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In attesa della “svolta buona”

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 12 del 29/03/2014

Confesso un po’ di imbarazzo nel commentare il Job’s Act di Matteo Renzi. Un po’ perché non ne conosco i dettagli, peraltro non ancora integralmente noti; un po’ perché finora il Renzi di Firenze non mi ha ispirato particolare simpatia politica; un po’ perché mi disturba il suo sostanziale gradimento da parte della destra politica; un po’ perché continua ad apparirmi come un ottimo “venditore”, ma non riesco bene a capire che cosa voglia vendere.

Non mi esonero però dal rilevare che comincia anche ad emergere un aspetto positivo, solo psicologico mancando di concretizzazioni efficaci e tangibili: un nuovo senso di fiduciosa attesa che comincia a notarsi in molti. Spero di cuore che nessuno alla fine resti amaramente deluso, perché sarebbe davvero tragico per le sorti della Politica del nostro Paese.

Ma con questo Job’s Act possiamo immaginare quale sarà il futuro di un Paese come il nostro in evidente declino, non solo economico, e in grave difficoltà nel contesto internazionale. Negli ultimi trent’anni, in questo campo, al di là degli intenti e dei proclami, sono state rilevanti le “non scelte” o le scelte rimaste a metà del guado. Così è stato per il pacchetto Treu, il primo grande tentativo di riscrittura delle regole del mercato del lavoro che ha via via perso tutti i tasselli decisivi. Lo stesso vale per la riforma Biagi del 2003: l’ambizioso tentativo si è alla fine tradotto in un intervento ai margini del mercato del lavoro concentrato sulle sole flessibilità in ingresso e su un tentativo, fallito, di ridisegnare l’apprendistato. I nodi dell’articolo 18, della giustizia del lavoro e della riforma degli ammortizzatori sono invece finiti su un binario morto per la mancanza di adeguato sostegno politico e soprattutto sindacale.

A metà del guado è rimasta poi la legge Fornero procedendo a una compressione delle forme flessibili di lavoro introdotte negli anni precedenti, creando non pochi danni al mercato del lavoro, secondo una logica dirigista che ha finito per comprimere ogni spazio di azione all’autonomia non solo individuale ma anche collettiva. Fino all’intervento parzialmente correttivo, a colpi di “cacciavite”, del governo Letta che, seppure accompagnato da rilevanti risorse economiche, poco o nulla ha inciso sulle dinamiche del mercato del lavoro e sulla propensione delle imprese ad assumere.

Grandi, dunque, erano le attese verso il Job’s Act annunciato da Matteo Renzi nella convinzione che fosse finalmente giunto il tempo delle scelte; «la svolta buona», come affermato più volte dal presidente del Consiglio attraverso una tecnica e un’abilità di comunicazione certamente sino a qui mai viste tra i suoi predecessori. Doveva essere la svolta del contratto unico a tempo indeterminato, ma così non è stato. Il governo ha anzi approvato il suo esatto contrario con una sostanziale liberalizzazione del contratto di lavoro a termine che già oggi copre il 60% degli avviamenti al lavoro. Nel breve periodo la misura è senza dubbio utile per riattivare il mercato del lavoro anche se si pone in piena contraddizione, nel medio e lungo periodo, con la filosofia più volte annunciata del Job’s Act di sostegno al lavoro di qualità e alla lotta al precariato. Poco si vede come risposta a un Paese che conosce tassi di lavoro nero e disoccupazione, specie giovanile, tra i più alti d’Europa.

Positiva certo la scelta di tagliare le tasse sul lavoro dipendente per i salari bassi e l’intervento sulla “Garanzia per i giovani” che viene estesa ai giovani fino a 29 anni, mentre sino a ieri era limitata agli under 25. Positivo anche l’aver riconosciuto nell’apprendistato il contratto principe per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.

Poche le misure da subito operative. Il grosso dell’intervento di semplificazione del mercato del lavoro è rinviato a una legge delega che dovrà essere incardinata nel Parlamento con tutte le complicazioni e i tempi decisamente lunghi e incerti che questo comporta. Per fare solo un esempio, con precedente analogo progetto di riforma, dal disegno di legge alla attuazione della Legge Biagi ci sono voluti quasi tre anni. Alla fine di tutto, dov’è la svolta culturale? Si è scelto di non scegliere in attesa di tempi migliori?

Ma attendo la pubblicazione integrale sulla Gazzetta Ufficiale (prevista entro una quindicina di giorni). Mi aspetto che il Job’s Act preveda un “proemio” che offra le linee ispiratrici e ideali della “Svolta buona”. Provenendo Renzi da un retroterra culturale cattolico mi aspetterei di trovare nel “proemio” qualche eco della ricchissima Dottrina sociale cristiana sui temi del lavoro umano. Continuando ad essere parte di un mondo cattolico che ritiene ancora valido e ricco di esperienza non solo storica il cosiddetto “cattolicesimo democratico”, mi piacerebbe rintracciare quelle preziose linee ispiratrici, in una sinossi ben amalgamata con il grande contributo del movimento operaio (che ormai mi pare sopravviva solo in Landini!), anche se qualcuno lo ritiene ormai solo, al pari del cattolicesimo democratico, una vetrinetta di un museo della storia passata.

Non credo sia così. Lì si ritrova l’essenziale: l’antropologia e la teologia (anche quella laica) del lavoro umano. Da ciò che ho avuto occasione di leggere finora non ne vedo traccia, purtroppo. O forse non ho saputo leggere.

Mi preoccupa non trovare una riflessione sulla solidarietà mentre abbondano invece riferimenti al mercato del lavoro, quel mercato che è diventato negli ultimi vent’anni il nuovo Baal. Non c’è traccia di una comunità degli esseri umani che lavorano e che si propongono in comune di liberare il lavoro umano dai pesi e dalle sofferenze di cui è causa l'altro essere umano e cioè di liberarlo da quel peso che non è legato in modo naturale al processo di trasformazione della materia con il lavoro. Il lavoro è l'asse della solidarietà. Non trovo traccia della domanda sull'essenza del lavoro. Si può cogliere l'idea fondamentale del lavoro e di quale ruolo svolga il lavoro nella vita dell'essere umano, quale posto occupi nella gerarchia dei suoi valori? Si risponde alla domanda: che cos'è il lavoro? Che il lavoro sia quella forma di dialogo della persona con la persona che serve alla conservazione e allo sviluppo della vita umana. Il lavoro è un dialogo al servizio della vita. È questa l’idea guida di Renzi?

Secondo la Dottrina sociale la persona non è uno degli elementi anonimi delle filiera lavorativa, ma ne è il capitale e la risorsa più importante e decisiva perché è creata ad immagine e somiglianza di Dio, dal quale trae la sua dignità fondata su diritti e doveri inalienabili. L’essere umano è stato creato per le relazioni, dunque per stare insieme, agire insieme, produrre insieme, solidarmente e in comunione con i suoi simili. La società, sempre più globalizzata, ci rende vicini, ma non ci rende fratelli.

Che spazio c’è per una redistribuzione del reddito, che faccia recuperare l’equità senza la pretesa di livellare il mercato del lavoro e penalizzare le professionalità, le competenze e le responsabilità di ciascuno, perseguendo vie di giustizia commutativa e sociale? La giustizia esige la fraternità, il bene singolo esige il bene comune. Sono tanti oggi i manager e le persone appartenenti a diverse categorie professionali, nel pubblico come nel privato, in diversi settori (sanità, industria, sport professionistico, spettacolo, politica), che guadagnano, in un mese, quello che un lavoratore guadagna in un anno di lavoro. C’è in questo senso un vero segnale forte di giustizia e di solidarietà nel Job’s Act?

Un benessere economico autentico si persegue anche attraverso adeguate politiche sociali di ridistribuzione del reddito che, tenendo conto delle condizioni generali e considerando i meriti e la professionalità, si misuri a partire dai reali bisogni di ogni cittadino. Dov’è?

Quanto è concreto il tentativo di non far uscire dal ciclo produttivo le persone (penso ai cinquantenni che sono in cassa integrazione o in mobilità; e penso ai giovani che, pur precari, avevano un lavoro e ora non ce l’hanno più), attivando per loro un’alternativa? Non è sopportabile la situazione di chi deve, ogni giorno, vivere nel provvisorio, confidando nell’aiuto degli altri e perdendo così quella necessaria autostima, che aiuta a vivere serenamente con il proprio lavoro. Meglio infatti un modesto lavoro che un grande sussidio.

Non è accettabile, dal punto di vista morale, la disoccupazione anche solo di una persona, considerate le gravissime conseguenze per la sua famiglia. E tanto più grave è il venir meno di intere aziende che lasciano a casa decine o centinaia di lavoratori. Nessuna componente sociale può essere indifferente a questo problema che va perciò affrontato con la massima corresponsabilità ed impegno di tutti i soggetti pubblici, privati, sociali e istituzionali. Qualcuno vede davvero “La svolta buona”?

* Parroco a San Giorgio in Castelceriolo (Alessandria)

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