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Martini, il sogno ininterrotto di una Chiesa collegiale

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 32 del 21/09/2013

Il 7 ottobre del 1999 in Vaticano si tiene l’assemblea per l’Europa del Sinodo dei vescovi e quando il cardinale Carlo Maria Martini prende la parola il suo primo pensiero è per l’amico Basil Hume, morto il 17 giugno di quell’anno. Il monaco benedettino dal sorriso gentile, tifoso del Newcastle e autore di libri come Un cardinale che cammina al buio, se n’è andato all’età di 76 anni, ucciso da un tumore all’addome. Nel 1998, al compimento dei 75 anni, aveva chiesto a Giovanni Paolo II di poter tornare in convento ad Ampleforth per vivere gli ultimi anni nella preghiera e nella contemplazione, ma dal Vaticano era arrivato l’ordine di restare al suo posto, quello di arcivescovo di Westminster. Nelle assemblee sinodali, ricorda Martini, Hume incominciava i suoi interventi con le parole «I had a dream», «Ho fatto un sogno», e «anch’io – aggiunge l’arcivescovo di Milano – in questi giorni ho avuto un sogno, anzi parecchi sogni».

Ciò che Martini dice in quel giorno di ottobre nell’aula del Sinodo rappresenta una sintesi efficace del suo pensiero ed è un’indicazione per il futuro della Chiesa (testo integrale in Adista n. 73/99, ndr). A 72 anni, avvicinandosi a sua volta al limite dei 75 e guardando già a Gerusalemme, la città santa nella quale desidera fortemente trascorrere l’ultima parte della sua vita terrena, il cardinale tocca tre punti: l’ecclesiologia di comunione, ovvero la necessità, alla luce del Concilio Vaticano II, di un confronto tra i vescovi sulle questioni più pressanti per la vita della Chiesa, la centralità della comunità parrocchiale rispetto alla crescita dei movimenti ecclesiali, e infine il rapporto con la Sacra Scrittura.

È un discorso breve, com’è da abitudine al Sinodo, ma va analizzato con attenzione perché attraverso rapidi accenni Martini esprime ciò che veramente gli sta a cuore e lascia una consegna che oggi è diventata più che mai attuale.

Martini chiede per la Chiesa, in presenza di tante sensibilità diverse a seconda dei contesti culturali, la fine del centralismo e l’inizio di una nuova era all’insegna di un’autentica collegialità. Chiede, precisamente, che si proceda a un «confronto collegiale e autorevole fra tutti i vescovi su alcuni temi nodali» emersi dopo la fine del Concilio Vaticano II. Non è un sogno rivoluzionario: si tratta semplicemente di applicare la lezione conciliare. Eppure la proposta di Martini viene guardata per lo più con sospetto, tanto che il Vaticano si guarda bene dal diffondere il testo.

Il cardinale non si limita al metodo. Accenna infatti anche ai temi che dovrebbero essere al centro di un confronto ampio e sincero tra i pastori: la carenza di ministri ordinati, il ruolo della donna nella società e nella Chiesa, la disciplina del matrimonio, la visione cattolica della sessualità, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell'ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, il rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale. Sullo sfondo c’è una domanda: in che modo Gesù Cristo, vivente nella Chiesa, è oggi sorgente di speranza?

Per Martini la parrocchia mantiene un ruolo centrale. Si tratta di vedere in quale modo può continuare ad attualizzare, «col suo servizio profetico, sacerdotale e diaconale, quella presenza del Risorto nei nostri territori che i discepoli di Emmaus poterono sperimentare nella frazione del pane». Nel corso del Sinodo, rileva, si è sottolineato l’importante ruolo dei movimenti ecclesiali nel ridare un’anima spirituale alla società, «ma è necessario che i membri dei movimenti e delle nuove comunità si inseriscano vitalmente nella comunione della pastorale parrocchiale e diocesana, per mettere a disposizione di tutti i doni particolari ricevuti dal Signore e per sottoporli al vaglio dell'intero popolo di Dio». Infatti, «dove questo non avviene, ne soffre la vita intera della Chiesa, tanto quella delle comunità parrocchiali quanto quella degli stessi movimenti». Al contrario, quando invece «si realizza una efficace esperienza di comunione e di corresponsabilità la Chiesa si offre più facilmente come segno di speranza e proposta credibile alternativa alla disgregazione sociale ed etica da tanti qui lamentata».

Ora, anche se il linguaggio martiniano è diverso da quello bergogliano, è davvero difficile non scorgere una profonda affinità tra il “sogno” del cardinale e quanto papa Francesco sta predicando: la collegialità all’interno di una Chiesa povera, accogliente e misericordiosa, l’idea che la consultazione non sia da considerare un pericolo ma un’opportunità, la richiesta di uscire senza timore, la disponibilità al confronto con le trasformazioni sociali e culturali.Da Martini veniva una provocazione salutare e la prova sta nel fatto che, quasi quindici anni dopo, la Chiesa è stata costretta, in seguito a vicende drammatiche, a prendere atto della validità di quel “sogno”, del quale oggi si sta facendo interprete un altro gesuita.

È un passaggio, quello maturato con l’elezione di Francesco, che il cardinale Martini – morto un anno fa, il 31 agosto 2012 – non ha potuto vivere. Fosse stato in vita, ne avrebbe gioito, anche se sicuramente, con la sua signorilità, avrebbe evitato di rivendicare primogeniture. Di certo il suo testamento spirituale, con quell’accenno alla Chiesa che è indietro di duecento anni, ha fatto breccia nella maggioranza dei cardinali elettori. E siamo sicuri che ora il padre Carlo Maria sorride e continua nella sua preghiera di intercessione.

* Giornalista Rai e scrittore

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