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Gaza Lo scacco della politica

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 12 del 31/01/2009

Dopo molti giorni dall’inizio dell’attacco israeliano, dai bunker della città giungono messaggi come questo: «Gaza non è morta e neppure è viva». Anche rispetto ad Hamas sarà molto arduo arrivare al giorno in cui si potrà dichiararne il decesso politico e organizzativo. Se non giungerà quella data si avrà sempre a che fare con un organismo tanto debilitato quanto difficile da sopprimere e quindi, per definizione, sempre più inquietante.

Nel 2005 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon compì due operazione di grande ardimento: impose lo sgombero unilaterale dei coloni israeliani dalla Striscia e scombinò il sistema politico interno, basato fino ad allora sulla polarità Laburisti-Likud (più raggruppamenti minori), creando un nuovo partito: Kadima. Il ritiro da Gaza e il muro in via di costruzione che ridefiniva i confini con la Cisgiordania dovevano garantire, unilateralmente, la sicurezza e la ebraicità d’Israele. Nel complesso le misure allora adottate avevano lo scopo sia di conseguire una stabilità politica nella riottosa democrazia parlamentare israeliana, sia di fronteggiare la minaccia demografica, l’insidia, da sempre più forte rispetto alla definizione ebraica dello stato. Nelle elezioni del 2006 Kadima vinse, ma in maniera tutt’altro che travolgente, mentre il suo leader, il ministro Ehud Olmert, non ha mai convinto. La guerra del Libano contro gli Hezbollah filoiraniani del 2007, che avrebbe dovuto dargli autorevolezza, ebbe un effetto boomerang. Il suo esito precario contribuì a indebolire ulteriormente la leadership israeliana. L’inquietante vicino a nord non fu fiaccato. Il prestigio dell’esercito precipitò in una caduta libera a motivo dell’inefficacia sul piano militare e delle vittime civili che caratterizzarono l’operazione.

Il 2006 fu anno elettorale anche nell’ambito dell’ANP. Nelle elezioni – le prime svoltesi dopo la morte di Arafat e l’avvento alla presidenza di Mahmud Abbas (Abu Mazen) – Hamas (movimento cresciuto anche con l’aiuto di Israele in funzione anti-Fatah) conseguì la maggioranza assoluta dei seggi. Il risultato fu non l’instaurazione di una normale dialettica tra  maggioranza e opposizione, ma uno scontro aperto tra le due componenti. Nel 2007 l’organizzazione islamista-politico-militare-assistenziale di Hamas ha espulso manu militari Fatah da Gaza; nel contempo i funzionari eletti di Hamas furono allontanati dalle loro posizioni (o a volte persino eliminati) dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordanaia e i loro posti furono assegnati ai rivali di Fatah o a membri indipendenti. Inoltre il Presidente palestinese Mahmud Abbas (Fatah) emise un decreto che poneva fuorilegge le milizie di Hamas.

Nel corso del 2008, nonostante la proclamazione di una tregua, dalla Striscia di Gaza governata da Hamas continuarono a piovere sulla parte sud del territorio israeliano missili, che, per quanto di scarsa gittata ed efficienza, costituivano una sfida lanciata alla sovranità di uno stato da parte di  un’entità non statuale. Da questo punto di vista la data di scadenza della tregua, il 19 dicembre, non ha segnato un gran mutamento. Né si può immaginare che l’operazione «Piombo fuso», preparata da mesi, sia stata effettivamente motivata dall’intensificazione dei lanci nei giorni immediatamente successivi alla tregua. Il governo israeliano, da tempo potenziato con l’ingresso del laburista (ex militare e ex premier) Barak alla difesa, l’aveva già decisa in precedenza. I motivi per l’attacco si erano via via addensati: portare a compimento a sud, contro una forza militare ben più debole di quella dell’Hezbollah, l’operazione mal riuscita a nord, sfruttare la transizione di potere negli Stati Uniti, invertire la tendenza elettorale che dava per vincente il Likud di Netanyahu, mostrare che uno stato può scegliere gli interlocutori non statali con cui discutere optando per Fatah.

L’esperienza libanese del 2007 aveva confermato che le guerre non si possono vincere solo dal cielo. L’operazione  «Piombo fuso» ha dunque comportato anche l’uso dei tank. Entrare con bombe al fosforo e artiglieria pesante in una delle aree più densamente popolate del pianeta (circa un milione e mezzo di persone per 378 km2) significa mettere in conto l’uccisione di un gran numero di civili, creare profughi, colpire ospedali e sedi ONU. Le atrocità pesano. L’attenzione, proporzionalmente elevatissima, dedicata dai media agli eventi  mediorientali diffonde immagini strazianti a livello globale. L’opinione pubblica mondiale coglie la «sproporzione della ritorsione» (ma l’operazione non può qualificarsi affatto come una ritorsione) e stenta a comprendere il pericolo costituito da Hamas, tema, quest’ultimo, lasciato in monopolio, in modo sprovveduto, alla destra antislamica.

Per quanto, con ogni probabilità fosse stato messo in conto, Israele sta pagando prezzi umanamente e moralmente inaccettabili. Tuttavia nella sfera politica questo rischio potrebbe anche avere un senso se ci fossero all’orizzonte degli sbocchi. La domanda cruciale sta perciò nel chiedersi che cosa Israele pensi di ricavare politicamente dall’uso della forza. Attraverso l’operazione «Piombo fuso» lo stato ebraico ha colpito qualche alto dirigente di Hamas – primo fra tutti il «ministro degli interni» – ma non è riuscito a impedire che i membri del movimento sconfitto alzassero le dita in segno di vittoria. Non hanno torto: finché sussistono, anche se «semivivi», lo possono fare. Hamas rientra nell’ambito di quei movimenti che non si tirano mai indietro nel creare situazioni che facciano aumentare il numero delle vittime; anzi, queste ultime sono la loro forza, per loro l’odio è un inestinguibile bacino di consenso. A seguito dell’operazione israeliana il ritorno a Gaza di Fatah, con un Abu Mazen completamente screditato e incapace di impedire la strage del suo popolo, è assai più lontano di prima. La strategia politica di lungo termine resta incerta e confusa.

 

L’articolo, del quale anticipiamo ampi stralci, uscirà integralmente su Il Regno numero 2/2009.

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