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Il Sinodo valdese apre all’eutanasia: «non è sempre un rifiuto del dono della vita di Dio»

Il Sinodo valdese apre all’eutanasia: «non è sempre un rifiuto del dono della vita di Dio»

Tratto da: Adista Notizie n° 31 del 15/09/2018

39483 TORRE PELLICE (TO)-ADISTA. Metodisti e valdesi italiani aprono alla possibilità dell’eutanasia e del suicidio assistito, sebbene in casi particolari, senza nessuna generalizzazione e senza assecondare derive individualistiche.

La decisione è arrivata nella tarda serata della penultima giornata del Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi (Torre Pellice 26-31 agosto, v. Adista Notizie n. 30/18), quando è stato approvato con una larga maggioranza (ma anche qualche contrario e un terzo di astenuti) il documento “‘È la fine, per me l’inizio della vita’. Eutanasia e suicidio assistito: una prospettiva protestante”. Elaborato dalla Commissione bioetica delle Chiese battiste, metodiste e valdesi in due anni di lavoro, presentato al Sinodo 2017, passato al vaglio delle Chiese locali che complessivamente lo hanno accolto positivamente, quest’anno è stato recepito in via definitiva dall’assemblea sinodale.

«Non esistono ragioni universali per giudicare moralmente illegittima la scelta di morire da parte di un individuo», si legge nel documento. «La morte volontaria dovrebbe essere considerata un male minore e non un’espressione suprema della libertà umana», ma «la misericordia ci impone di rispettare il punto di vista dei sofferenti, di tutelare la loro libertà di scelta e di cercare di ridurre le loro sofferenze».

«Siamo in contesto medico, in situazioni in cui coesistono la volontarietà della richiesta, il sintomo refrattario alle terapie e la prognosi negativa», spiega ad Adista la pastora Ilenya Goss, componente della Commissione bioetica valdese, che ha precisato che «il documento di studio non ha un valore dogmatico ma è un parere autorevole offerto dal Sinodo alle Chiese e ai singoli fedeli, un punto di riferimento ma chiaramente non vincola o limita la libertà di coscienza di ciascuno di dire no. Proponiamo di leggere la richiesta di aiuto a morire come caso-limite che non necessariamente contraddice un vissuto di fede. Per noi la Chiesa non deve entrare con un giudizio forte in una decisione di questo tipo, ma con misericordia accompagnando e curando la persona. L’aspetto forse più audace che il documento propone è la lettura della richiesta di abbreviare un’agonia come una “resa” alla fedeltà di Dio nella consapevolezza del proprio limite nel sopportare la sofferenza».

«Dal punto di vista etico e antropologico – si legge nel documento –, la morte volontaria dovrebbe essere considerata un male minore e non un’espressione suprema della libertà umana. La nostra posizione rappresenta un ideale antropologico ragionevole e intermedio: quello che ci guida non è l’esaltazione dell’autonomia indiscriminata, ma la misericordia che ci impone di rispettare il punto di vista dei sofferenti, di tutelare la loro libertà di scelta e al tempo stesso di cercare di ridurre le loro sofferenze». E tenendo ben presenti i rischi di una legalizzazione generalizzata della pratica: «Riconosciamo tuttavia – si legge nel documento – che esistono argomenti di prudenza che consigliano di essere attenti alle possibili dinamiche sociali negative di una legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito», perché «la società potrebbe incamminarsi su un pericoloso “pendio scivoloso”, al termine del quale potremmo accettare di sopprimere legalmente anziani, disabili, disadattati», tanto più in un contesto, come quello delle società occidentali, «segnato da pesanti tagli alle risorse economiche destinate alla sanità e dal costante e progressivo invecchiamento della popolazione, esisterebbe il rischio di vedere nell’eutanasia la “soluzione” al problema dell’allocazione di risorse per il trattamento e la cura del dolore acuto dei malati inguaribili».

«Siamo d’accordo con la tesi secondo cui il compito principale delle Chiese consista nell’impegnarsi in una battaglia pubblica in favore di un sistema di cure palliative e di accompagnamento al morire che consentano di ridurre al minimo la richiesta di eutanasia e di suicidio assistito», prosegue il documento. «Al tempo stesso, tuttavia, ci chiediamo se la richiesta di anticipare la propria morte debba sempre essere considerata in contraddizione con un’esistenza moralmente responsabile vissuta nella fede. Se debba sempre essere considerata, cioè, come un rifiuto del dono divino, come un atto di appropriazione indebita di un diritto di cui l’essere umano non è portatore, e dunque condannata come una forma di ateismo pratico, o se, in specifiche situazioni, non possa addirittura venire intesa come una risposta responsabile al Comandamento, espressione dell’amore per Dio e per il prossimo». Si tratta, si legge, di «evitare i principi di un’etica legalistica» e di «tener conto dei contesti e delle situazioni contingenti entro cui avviene la scelta morale, rinunciando ai principi assoluti di carattere teologico o razionale, così come alla rigida applicazione di una norma biblica interpretata in modo letterale». Allora «l’assunzione che la richiesta di essere aiutati a morire possa essere sempre interpretata come un rifiuto del dono di Dio, e di conseguenza del legame con Dio stesso, ci sembra fondata su una ricostruzione unilaterale, e difficilmente giustificabile, della logica del dono. Quest’ultima, infatti, non implica necessariamente che ciò che viene donato sia indisponibile a colui che riceve; implica piuttosto l’idea di un uso grato e responsabile del bene ricevuto, che tenga conto della relazione che in tal modo si è instaurata. In questo senso, riteniamo che la richiesta di persone ammalate, che in situazioni di sofferenza estrema esprimano il desiderio di non trascorrere gli ultimi giorni nell’incoscienza indotta dai trattamenti antalgici necessari a lenire un dolore non altrimenti sopportabile, non debba necessariamente essere considerata come l’espressione del desiderio di assolutizzare la propria libertà finita di fronte alla morte, né un rinnegamento del rapporto con Dio. Può anche essere la conseguenza del desiderio di disporre in modo responsabile del dono della vita ricevuta e del la fiducia in una grazia che accoglie l’oppresso e lo sfinito, dell’affidamento a un Dio che non chiede un tributo di sofferenza, che non impone condizioni e obblighi e che non sottomette l’uomo a principi, ma invece lo libera gratuitamente, mettendo nelle sue mani anche la possibilità di rinunciare a continuare l’esistenza terrena. La scelta di morire, che in certi casi può effettivamente essere interpretata come rifiuto del dono, in altri casi può invece essere compresa come l’espressione della sua accettazione: può essere un atto di consapevolezza del limite dell’esistenza umana, un’assunzione della misura non infinita della propria capacità di tollerare la sofferenza e persino un’espressione di amore nei confronti del prossimo».

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