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Non c’è pace senza giustizia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 17 del 04/05/2013

«Non accetto i vostri tribunali e le vostre leggi arbitrarie. Dite di aver calpestato e distrutto la mia Terra in nome di una libertà che vi è stata promessa dal vostro Dio, ma non riuscirete a calpestare la mia nobile anima disobbediente». Scrive così, in una lettera aperta al popolo israeliano, Samer Issawi, il giovane palestinese detenuto nel carcere di Nafha, che è riuscito ad attirare l’attenzione internazionale grazie a uno sciopero della fame durato 8 mesi. Una storia come tante la sua, fatta di soprusi e ingiustizie. Samer, come ha raccontato lui stesso in una lettera al Guardian, viene arrestato la prima volta a 17 anni e condannato a due anni di carcere, poi nuovamente a vent’anni, condannato a 30 anni di prigione con l’accusa di far parte della resistenza all’occupazione. Dopo quasi dieci anni viene rilasciato nell’ambito degli accordi tra Israele e Hamas per lo scambio con il soldato israeliano Gilad Shalit. Il 7 luglio del 2012 viene arrestato per la terza volta, vicino Hizma, all’interno dei confini del comune di Gerusalemme, accusato di aver violato i termini di rilascio, ovvero di essere uscito dalla città santa. Samer decide quindi di cominciare uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione: «Questa – dice al quotidiano britannico – è l’ultima pietra che mi resta da lanciare contro l’occupazione razzista che umilia il mio popolo». Uno sciopero che ha interrotto il 22 aprile scorso grazie a un accordo con Israele di cui ancora non sono chiari i termini (secondo quanto riporta la Reuters, Israele gli ha garantito che sarà rilasciato a Gerusalemme, a differenza di quanto proposto in precedenza, quando gli era stata offerta la deportazione a Gaza, rifiutata da Issawi).
Una lettera, quella che Samer ha diffuso ai primi di aprile, che dà voce ai quasi 5mila palestinesi rinchiusi nelle prigioni israeliane e che cade in prossimità della Giornata internazionale di solidarietà con i detenuti palestinesi, che si celebra 17 aprile. Una ricorrenza in occasione della quale AssopacePalestina, Amici della Mezzaluna Rossa palestinese e Rete romana di solidarietà con il popolo palestinese hanno organizzato a Roma una tre giorni di iniziative, dal 15 al 17 aprile, per lanciare un appello per la liberazione di Marwan Barghouti, uno dei leader della prima ed ella seconda Intifada, in carcere da dieci anni, e di migliaia di palestinesi, incarcerati per motivi politici.
Nell’ambito di questa iniziativa la Rete romana di solidarietà con il popolo palestinese ha presentato un dossier sulle condizioni in cui versano i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Il quadro è desolante. «Dall’inizio dell’occupazione israeliana, nel 1967, sono oltre 800mila i palestinesi arrestati da Israele», si legge nel Rapporto: numero che corrisponde al 20% della popolazione palestinese dei Territori occupati. Tra questi figurano anche 8mila bambini arrestati dal 2000 a oggi. Addameer, organizzazione per la tutela dei prigionieri palestinesi e la difesa dei diritti umani, stima il numero di detenuti politici palestinesi alla data del 1° febbraio 2013 in 4.812, distribuiti in 17 prigioni, quattro centri per gli interrogatori e quattro centri di detenzione. «Tutti, tranne uno, si trovano all’interno di Israele, in violazione dell’art. 76 della IV Convenzione di Ginevra che stabilisce che una potenza occupante deve detenere i residenti del territorio occupato nelle carceri all’interno dello stesso territorio».
In conseguenza di ciò, prosegue il Rapporto, «molti detenuti hanno difficoltà ad incontrarsi con i loro difensori palestinesi e non ricevono visite dai familiari perché ai loro parenti vengono negati i permessi per entrare in Israele per “motivi di sicurezza”». «Del numero totale di prigionieri politici detenuti in Israele – prosegue il rapporto – 219 sono minori (31 dei quali sotto i 16 anni). Nel totale sono compresi anche 15 membri del Consiglio legislativo palestinese, 178 ristretti in detenzione amministrativa, e 437 prigionieri provenienti dalla Striscia di Gaza, ai quali sono in gran parte negate le visite dei familiari dal 2007».
Tra le innumerevoli violazioni commesse da Israele spicca la cosiddetta “detenzione amministrativa”, una procedura che consente ai militari israeliani di tenere indefinitamente reclusi prigionieri basandosi su prove segrete, senza incriminarli o processarli. Procedura di cui Israele si serve in spregio alle limitazioni previste dal diritto internazionale.
Ma è l’intera filiera del sistema repressivo, sottolinea ancora il Rapporto, a essere gestita in «costante violazione delle leggi che regolano i procedimenti giudiziari, la tutela della salute, la dignità della persona e l’integrità fisica e psichica dei prigionieri». Maltrattamenti e torture sono all’ordine del giorno, nella pressoché totale impunità. Secondo Yesh Din (organizzazione israeliana per i diritti umani), durante la seconda Intifada, il 90% delle indagini condotte dal Dipartimento per le indagini sulla polizia militare, è finita con un’archiviazione.

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