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Dio, l’umanità e il male. Guerra e pace nella Bibbia

Dio, l’umanità e il male. Guerra e pace nella Bibbia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 10 del 19/03/2022

Tutto, nella Bibbia, appare nel segno della violenza: nessun altro ambito o esperienza umani vi sono menzionati così spesso. Nelle sue pagine si contano oltre seicento passi riferiti a popoli, sovrani o singoli individui che attaccano o uccidono; un migliaio in cui divampa l’ira di Dio; e più di cento in cui YHWH ordina espressamente di uccidere qualcuno. Certo, la testimonianza delle Scritture al riguardo non risulta, né potrebbe essere, uniforme: non esiste, infatti, a dispetto di letture diffuse in tal senso, un’unica linea, magari ascensionale, di evoluzione progressiva, che parta dalle voci più antiche d’Israele e giunga, come a un vertice, a Gesù e alle prime comunità cristiane. Mentre le differenze fra i libri, le correnti e gli autori, ma anche all’interno dello stesso libro, sono notevoli. Ecco perché il criterio evoluzionistico, cui non raramente si ricorre in casi simili, come da un passaggio dalla violenza alla nonviolenza e dalla guerra alla pace, sembra insufficiente a cogliere, nella sua globalità, la testimonianza biblica, non priva di posizioni contrastanti e tensioni interne: «È lo scontro tra diversi punti di vista e diverse prassi che emerge a uno sguardo spassionato, non velato da preoccupazioni apologetiche o giustificazionistiche» (G. Barbaglio).

La violenza nel Primo Testamento

I contesti violenti, dunque, sono frequenti, soprattutto nel Primo Testamento. Il dato, più che scandalizzare, deve far riflettere: se la Scrittura, che descrive ogni aspetto della relazione fra Dio e il popolo che si è scelto, trascurasse quell’aspetto fondamentale della storia umana che è la violenza, non finirebbe per nascondere una realtà che attraversa da sempre le vicende dell’umanità? In fondo, la violenza non è mai tanto pericolosa come quando la si nasconde: presentandola nelle sue più varie espressioni, la Bibbia ci costringe a guardarla in faccia, a considerarla nei minimi dettagli e nelle modalità più subdole. In tal modo, essa ci svela le sue radici nascoste, mostrandone i moventi personali o collettivi; fino a consentirci di comprendere sia la violenza che ci circonda sia quella che subiamo, ma anche quella che avvertiamo in noi o che causiamo agli altri. Spingendosi a fornire una definizione di Dio che può sorprenderci: «Adonai è un guerriero», ‘ish milchamà, letteralmente «uomo di guerra» (Es 15,3). Il Cantico del Mare, traboccante della gioia della vittoria e di sangue versato, inneggia dunque a Dio con un’espressione che pone in luce il carattere devastante del suo agire.

È legittimo domandarsi, dal punto di vista biblico, quali siano le ragioni per cui la guerra-milchamà insanguina il mondo. Una prima risposta può risiedere nella natura stessa dell’uomo che, creato da Dio con una doppia inclinazione, al bene e al male, lotta quotidianamente per arginare l’irruzione del male. E la guerra, quale sia la causa che la scateni, non fa altro che aumentare la forza del male sulla terra e allontanare, nel contempo, l’uomo da Dio. Per questo la tradizione rabbinica indica la possibilità di stabilizzare il mondo nelle azioni capaci di contrastare la forza della violenza: «Rabban Shimon ben Gamaliel era solito dire: Su tre cose si regge il mondo, sulla giustizia, la verità e la pace» (Pirkè Avot I,18). Una seconda ipotesi ci porta altrove, in alto: Dio, col suo volto terribile, si mette alla testa del suo popolo e lo guida alla conquista della terra. Quando Dio dichiara: «Io li distruggerò» (Es 23,23), per i sette popoli che abitano quella terra non c’è scampo. Tale programma è presentato con chiarezza nel Deuteronomio: «Quando il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni (…). Quando il Signore le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio; non farai con loro alleanza né farai loro grazia» (Dt 7,1-2). Guerra, conquista, bottino, devastazione, morte: tutto nel nome di Dio, per suo ordine e addirittura per mano sua. Un tracotante bagno di sangue che spiana la via al Dio uno e al suo popolo, chiamato a non mischiarsi ad altre genti. Il rischio della contaminazione e della fuga da quel Dio, vicino e insieme lontano, è costante, per cui va eliminato sradicando gli untori del virus idolatrico in modo che non siano d’inciampo. Il voto di sterminio (chèrem) è segno distintivo di tale guerra identitaria, elemento necessario per costruire i presupposti della fedeltà di Israele a Dio, sia come esecuzione del precetto sia come creazione della condizione di separatezza che sola consente di vivere la santità tracciata nella Torà. Esso, al di là di ogni tentativo di attenuazione della sua portata effettiva, è un precetto che viene dalla bocca di Dio e come tale va applicato: così farà, ad esempio, Giosuè nelle sue campagne di conquista (si veda, ad esempio, la perentoria considerazione di Gs 11, 19-20).

Si può pensare che Dio sia definito ‘ish milchamà non solo per insegnarci che esiste una distanza incolmabile fra il suo progetto e la risposta umana, ma soprattutto per mostrarci che, nella relazione discendente (Dio-uomo) e ascendente (uomo-Dio), l’Altro, l’assoluto e l’indicibile può rivelarsi all’uomo stesso, per l’incapacità del sentire umano e l’impossibilità di mutare dall’alto nel tempo presente lo stato delle cose, con un solo volto: o il volto della misericordia (quello materno, della pace-shalom) o il volto della giustizia (paterno, della forza e della violenza). Ed è questo volto giusto e violento a dominare la scena, dando luogo a una condizione di mancanza di giustizia, equità, compassione e verità, e a generare un continuo stato di guerra dell’uomo contro l’altro uomo e contro il mondo creato.

Gesù servo di YHWH nel quadro di una società violenta

Gesù di Nazaret, che pure era e si proclamava «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), nasce in un contesto determinato, in cui la violenza è realtà radicata e quotidiana, tanto da accompagnare l’intera sua esistenza, sin dalla strage degli innocenti (Mt 2,16-18). Certo egli non predica la violenza, tutt’altro, e tanto meno la pratica, ma con essa fa i conti costantemente. È infatti a partire dalla sua venuta che il regno di Dio fa irruzione nel mondo, e tale irruzione suscita una violenza che egli non intende mascherare, cercando semmai di farla emergere. La sua pace, del resto, non è come quella di questo mondo, e non mancherà di dichiararlo esplicitamente: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Evidenziando situazioni d’ingiustizia e di violenza istituzionale, tanto religiosa quanto civile, egli ne rende esplicita la radicale inconciliabilità con il Regno. Nonostante non pochi insegnamenti successivi abbiano puntato ad attenuare tale dato, sostenendo che esiste una violenza necessaria e una guerra giusta, i cristiani da allora sanno che nessuna violenza può essere innocente. I vangeli, del resto, sono densi di insegnamenti nonviolenti (ad es. Mt 5, 33-45), e il Discorso della montagna dedica due beatitudini al richiamo della mitezza. Gesù si distanzia dagli oppositori al regime politico romano, anche armati, della sua epoca (gli zeloti), temendo gli equivoci che potrebbero sorgere dal titolo di Messia, inteso come sovvertimento di poteri temporali stabiliti, se si lascerà – sulla scia dell’isaiano Servo di YHWH – condurre al macello con la mansuetudine di un agnello.

In ogni caso, Gesù – in realtà – non viene come il Cristo davidico, come Messia annunciato dai profeti e atteso dal popolo; né come re che ricostruirà Gerusalemme. Viene come servo e sacrificato, ucciso e sepolto fuori dalle mura della città santa. È, per dir così, un Messia fuori dal messianismo: Dio in lui è vinto dagli uomini, e la sua guerra si conclude in una tomba. Tanto che la croce sembra riassumere in sé il fallimento sia della guerra santa sia della guerra messianica. La risurrezione, infatti, non abolisce la croce, ma anzi la predica come la sola convincente forma di vittoria di Dio sul mondo, e per un mondo a venire, un olam-ha-bà, in cui il nuovo Adamo potrà finalmente vivere in pace con sé, con il creato e con Dio stesso. 

Brunetto Salvarani è saggista, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso, insegna Teologia del Dialogo alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna.

*Foto di Miguel Hermoso Cuesta tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza

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