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Il nuovo governo e la domanda di cambiamento

Il nuovo governo e la domanda di cambiamento

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 23 del 23/06/2018

L’itala gente da le molte vite di carducciana memoria, a quanto sembra, ancora una volta se l’è cavata: abbiamo un governo legittimato dalla fiducia del Parlamento, l’unico possibile per evitare l’incognita di nuove elezioni.

Un governo guidato dalla rassicurante figura del Presidente Conte, convinto assertore del “contratto” fra le due forze politiche della maggioranza da lui assunto come programma del nuovo Esecutivo con l’autonomia e le responsabilità che la Costituzione attribuisce al Premier. Un governo al quale il Capo dello Stato ha indirizzato un “forte augurio per il suo lavoro” durante la celebrazione del 2 Giugno dopo la faticosa e a tratti confusa fase delle consultazioni per la formazione della compagine ministeriale. Un Governo, però travagliato da certe inaccettabili guasconate di Salvini (come quella sulla nave carica di emigranti “bloccata” nel Mediterraneo) favorita da un’Europa che, come ha riconosciuto la cancelliera Merkel, continua a lasciare sola l’Italia nel compito di fronteggiare il dramma delle imbarcazioni cariche di disperati in balia dei trafficanti di essere umani. Un dramma che sarebbe delittuoso contrastare aggiungendo alle iniquità di cui gli emigranti sono vittime quelle dell’abbandono e del rifiuto.

Una fase segnata da errori (come l’annuncio di Di Maio di un assurdo impeachment del capo dello Stato per fortuna subito convertito in una fruttuosa collaborazione col presidente) e dal sorprendente ritardo con il quale ai più alti livelli delle responsabilità istituzionali e politiche si è compresa l’assoluta impercorribilità della strada che avrebbe potuto portare allo scioglimento delle Camere in presenza di un Parlamento che, come pubblicamente riconosciuto dallo stesso presidente Mattarella, aveva già espresso un governo con un programma concordato da una maggioranza parlamentare e con una struttura di governo condivisa dal capo dello Stato dissenziente esclusivamente sul conferimento di un solo incarico ministeriale. Un problema quest’ultimo che, come i fatti hanno dimostrato, si poteva agevolmente superare con una responsabile intesa fra i soggetti interessati ma non certo con un rovinoso e probabilmente improduttivo ricorso alle urne. Il rischio di una crisi istituzionale c’è stato e le conseguenze sarebbero state assai gravi. Occorre perciò riflettere sull’accaduto non per riaprire le polemiche appena sopite, ma per avviare una riflessione che faccia cresce re nella delicata vicenda politica italiana il tasso di prudenza, lungimiranza e saggezza, messo purtroppo alla prova durante lo svolgimento delle procedure per la formazione del nuovo governo.

Questo governo, quale espressione di un accordo politico fra forze per molti aspetti diverse, è il frutto di una legge elettorale voluta dal PD e da Forza Italia per impedire la vittoria del Movimento Pentastellato e propiziare un’alleanza fra Berlusconi e Renzi all’insegna di quel Patto del Nazareno pronto sempre, come l’Araba fenice, a risorgere dalle sue ceneri. Il voto del 4 marzo scorso, in qualche modo in linea col responso del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, ha fatto naufragare tale progetto e il Partito Democratico ne avrebbe dovuto prendere responsabilmente atto avviando un processo di rinnovamento interno e di revisione delle sue politiche impopolari e sbagliate. Ma non lo ha fatto e in concreto ha confermato, con qualche flebile e inascoltata voce di dissenso interno, la guida solitaria e suprema di Renzi e con questo arroccamento il PD ha scatenato, masochisticamente seguito dai “Liberi e Uguali”, una campagna propagandistica contro la nuova maggioranza aggiungendo all’errore del suo indispettito ritiro aventiniano da ogni responsabilità di governo, quello di una preconcetta e astiosa opposizione alla nuova maggioranza che può nuocere all’immagine internazionale del Paese ma non giova certo, come i sondaggi dimostrano, alla sua ripresa.

Il programma del nuovo governo presenta indubbiamente aspetti che prestano il fianco a rilievi per il difetto della necessaria organicità, per la genericità di alcuni impegni, per l’inaccettabilità di taluni obiettivi e per la nebulosità delle coperture finanziarie richieste da talune costose riforme, ma non vi è dubbio che contiene diverse cose positive e che in esso si coglie un forte intento di interpretare la domanda di cambiamento espressa in modo inequivocabile dal recente voto popolare che ha premiato il Movimento pentastellato e la Lega. Gli spasmodici attacchi delle forze di opposizione al Governo appena varato sono segnate dal malcelato obiettivo che il nuovo corso fallisca al più presto quali che siano i costi che potrebbe essere chiamato a pagare il Paese e sono anche rivelatori di una politica che non riesce a guardare al di là del proprio naso e si dibatte come un pesce fuor d’acqua quando rischia di perdere le leve del potere sulle quali da tempo tiene le mani.

Nonostante tutte le smentite e tutte le rassicurazioni, il Governo Conte continua a essere tacciato di antieuropeismo ed antiatlantismo. E viene anche accusato di essere espressione di un populismo “antisistema” intendendo per “sistema”, par di capire, talvolta il ceto politico dominante e talaltra l’establishment quando invece il vero possibile handicap politico del “populismo” di casa nostra sembra essere un altro. Quello che esso si ponga solo come alternativo a quel coacervo di privilegi e di interessi definito “casta” e non anche e soprattutto al sistema economico dominante generato da quel “pensiero unico” quale causa primaria delle disuguaglianze e dei drammi sociali che tristemente segnano il tempo che stiamo vivendo. Una scelta in difetto della quale ogni pur sincera vocazione al “cambiamento” rischia di naufragare. Un orizzonte al quale guardare per dare respiro a un forte progetto innovativo da realizzare ovviamente con la gradualità suggerita da un responsabile realismo, ma anche con la ferma determinazione richiesta dalle grandi svolte. Un elevato imperativo etico-sociale che deve essere incoraggiato e sostenuto ovunque si progettino e si facciano cose concrete rivolte a promuovere i diritti dei cittadini più poveri e i diritti economici dei ceti sociali più deboli perché è lì, proprio lì e non altrove, che c’è la sinistra.

Nel suo discorso per la fiducia al Senato il presidente del Consiglio Conte ha detto, citando il titolo di un libro del professore emerito di marketing Philip Kotler, che occorre “ripensare il capitalismo”. Un segno di sensibilità politica che può accendere un barlume di speranza a fronte del silenzio della sinistra su questo cruciale tema. Ma occorre qualcosa di più dal momento che non il “ripensamento” ma il “superamento” di questo iniquo capitalismo neoliberista dovrebbe essere la stella polare di quanti lavorano per costruire in Italia, in Europa e nel mondo una economia più umana e più giusta. Se ne è infatti dimostrato consapevole il pur moderato prof. Kotler il quale in una recente intervista (dicembre 2016) si è così espresso: «Il capitalismo sta letteralmente mangiando la democrazia. Esso porta i politici a favorire gli interessi delle élite, di coloro che hanno soldi e potere, invece di fare gli interessi dei poveri e della classe lavoratrice». E la stessa cosa diceva (voce dal sen fuggita) già diciotto anni fa il noto politologo liberista statunitense Edward Luttwak nel libro La dittatura del capitalismo (Mondadori, 1999) con queste parole: «Ciò che i progetti del turbocapitalismo celebrano e chiedono è che l’impresa privata sia liberata da regolamentazioni governative, senza intromissione da parte dei sindacati... e senza precisare nulla sulla distribuzione della ricchezza… permettere al turbocapitalismo di avanzare senza ostacoli significa disintegrare la società in piccole élites di vincitori e masse di perdenti».  

* Michele Di Schiena è presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione

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