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NESSUNA PACE SENZA LA FINE DELL’OCCUPAZIONE. REAZIONI INTERNAZIONALI AL MASSACRO DI GAZA

Tratto da: Adista Notizie n° 29 del 02/08/2014

37745 ROMA-ADISTA. Ci hanno raccontato dei cittadini israeliani di Sderot terrorizzati dai razzi che partono dalla Striscia di Gaza, ma si sono dimenticati di dirci che una volta Sderot non esisteva e che chi abitava quella terra era palestinese. Ci hanno ripetuto a piè sospinto che Israele ha diritto a difendersi, ma si sono dimenticati di dirci che è Israele l’aggressore. Da 66 anni. Ci hanno raccontato che Hamas usa i civili come scudi umani, ma non ci hanno detto che per i palestinesi della Striscia fuggire non è un’opzione praticabile, perché per Israele ogni casa è un obiettivo e perché dalla Striscia non c’è via d’uscita. Ci hanno detto che Hamas ha rifiutato il cessate il fuoco – che non ha neppure potuto negoziare – ma hanno taciuto del fatto che in realtà quella era una resa incondizionata che avrebbe ripristinato lo status quo precedente. Uno status quo che non può certo chiamarsi pace.

Questo è quello che ci hanno detto, e quello che hanno scelto di non dirci.

Tra le cose che si sono ben guardati dal ricordare ci sono le parole di Paulo Freire, il quale diceva che «mai nella storia la violenza è partita dagli oppressi», che «non ci sarebbero gli oppressi se non ci fosse stata prima una violenza per stabilire la loro sottomissione». A riprendere quelle parole, oggi, sono i 100 artisti, premi Nobel e intellettuali che nei giorni scorsi hanno lanciato un forte richiamo all’Onu e alla comunità internazionale affinché venga imposto «un embargo militare totale e giuridicamente vincolante verso Israele, simile a quello imposto al Sudafrica dell’apartheid». «La capacità di Israele di lanciare impunemente attacchi così devastanti deriva in gran parte dalla vasta cooperazione militare e dalla compravendita internazionale di armi che Israele intrattiene con governi complici di tutto il mondo», si legge nella lettera firmata tra gli altri da Desmond Tutu, Adolfo Peres Esquivel, Frei Betto, Noam Chomsky, dagli italiani Ascanio Celestini, Giulio Marcon, Luisa Morgantini, e dagli israeliani Ilan Pappe e Nurit Peled. «La compravendita di armi e i progetti congiunti di ricerca militare con Israele incoraggiano l’impunità israeliana nel commettere gravi violazioni del diritto internazionale e facilitano il radicamento del sistema israeliano di occupazione, colonizzazione e negazione sistematica dei diritti dei palestinesi». «I governi che esprimono solidarietà con il popolo palestinese a Gaza, il quale subisce il peso del militarismo, delle atrocità e dell'impunità israeliani, devono cominciare con l’interrompere tutti i rapporti militari con Israele. I palestinesi – conclude l’appello che ha raccolto migliaia di adesioni – hanno bisogno oggi di solidarietà efficace, non di carità».

Ed è sulla stessa lunghezza d’onda che si pongono le organizzazioni della principale rete europea contro il commercio di armamenti, l’European Network Against Arms Trade (ENAAT, di cui fa parte, per l’Italia, la Rete per il disarmo che già ha lanciato un analogo appello al governo italiano, v. Adista Notizie n. 28/14), che domandano la fine immediata di ogni forma di sostegno militare a Israele e chiedono all’Unione europea di dichiarare un embargo totale sulle armi verso tutte le parti in conflitto.

Ma tante sono le voci di protesta contro l’inaudita violenza cui stiamo assistendo.

Per una pace che sia giusta

Papa Francesco – oltre a scrivere una lettera di conforto a p. Jorge Hernandez, parroco della Sacra Famiglia nella Striscia di Gaza, e a tuonare nuovamente contro la guerra nell’Angelus del 20 luglio – ha telefonato a Shimon Peres e ad Abu Mazen, condividendo le sue gravissime preoccupazioni sull’attuale situazione di conflitto che, in un clima di crescente ostilità e sofferenza per i due popoli, sta seminando tante vittime e dando luogo ad una situazione di grave emergenza umanitaria.

Pregano per un immediato cessate il fuoco anche il vescovo ausiliare di Gerusalemme, mons. William Shomali – il quale sottolinea però la necessità di riprendere i negoziati in accordo con le risoluzioni dell’Onu (America, 22/7) – e il World Council of Churces, già intervenuto contro il massacro in atto (v. Adista Notizie n. 28/14), che rimarca l’urgenza di una pace giusta.

«Quello che sta succedendo a Gaza – ha dichiarato alla Fides (22/7) il patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah – non è una guerra, ma un massacro. Un massacro inutile, che non farà avanzare nemmeno di un passo Israele verso la pace e la sicurezza». Secondo Sabbah, «l'unica via d’uscita dalla spirale di violenza e distruzione sta nell’affrontare la questione di fondo, cioè l'occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Ci sarà pace e sicurezza solo quando Israele riconoscerà la libertà e la sovranità dello Stato palestinese. Ma forse per questo – conclude – dovremo aspettare una nuova generazione di capi israeliani».

E di massacro parla anche il documento congiunto diffuso da Kairos Palestina e National Coalition of Christian Organizations in Palestine. «Imploriamo Dio onnipotente che ci ha detto: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7). O Signore, abbiamo chiesto, e abbiamo bussato, e siamo stati in cerca di giustizia e di pace per anni. Ma nessuna porta ci è stata aperta e siamo stati trattati molto ingiustamente. Signore, apri i cuori e le menti di tutti, di chi ha paura e si sente insicuro, di chi uccide, e della gente di Gaza che, nonostante un assedio di sette anni e tre aggressioni consecutive, credeva di essere al sicuro». L’appello ad agire subito è «a tutti coloro che hanno a cuore la dignità umana e la vita umana»: «Facciamo appello alla comunità internazionale, ai governi, alle chiese e alla società civile affinché spingano Israele a rispettare il diritto internazionale, a togliere l'assedio a Gaza e a porre fine all’occupazione militare dei Territori palestinesi in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite». 

Così anche il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, che in un’intervista al Catholic News Service (23/7) chiede la fine dell’embargo che ha reso Gaza una prigione a cielo aperto.

E un forte segno di vicinanza lo ha dato la delegazione di Pax Christi, guidata da don Nandino Capovilla, partita in questi giorni alla volta della Cisgiordania. «Di fronte a questa situazione, non possiamo limitarci a stare a guardare!», ha spiegato ai microfoni di Radio vaticana (19/7) don Renato Sacco. «Ciò che abbiamo fatto altre volte negli anni passati, lo facciamo adesso: essere là a condividere la sofferenza di chi oggi sta vivendo questa follia». «Credo che in queste situazioni, per chi è là, sia importante sapere che qualcuno non li ha dimenticati». «E poi – ha proseguito – portiamo anche delle medicine per l’ambulatorio di Betlemme, e incontreremo il direttore della Caritas Gerusalemme, al quale daremo anche dei soldi per condividere la sofferenza delle famiglie a Gaza. Soldi che ci sono stati dati in questi giorni da tante persone che così hanno voluto dire: noi non possiamo venire, però, oltre alla preghiera e all’affetto, condividiamo anche le cose pratiche con chi ha adesso bisogno».


Niente di meno di un genocidio

Forse però sono ancora più significative le voci di quegli israeliani che in questi giorni si sono levati in piedi contro il governo di Netanyahu. C’è Nurit Peled, premio Sakharov del Parlamento Europeo, che ha perso la figlia di 13 anni in un attentato kamikaze, la quale – oltre a firmare l’appello per l’embargo a Israele – ha scritto a Luisa Morgantini un accorato messaggio in cui denuncia il «carattere non democratico dello Stato di Israele» che «lo sta sempre più trasformando in un pericoloso Stato di apartheid». «Politici e generali israeliani, soldati e piloti, delinquenti di strada e membri della Knesset sono tutti colpevoli dello spargimento di sangue e dovrebbero essere processati dalla Corte Penale Internazionale», scrive Peled. «Noi cittadini di Israele e popolazione senza Stato della Palestina, non possiamo da soli ottenere la fine dell’occupazione o fermare il bagno di sangue. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutta la comunità internazionale e della Comunità europea in particolare. Abbiamo bisogno   che mettiate sotto accusa il governo e l’esercito israeliani, che boicottiate l’economia e la cultura israeliane, che facciate pressione sul vostro governo perché cessi di trarre profitto dall’occupazione e che vi appelliate affinché ad Israele sia imposto un embargo sulle armi e sia tolto l’assedio a Gaza. Israele è la più grande e pericolosa organizzazione terroristica esistente al giorno d’oggi. Tutte le sue munizioni vengono usate per uccidere civili innocenti, donne e bambini. Questo – conclude – non è niente di meno di un genocidio».

Ci sono poi i 50 riservisti che, con una lettera pubblicata sul Washington Post (23/7), hanno annunciato il loro rifiuto a prendere parte alle operazioni militari, seguendo l’esempio degli ex soldati riuniti nell’associazione Breaking the Silence che in questi giorni sono tornati a far sentire la loro voce. Come O. K. che, firmandosi così in un articolo apparso su 972mag (16/7), racconta della sera in cui lui ed i suoi compagni, erano i tempi della Seconda Intifada, si sono «trasformati da soldati di un esercito di difesa a soldati di un esercito di vendetta. Da soldati inviati a difendere le nostre famiglie – scrive – siamo diventati assassini di persone innocenti. Qualche anno dopo ho rotto il mio silenzio perché pensavo che l’opinione pubblica israeliana avesse bisogno di sapere che cosa viene fatto ogni giorno, in suo nome, nei Territori occupati palestinesi. Rompo il mio silenzio ancora una volta oggi, perché credo che l’opinione pubblica israeliana e la sua leadership abbiano bisogno di sapere che cosa stanno dicendo quando chiamano alla vendetta. Hanno bisogno di sapere che quando cercano vendetta in realtà ci stanno chiedendo di trasformare i soldati di oggi, i nostri amici, fratelli e figli, in assassini». 

Ci sono anche gli accademici israeliani che hanno firmato una dichiarazione in cui condannano «l’aggressiva strategia militare del governo israeliano» e «il massacro di un gran numero di persone totalmente innocenti» che stanno «mettendo sempre più ostacoli insaguinati sulla strada dei negoziati, unica alternativa all’occupazione e all’oppressione del popolo palestinese. Israele – scrivono – deve accettare un cessate il fuoco immediato e iniziare colloqui che pongano fine all'occupazione e agli insediamenti, verso un accordo per una pace giusta».

Ci sono le 10 organizzazioni israeliane per i diritti umani che hanno scritto una lettera al procuratore generale Yehuda Weinstein esprimendo grave preoccupazione circa le pesanti violazioni del diritto internazionale umanitario compiute nelle operazioni dell'esercito israeliano a Gaza.

Ci sono infine – ma in realtà ci sarebbe da dare conto di ancora molti altri – i più di 100 cittadini israeliani che hanno scritto una struggente lettera alla famiglia di Mohammed Abu Khdeir, il ragazzo palestinese brutalmente ucciso il 2 luglio scorso nei pressi di Gerusalemme (pubblicata originariamente sul sito Haokets, ripresa da 972mag, qui nella traduzione di OsservatorioIraq). «Le nostre mani grondano di sangue. Le nostre mani hanno dato fuoco a Mohammed. Le nostre mani hanno soffiato sulle fiamme», si legge nella lettera. «Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire “non lo sapevamo, non lo abbiamo capito prima, non eravamo in grado di prevederlo”». «Siamo stati testimoni dell’enorme macchina di incitamento al razzismo e alla vendetta messa in moto da governo, politici, sistema educativo e mezzi di informazione». «Abbiamo visto come l’essere “ebreo” sia stato totalmente svuotato di significato, e ridotto a nazionalismo, militarismo, alla lotta per la terra, all’odio per i non-ebrei, al vergognoso sfruttamento della Shoah». «Più di ogni altra cosa – proseguono –, siamo stati testimoni di come lo Stato di Israele, attraverso i suoi vari governi, abbia approvato leggi razziste, messo in atto politiche discriminatorie, si sia adoperato per rafforzare il regime di occupazione, preferendo la violenza e le vittime da ambo le parti ad un accordo di pace». «Ci rifiutiamo di lasciare che il nostro ebraismo venga identificato con questo odio, un ebraismo che include le parole del rabbino di Tripoli e di Aleppo, il saggio Hezekiah Shabtai che ha detto: “Ama il tuo prossimo come te stesso”». «Le nostre mani grondano di questo sangue, e sappiamo che la maggior parte dei palestinesi innocenti uccisi negli ultimi 66 anni da noi ebrei israeliani non hanno mai ricevuto giustizia». «Gaza è la storia di tutti noi; ma è anche l'oblio della nostra storia. È il posto più segnato dal dolore in Palestina e in Israele». «Gaza – concludono – è la nostra disperazione». (ingrid colanicchia)

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