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L’ecumenismo e le mezze stagioni

L’ecumenismo e le mezze stagioni

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 34 del 08/10/2016

Promette di essere un anno bizzarro, questo 2017 che si avvicina. Specialmente per ciò che riguarda il cammino dei cristiani verso la piena riconciliazione: nel 500° anniversario della Riforma protestante, infatti, i segni che potrebbero dare fondamento a un forte ottimismo ecumenico si affiancano a quelli di segno totalmente opposto, che invece spingerebbero verso un cupo realismo. Signora mia – verrebbe da dire –, come nel meteo anche nell’ecumenismo non esistono più le mezze stagioni. La persistenza del gelo invernale si sovrappone, senza mescolarsi, all’arrivo del calore estivo. E l’esito ultimo – se si vada a grandi passi verso l’unità o invece verso un rafforzamento dei confessionalismi – resta completamente incerto. Per rendersi conto di una tale irresolutezza della partita ecumenica, basta guardare per un istante all’ambito del dialogo cattolico-protestante. La visita del papa al tempio valdese di Torino, l’udienza in Vaticano di un’ampia delegazione della Federazione delle Chiese evangeliche, poi l’atmosfera di dialogo al Sinodo di Torre Pellice e il prossimo convegno nazionale della Cei dedicato alla Riforma sono i segni principali di un deciso cambiamento di rotta rispetto al mood di freddezza/indifferenza che ha dominato per lunghi anni le relazioni tra Roma e le Chiese eredi di Lutero e Calvino. Oggi ci sarebbero tutte le premesse per sperare bene e, pensando alla partecipazione di Bergoglio alle celebrazioni del Giubileo luterano del 31 ottobre prossimo a Lund, in Svezia, aspettarsi qualche altra parola o gesto “forte”, che dia un ulteriore impulso al cammino del dialogo.

Eppure, questa non è tutta la storia: se si guarda alle rispettive posizioni dogmatiche, nessuno dei nodi che ancora separano la Chiesa cattolica e le Chiese della Riforma è stato non dico sciolto, ma almeno messo sul piatto di una discussione senza preconcetti. I ministeri ordinati, l’accesso delle donne al sacerdozio, l’intercomunione, l’interpretazione del primato del papa restano blocchi teologici che non si ha intenzione o coraggio di affrontare. Si dirà: questi sono i macigni che stanno in cima alla montagna, tocca fare ancora un lungo cammino in salita, l’importante è essersi messi in moto. D’accordo. Però i teologi delle due parti non sembrano aver trovato un’intesa neppure su quale modello ecumenico perseguire, se quello della piena comunione o quello delle “diversità riconciliate”. E dal punto di vista pastorale, per fare un altro esempio, resta al palo la questione, francamente scandalosa a lume di logica umana, delle coppie interconfessionali, che condividono la vita intera ma, tecnicamente, non possono accostarsi insieme alla stessa mensa eucaristica.

Inoltre, nonostante i molti gesti di riavvicinamento, anche ai massimi livelli, prima citati, in generale si respira una diffusa stanchezza e un certo qual menefreghismo (o, quantomeno, una sorda resistenza) verso il dialogo. E ciò a vari livelli (base, quadri intermedi, alti funzionari ecclesiastici) e su entrambe le sponde, cattolica e protestante. La passione ecumenica resta confinata a pochi ambienti, per lo più di specialisti, e stenta a propagarsi nella vita quotidiana delle comunità cristiane locali. Tanti, sia cattolici che evangelici, fanno come se “gli altri” semplicemente non esistessero. Il sentimento di autosufficienza confessionale se non addirittura un nuovo “orgoglio” identitario sono più radicati di quanto non ci piaccia vedere. Le spinte di papa Francesco vengono criticate e frenate, spesso e volentieri, da cardinali della vecchia guardia che coprono ancora dicasteri chiave in Vaticano. Dall’altro lato, non pochi teologi e pastori protestanti affermano oggi che il dialogo ecumenico con i cattolici non è più una priorità e che non c’è da dare credito alla mano tesa che viene dal vescovo di Roma.

Ma se le mezze stagioni dell’ecumenismo non esistono più, le Chiese tutte sono chiamate dall’urgenza della storia a scegliere da che parte stare: quella dell’inverno confessionalista o quella dell’estate della riconciliazione cristiana. Si tratta di una scelta di campo tutt’altro che indolore. Scegliere la via del sincero impegno ecumenico significa rinunciare alla pretesa di essere l’unica vera Chiesa di Cristo, quella in cui senza dubbio “sussiste” la pienezza della verità. Significa anche essere disponibili a relativizzare i propri paradigmi consolidati, il proprio modo di vedere le questioni e di impostare i termini del problema ecumenico. Ma, d’altronde, non era stato proprio Gesù a chiedere ai suoi discepoli di “lasciare tutto” per seguirlo?

Giovanni Ferrò è caporedattore di “Jesus” e “Credere”

* Statua di Martin Lutero. Immagine tratta dal sito Pixabay, licenza e immagine originale

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