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Il governo giallo-rosa fra insidie e speranze

Il governo giallo-rosa fra insidie e speranze

«I fatti sono argomenti testardi e, qualsiasi sia la nostra volontà, le nostre inclinazioni o i dettami della nostra passione, non possono alterare lo stato dei fatti e delle prove». Prescindendo da ogni giudizio di merito sul caso specifico, aveva ragione in via di principio il secondo Presidente degli Stati Uniti d’America, John Adams, che con queste parole difese i soldati britannici durante il processo del 24 ottobre 1770 sul massacro di Boston. E i fatti questa volta hanno dato ragione a quelle voci isolate che, guardando alla politica italiana, hanno negli ultimi tempi contestato l’opinione accreditata da numerosi politici e commentatori secondo la quale i Cinquestelle e la Lega di Salvini sarebbero la stessa cosa. Tesi questa smentita dalla realtà e anche dall’unanime scelta del PD di varare un’intesa di governo con i Cinquestelle riconoscendo nei fatti l’infondatezza della equiparazione fra le due forze del governo dimissionario.

La smania di potere che sembra aver provocato certe azzardate decisioni e certe avventuristiche sortite di Salvini ha reso doverosa, a giudizio dei Cinquestelle e della sinistra riformista, la costituzione di un governo che dovrebbe segnare una netta “discontinuità” il cui contenuto rischia di essere interpretato in maniera diversa dalle due forze maggiori della costruenda coalizione: il PD infatti è portato a individuarla con riferimento alle politiche del precedente governo da esso contestate mentre il Movimento pentastellato la rinviene in quelle misure del suo programma ostacolate e boicottate da Salvini. Il rischio è che la tanto sbandierata discontinuità finisca per tradursi in un alternarsi di piccoli passi avanti e di alcuni passi indietro di un governo che, indicato come giallo-rosa, rischia di assumere sul versante della politica economica (che è fondamentale e in grado di condizionare gli altri settori di intervento) i colori di un rosa sempre più pallido e di un giallo sempre più sbiadito.

Da qui l’esigenza che venga dato ascolto agli appelli di quella società civile di segno progressista (a partire dalla nota del “Coordinamento per la democrazia costituzionale”) che in vario modo chiede scelte innovative ispirate al progetto costituzionale: la lotta alle disuguaglianze richiesta dall’art. 3 dello Statuto, l’impegno per la ricostruzione di un’Europa simile a quella disegnata a Ventotene, l’introduzione di una legge elettorale proporzionale per mettere in sicurezza la democrazia, la decarbonizzazione per combattere il cambiamento climatico, la lotta alle mafie nonché alla corruzione e all’evasione fiscale, l’accentuazione della progressività tributaria, il contrasto all’autonomia differenziata che porterebbe di fatto alla secessione delle regioni più ricche, la lotta contro la violenza e le disuguaglianze in danno delle donne, la lotta alla povertà col potenziamento del reddito di cittadinanza, la lotta alla precarietà, l’introduzione del salario minimo e il ripristino dell’art. 18 per i licenziamenti illegittimi.

Si tratta di orientamenti che potrebbero essere espressione di quel “nuovo umanesimo” al quale il Presidente incaricato Conte ha fatto riferimento nelle dichiarazioni rese subito dopo il conferimento dell’incarico. Un “umanesimo” che può definirsi “sociale” se rivolto a costituire la fonte di politiche caratterizzate dall’obiettivo di costruire una valida alternativa al neoliberismo. Una convergenza di energie spirituali e sociali capace di rilanciare gli ideali di giustizia del “sogno” socialista, di valorizzare gli aneliti di fratellanza del solidarismo cristiano e di accogliere gli orientamenti del liberalismo keynesiano. Un insieme di valori, aspirazioni, tensioni, testimonianze e lotte intese a promuovere la dignità di tutti gli uomini.

Va però con amarezza rilevato che i citati appelli non trovano adeguata attenzione nel dibattito politico in corso forse anche perché gli specifici punti esposti non vengono adeguatamente inquadrati in un organico progetto di trasformazione politico-sociale che, proprio perché costituzionalmente ispirato, dovrebbe avere come comune denominatore il lavoro considerato dall’art. 1 della Costituzione il fondamento della nostra Repubblica e quindi elevato a valore informativo dell’intero ordinamento. E al citato articolo 1 si lega l’art. 4 dello stesso Statuto che sancisce il diritto al lavoro e impegna le istituzioni repubblicane a promuovere le condizioni per renderlo effettivo. Ma c’è di più e cioè che dalla proclamazione dei principi fondamentali della nostra Costituzione emerge l’esigenza che il potere pubblico intervenga per coordinare l’attività economica indirizzandola al raggiungimento di una maggiore giustizia così come gli artt. 41, 42 e 45 sottolineano la necessità che le libertà economiche non si pongano in contrasto con l’utilità sociale e con la dignità della persona umana. Ne discende che se si vuole costruire e attuare un progetto in linea con la Carta costituzionale è necessario avviare politiche che puntino a una graduale trasformazione del modello di economia dominante.

Si è sostenuto per anni che il liberismo senza “lacci e laccioli” avrebbe promosso uno sviluppo capace di assicurare benessere economico e migliori condizioni di vita a un numero crescente di uomini e donne. Si è gridato ai quattro venti che l’intervento pubblico nell’economia va considerato un residuo di superate ideologie destinato a un definitivo tramonto. Si è fatto in modo di capovolgere persino il senso comune delle parole facendo passare per “conservatori” i progressisti impegnati sul fronte della giustizia sociale e per “riformatori” i tutori della classe dominante, sempre la stessa nonostante il mutare dei volti e delle casacche. Si è tentato infine di svuotare la Costituzione dei valori che la collocano fra i più avanzati Statuti moderni con l’intento di rifondare la Repubblica non più sul lavoro ma su un simulacro di libertà, quella dei pochi privilegiati che esercitano di fatto il potere economico con danno dei diritti di tutti. Dopo le estenuanti diatribe di questi giorni la domanda è allora se il nuovo governo sarà in grado di avviare, con la gradualità che il realismo impone ma anche con la determinazione che la giustizia esige, politiche effettivamente in linea col messaggio costituzionale. Il riformismo senza riforme è una pericolosa insidia per la nostra democrazia ma il ripetuto richiamo ai principi costituzionali da parte del Presidente Conte accende, per la sua positiva novità, qualche luce di fiduciosa speranza.

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