimento internazionale che non tutte hanno una sensibilità sufficiente».

La convinzione di fondo era che la riforma della Chiesa, destinata a dare spazio al pluralismo, alla partecipazione consapevole e alla comunione, debba andare di pari passo con la trasformazione della società in senso più libero, giusto e democratico; anzi, l'una sia condizione dell'altra e viceversa: la “opzione per i poveri” esige una Chiesa più fraterna, comunitaria, sinodale, ministeriale e inclusiva, e, al contempo, solo in una Chiesa che operi per la liberazione degli oppressi ciascuno e ciascuna può essere soggetto parimenti libero e responsabile, la diversità dei carismi può manifestarsi pienamente e le scelte sono compiute in modo davvero condiviso.

In questi decenni l’impegno di Noi siamo Chiesa è sempre stato finalizzato a rendere più solide, diffuse e condivise le proposte di riforma strutturale della Chiesa cattolica e a far maturare la coscienza dei credenti su tutte le questioni, gli eventi o i documenti magisteriali su cui, nel tempo, la fedeltà allo spirito dell’Appello dal popolo di Dio è parso esigesse di parlare. Questa elaborazione, frutto nella maggior parte dei casi di una spontanea condivisione tra noi, ma a volte anche di un dibattito non facile, che in qualche caso è stato seguito da allontanamenti, costituisce oggi il patrimonio del movimento, di cui si trova in gran parte traccia nel sito.

Nei nostri interventi ci siamo quindi occupati, ovviamente in misura più o meno ampia e continuativa, di diritti umani nella Chiesa e di libertà di ricerca teologica, di Terzo rito della penitenza e di abusi del clero sui minori, dell’8x1000 e di cappellani militari, dell’ospitalità eucaristica e di testamento biologico, di Giubileo e della notifica contro Jon Sobrino, di omiletica e di ristrutturazione delle parrocchie in Unità pastorali, dello status delle Chiese nella Costituzione europea e della Charta oecumenica, del crocifisso nelle scuole e delle famiglie, della legge contro l’omofobia e di quella sulle unioni civili, di fecondazione assistita e del digiuno ambientalista di dom Cappio, del rapporto tra Benedetto XVI e Bush e di quello tra il card. Ruini e Berlusconi, dei casi Welby ed Englaro e del Sinodo sulla Parola di Dio, della “fabbrica dei santi” e della fantomatica “ideologia gender”, di legge 194 e di trasparenza finanziaria delle diocesi, di elezioni politiche e di stampa cattolica, dello ius soli e della nomina di Giovanni XXIII a patrono dell’esercito italiano, di indulgenze e di Palestina, di mons. Romero e della frattura tra i patriarcati di Mosca e Costantinopoli, di libertà religiosa e dei referendum costituzionali, della Grande Guerra e di nonviolenza, del rapporto tra cattolici e politica e di Patti lateranensi, dell’enciclica Spe salvi e della Fratelli tutti, delle leggi sull’immigrazione e dell’ora di religione cattolica, del dialogo cristiano-islamico e della canonizzazione di papa Wojtyla, ecc.

4. Fare rete senza settarismo e con spirito di servizio

Fin da subito la raccolta delle firme fu messa in secondo piano a favore di un lavoro di approfondimento e sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui temi dell’appello, alcuni dei quali (per es. la democrazia nella Chiesa, i ministeri femminili, le persone omosessuali, ecc.) quasi mai comparsi nel dibattito ecclesiale italiano postconciliare. Alla fine vennero raccolte comunque circa 35mila firme, oltre alle 18mila riunite in precedenza nella diocesi di Bolzano-Bressanone. Rapidamente divenne chiaro che il contesto italiano era particolarmente ostico allo sviluppo di un movimento come Noi siamo Chiesa, per la tradizionale debolezza del laicato, rafforzata dal pieno allineamento dell’associazionismo cattolico tradizionale alla linea ruiniana, per il forte controllo esercitato dalla gerarchia sul clero, per l’emarginazione dei teologi più aperti dopo la Lettera dei 63 del 1989 e la conseguente stasi della riflessione italiana sui temi controversi. Ciò spinse l’Associazione Noi siamo Chiesa, formalmente costituitasi nell’ottobre 1996, a ricercare subito relazioni e collaborazioni con piccole realtà percepite in qualche modo come affini.

Il combinato disposto di queste scelte si tradusse nei primi convegni organizzati a Milano, nel 1999 sulle “Persone omosessuali nelle Chiese cristiane”, insieme al Coordinamento dei gruppi di omosessuali cristiani in Italia, i cui atti comparvero nel volume “Il posto dell’altro”, e nel 2001 su “Il problema dei cristiani divorziati e risposati nella Chiesa cattolica oggi”, promosso con le Famiglie separate cristiane, cui fece seguito il libro “Dopo il matrimonio”. Questo filone “convegno nazionale+libro” proseguì anche negli anni successivi, per esempio sulla confessione (con un primo “debordare” da una rigida e letterale interpretazione dell’Appello dal popolo di Dio), sulla “Chiesa povera” e sui preti sposati (con Vocatio), sulla “ospitalità eucaristica” (attraverso il Coordinamento milanese 9 marzo), cui si affiancarono testi sui temi della riforma tradotti da altre lingue (“La Chiesa oltre la democrazia”, “Né Eva nemmeno Maria”, “Eucaristia senza prete?” e “Correggere la Chiesa”) nonché volumi scritti da membri dell’associazione (“L’agenda del nuovo papa” di Luigi De Paoli e Luigi Sandri nel 2002, “Il dissenso soffocato” di Mauro Castagnaro con Ludovica Eugenio nel 2013, fino a “La morte buona” e “Io sono la terra di tutti” di Giuseppe Deiana nel 2021 e 2022).

Dall’inizio abbiamo utilizzato una varietà di strumenti (pubblicazioni, convegni, documenti, raccolte di firme, partecipazione a eventi e consultazioni, dialoghi con altre componenti ecclesiali, ecc.), di volta in volta privilegiando quelli che parevano più adeguati al momento e alle condizioni socioecclesiali, ma sempre con l’attenzione a costruire relazioni con altri soggetti già attivi sul tema in oggetto o percepiti come vicini. Oltre ad aderire ad iniziative altrui (v. “Il Vangelo che abbiamo ricevuto” tra il 2009 e il 2015), abbiamo dunque promosso reti locali (p. es. a Milano il Coordinamento 9 marzo e la Consulta per la laicità delle istituzioni), nazionali (dopo i primi falliti tentativi di creare un coordinamento di gruppi “conciliari” di base in vista del Convegno ecclesiale nazionale di Verona del 2006, p. es. ChiesadituttiChiesadeipoveri, che nel 2012 riunì 800 persone a Roma in rappresentanza di un centinaio tra gruppi, associazioni, movimenti e riviste, la Rete pace e disarmo, fino alle più recenti ItalyChurchtoo. Retesinodale e Costituente Terra) e internazionali, come l’European network Church on the move, che è membro del Consiglio d’Europa, coproducendo libri e pubblicazioni nonché proponendo a esponenti di altre associazioni (Coordinamento gruppi omosessuali cristiani in Italia, Vocatio, Gruppo promozione donna, Pretioperai, ecc.) di entrare nel Coordinamento nazionale di Nsc, e appoggiando, nei limiti delle nostre possibilità, realtà della nostra area nascenti (Donne per la Chiesa) o in difficoltà (Vocatio).

Questa assenza di settarismo e questo spirito di servizio costituiscono un nostro quarto elemento tipico, che ha permesso a una piccola associazione come Noi siamo Chiesa, fino al 2006 priva di adesione formale e poi mai cresciuta oltre i 150 iscritti, concentrati soprattutto al Nord, di cui poche decine attivi, basata solo sul volontariato e con bilanci modestissimi, non solo di sopravvivere per quasi 30 anni, ma di essere riconosciuta come “rappresentativa” di una ben più ampia area d’opinione nella Chiesa, di realizzare un gran numero di iniziative, di diventare un soggetto credibile a livello nazionale e internazionale (non solo all’interno di We are Church International, ma nel Forum mondiale di teologia e liberazione e in particolare negli ambienti della teologia della liberazione latinoamericana, con cui peraltro si è posta in un rapporto solidale, ma anche dialettico, come avvenne in occasione della scomunica di Martha Heizer quando io stesso scrissi una lettera pubblica a Pablo Richard per smentire le sue accuse di eurocentrismo rivolte a We are Church). Questo ci ha consentito di proporre e promuovere attività di grande rilevanza (dai seminari nei Forum sociali europei al meeting Council50 a Roma nel 2015), nonché di essere presenti in molte Marce Perugia-Assisi, alle manifestazioni contro la guerre in Kosovo, Afghanistan e Iraq, a Genova nel 2001 in occasione del G8 e alle Arene di pace, ma anche alle Assemblee ecumeniche europee di Graz (1997) e Sibiu (2007), oltre che a incontri nazionali di cattolici progressisti, come a Lione nel 2010 e a Detroit nel 2011.

5. Noi siamo Chiesa: un movimento per la riforma della Chiesa cattolica

Alla luce di questa storia, e qui sta un quinto tratto caratterizzante, Noi siamo Chiesa ha sempre mantenuto, pur sviluppando un rapporto per certi aspetti privilegiato con le Comunità di base, il profilo di un’associazione impegnata per la riforma della Chiesa cattolica, respingendo le tesi di quanti arrivavano a ritenere questo obiettivo impossibile, almeno in tempi non lunghissimi, e quindi sceglievano di dedicarsi ad altri impegni, come pure di quanti sostenevano la necessità di privilegiare la costruzione diretta della “Chiesa che vogliamo” e quindi un’azione ad intra (fossero pratiche liturgiche innovative, formazione di piccole comunità, ordinazioni non autorizzate, ecc.), sia pur guardando a esse con interesse. Questo non solo nella logica di “volere non un’altra Chiesa, ma una Chiesa altra”, ma di incidere sulla “Grande Chiesa”, non accontentandosi di creare al suo interno pur preziose “isole felici”. Come scriveva Vittorio in occasione del nostro ventennale, «siamo riusciti, borderline come siamo, a credere che la vita di fede secondo l’Evangelo richiede una appartenenza a una vicenda collettiva, una corresponsabilità, faticosa spesso, ma fornita della libertà che nella Chiesa ci dà lo Spirito». Ciò tenendo in questo momento conto che la sinodalità non solo è quanto di più vicino alla “democrazia” possa essere pensato a livello ecclesiale, ma che il suo sviluppo crea le condizioni per le riforme, in una Chiesa cattolica per la prima volta nella sua bimillenaria storia diffusa in ogni angolo del pianeta, ma al contempo sempre più plurale al proprio interno per contesti socioculturali, opinioni teologiche e urgenze pastorali, il che apre la strada a una sua effettiva (cioè strutturale) organizzazione come comunione di Chiese unite nella diversità.

Il programma di lavoro a breve/medio termine di Noi siamo Chiesa

Oggi si tratta di proseguire, alla luce della piena attualità dell’Appello dal popolo di Dio, sulla stessa strada, secondo un concetto “ampio” di riforma della Chiesa, con lo sforzo di “leggere” sempre la congiuntura socioecclesiale e le “sensibilità” presenti dentro e fuori di noi per individuare gli strumenti più efficaci a perseguire in quel contesto i nostri obiettivi, anche attraverso la costruzione di alleanze.

In conformità con quanto sopra,

a) i temi/rivendicazioni esplicitamente citati dall’Appello dal popolo di Dio (democrazia nella Chiesa e partecipazione del popolo all’elezione dei vescovi, sacerdozio ordinato e sacerdozio universale, celibato del clero, accesso delle donne a tutti i ministeri e dei divorziati risposati ai sacramenti, impegno profetico per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato, ecc.) devono essere oggetto costante di attenzione e iniziativa, naturalmente tenendo conto della maggiore o minore ampiezza e organicità degli interventi effettuati nel tempo su ciascuno di essi e delle priorità poste dall’attualità.

b) A essi si affiancano quelli su cui, nello spirito dell’Appello dal popolo di Dio, abbiamo iniziato a lavorare in seguito, con maggiore o minore costanza (Chiesa povera e dei poveri, liturgia e omiletica, abusi del clero sui minori, Sinodo sulla sinodalità, Cammino sinodale delle Chiese in Italia, questioni bioetiche: inizio vita, salute/cura e fine vita, con particolare riferimento alla maternità surrogata/gestazione per altri, alla clonazione umana e all’eutanasia, insegnamento non confessionale della storia delle religioni a scuola, laicità dello Stato, ecc.), per i quali l’impegno dovrà derivare dalla maturazione della nostra sensibilità e competenza nonché dalle urgenze dell’attualità e dagli spazi di intervento che di volta in volta si aprissero.

c) Altre proposte di lavoro riguardano la pubblicazione di una biografia di Vittorio e di una storia di Nsc nonché un approfondimento su questioni scientifico-antropologiche quali il rapporto tra essere umano e macchina, tra intelligenza umana/logos umano e Intelligenza artificiale/logos artificiale.

Organizzazione interna

Per "presidiare" questi ambiti di intervento si è definita un’organizzazione strutturata in “attività operative” (comunicazione, archivio, gestione sede, tesseramento, gruppi locali, diffusione materiali prodotti, rappresentanza nelle reti italiane e internazionali, ecc.) e “settori tematici” (Democrazia e sinodalità; Ministeri ecclesiali; Liturgia, omiletica ed eucaristia; Nuova etica sessuale; Pace, giustizia e salvaguardia del creato; Chiesa povera, trasparenza finanziaria e beni ecclesiastici; Abusi del clero sui minori; Questioni bioetiche; Insegnamento non confessionale della storia delle religioni a scuola; Concordato, laicità dello Stato e delle istituzioni; Riabilitazione Buonaiuti; Giustizia di genere; Ecumenismo e dialogo interreligioso; Questioni vaticane e prospettive conciliari, ecc.), individuando responsabili o gruppi di competenza.

Questo schema di distribuzione dei compiti pare in grado di garantire l’operatività del movimento, anche se le forze umane restano poche, per cui ampi sono gli spazi in cui inserirsi e le possibilità di impegno, anche parziale.

Molto abbiamo fatto in questi 27 anni, ma molto resta ancora da fare.

*Foto presa dal profilo Facebook di Noi siamo Chiesa, immagine originale

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