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Nutrire il pianeta. Ma come? L’agricoltura italiana a confronto con Via Campesina

Tratto da: Adista Documenti n° 42 del 29/11/2014

DOC-2670. ROMA-ADISTA. È uno slogan che ha tutto il sapore della beffa quello di Expo 2015 “Nutrire il pianeta, energia per la vita”: oltre mille ettari di terreno agricolo cementificati per l’occasione - in un Paese che, negli ultimi 40 anni, ha già perso 5 milioni di ettari di superficie agricola (pari al territorio occupato dalla Lombardia, dalla Liguria e dall’Emilia Romagna; v. Adista Documenti n. 29/14) - indicano in maniera assai chiara come non sia propriamente l’alimentazione la vera priorità del grande evento milanese. Di sovranità alimentare, e del modello di agricoltura che la rende possibile, si è invece parlato durante il seminario promosso il 30 ottobre scorso alla Camera dei deputati per iniziativa del Comitato Amig@s Mst-Italia e del vicepresidente della Commissione Agricoltura della Camera Adriano Zaccagnini, con la presenza del leader del Movimento dei Senza Terra del Brasile João Pedro Stédile, all’indomani dell’incontro dei movimenti popolari in Vaticano che lo ha visto tra i principali protagonisti, e della dirigente dell’Associazione nazionale delle donne rurali e indigene del Cile Luz Francisca Rodríguez (anche lei tra i relatori dell’incontro in Vaticano). Un’utile occasione di confronto tra gli operatori del mondo agricolo italiano e i movimenti dei Senza Terra e di Via Campesina, durante il quale è stato ribadito un fermo no agli organismi geneticamente modificati, non senza evidenziare che, se in Italia esiste il divieto delle coltivazioni transgeniche, grandi quantità di mangime a base di soia e di mais ogm giungono comunque nel nostro Paese dall’America Latina e dagli Stati Uniti. E non senza ricordare, come ha fatto Zaccagnini, la minaccia rappresentata anche per l’agricoltura dal Ttip, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti che Unione Europea e Stati Uniti stanno negoziando nella più assoluta mancanza di trasparenza e nel segno della più completa deregolamentazione.

«La senatrice a vita Elena Cattaneo – ha ricordato lo storico Piero Bevilacqua, curatore della Storia dell’Agricoltura italiana in età contemporanea (Marsilio editore) – ha perorato con grande vigore la causa degli ogm, affermando che l’assenza di sperimentazione in campo aperto non permette all’Italia di competere con gli altri Paesi del mondo. Ma – si è interrogato Bevilacqua – è questo il terreno su cui l’agricoltura italiana, un’agricoltura collinare e costituita prevalentemente da piccole aziende, è chiamata a competere?». Si tratta di un’agricoltura, ha proseguito lo storico, caratterizzata da una varietà straordinaria di climi, di assetti idrografici, di ecosistemi, da quelli alpini a quelli subtropicali della Sicilia e della Calabria meridionale, che hanno permesso a piante di tutto il mondo di acclimatarsi, producendo una grande biodiversità agricola. Ed è dall’eccezionale incrocio fra la diversità degli habitat naturali che attraversano la penisola e l’ampiezza cosmopolita della storia in cui è stata immersa che discende la ricchezza senza eguali dell’alimentazione italiana. Una ricchezza che, malgrado i colpi mortali inferti dalla nascita dell’agricoltura industriale nel secondo dopoguerra, occorre difendere, valorizzare e riproporre, perché è «nella varietà e nella qualità», nel «carattere non standardizzato dei prodotti», che riposa il futuro della nostra produzione agricola. E per farlo, ha continuato Bevilacqua, non si può prescindere dalla tutela dei nostri paesaggi agrari, gran parte dei quali costituisce «un monumento storico all’aperto, un luogo di produzione, ma anche di bellezza, qualcosa che nessuna attività industriale potrà mai produrre».  

E sul fatto che l’Italia sia «costretta» a difendere e promuovere «una buona agricoltura», come suo unico possibile terreno di competizione, hanno concordato tutti, durante la tavola rotonda coordinata da Riccardo Rifici, funzionario del Ministero dell’Ambiente ed esperto di sostenibilità: da Stefano Masini, responsabile Ambiente e Territorio della Coldiretti, il quale non ha mancato di ricordare la necessità di contrastare i fenomeni di delocalizzazione delle agro-industrie, a Ivan Nardone della Cia (Confederazione italiana agricoltori), che ha evidenziato la necessità di puntare su modelli agricoli socialmente ed ecologicamente sostenibili, individuando nella multifunzionalità, nella qualità e in un giusto reddito per gli agricoltori la base dell’agricoltura dell’oggi e del domani; da Giovanni Mininni, segretario generale della Flai (Federazione lavoratori agro-industria), che si è soffermato sulla presenza, nell’agricoltura italiana, di fenomeni di sfruttamento, di lavoro sottopagato e al nero, fino a «condizioni quasi medievali» di schiavitù, ad Andrea Ferrante dell’Aiab (Associazione Italiana per l'Agricoltura Biologica), il quale ha posto l’accento sui danni provocati dall’idea, fatta propria dalle associazioni agricole di categoria, che l’agricoltura non sia nient’altro che un’attività di impresa - con conseguente perdita della componente del paesaggio, della «capacità di relazionarsi con la natura», della centralità della figura contadina - indicando nel modello dell’agroecologia l’unica reale risposta alle politiche della terra in Italia, anche per non tradire le speranze dei giovani che fanno ritorno nelle campagne. E ricordando le responsabilità delle associazioni degli agricoltori nei negoziati sulla Pac, la contestatissima Politica agricola dell’Unione Europea, con i suoi 60 miliardi di euro pessimamente distribuiti in base alle dimensioni delle aziende: «I soldi pubblici non mancano – ha denunciato Ferrante -, è la qualità della spesa che lascia pesantemente a desiderare». 

E al concetto di sovranità alimentare si sono richiamati João Pedro Stédile e Luz Francisca Rodríguez negli interventi che qui di seguito riportiamo (tratti da registrazione e non rivisti dagli autori), insieme a quello di Domenico Finiguerra del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio. (claudia fanti) 

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