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Un pensiero per la crisi

Tratto da: Adista Documenti n° 38 del 01/11/2014

«APRITE GLI OCCHI, IL MONDO STA MALE!»

«Abran los ojos, el mundo està enfermo». Questo grande graffito in vernice rossa apparve una mattina di fine millennio su un lungo muro bianco che costeggia il mercato indigeno di San Cristóbal de Las Casas, in Chiapas, come un invito perentorio rivolto al turista ansioso di precipitarsi fra i banchetti rutilanti di tessuti dai mille colori. Sì, apriamo gli occhi e guardiamoci attorno, a 360 gradi: guerre con maschere “umanitarie” volte a disputare le risorse strategiche ogni giorno più scarse; un flusso inarrestabile di disperati emigranti attraverso mari insicuri e deserti impossibili, disseminati di cadaveri senza nome; intere popolazioni che sprofondano in un’abbrutente miseria; la natura sempre più sconvolta da un assalto cieco ai suoi beni e soffocata da rifiuti di ogni genere; una tecno-scienza sempre più incontrollata e piegata all'insaziabilità del capitale... mentre il ricorso sempre più sfacciato allo “stato di eccezione” erode ogni giorno una ormai esangue democrazia in cui banchieri e tecnocrati hanno sottoposto al proprio servizio politici ignavi.

Come ha denunciato il sociologo James Petras, stiamo procedendo verso un nuovo autoritarismo tecnocratico «diverso dai regimi del vecchio stile repressivo. In passato l'autoritarismo aveva un volto militare, negava le libertà individuali e l'opposizione elettorale. Il nuovo autoritarismo è un regime ibrido che intreccia processi elettorali e libertà individuali con strutture decisionali altamente elitarie. In momenti elettorali non vi è più corrispondenza fra la retorica populista o sociale della campagna elettorale e il governo post-elettorale sotto il quale la dura austerità neoliberista controlla l'applicazione delle politiche di aggiustamento strutturale che vengono decise» (Petras, 2011).

Dall'altro lato il sempre maggior uso di decreti legge per rafforzare l'agenda liberale (privatizzazioni, aggiustamenti strutturali, ecc.) è assai più simile allo stile del vecchio autoritarismo che alle pratiche democratiche.

In termini molto sintetici e crudi questo è il quadro del mondo che appare a coloro che aprono gli occhi. Sì, l'anonimo autore della scritta, di sicura militanza zapatista visto il luogo del graffito, ha ragione: «Il mondo è malato». Che fare?


MA CHE COS'È QUESTA CRISI?

Da qualche anno assistiamo ad un susseguirsi di crisi diverse: ecologica, economica, alimentare, energetica... Ora quella economico-finanziaria predomina e oscura nel nostro immaginario le altre, tuttavia non risolte. Una canzoncina beffarda in voga alcuni mesi fa cantava: «Ma che cos'è questa crisi?».

La domanda è pertinente e complessa perché la crisi colpisce, seppur in modo diverso, tutte le nazioni del pianeta, ormai pezzi di un rompicapo planetario generato dai miti-dogmi dello “sviluppo”, questa credenza occidentale che «è simile a una stella morta di cui si vede ancora la luce, anche se essa si è spenta da tempo e per sempre» (Rist, 1997, p. 233), ovvero la “globalizzazione” e il “libero mercato”. Gettando nella disperazione centinaia di milioni di persone.

Le presunte spiegazioni sulla natura di questa crisi e sulle sue cause si susseguono l'una all'altra. In Europa, continente che, dopo aver importato la crisi dagli Stati Uniti, ora ne è divenuto l'epicentro, emergono due presunte ricette, fra loro incompatibili, quella dell'austerità, con la progressiva demolizione dello “stato di benessere”, e quella di un ritorno alla crescita, incompatibile fra l'altro anche con la crisi ambientale. Non passa giorno che un giornalista o un economista o un sociologo mainstream non proponga la sua “ricetta”: il “capitalismo delle regole”, come se il problema consistesse nei modi e non nei contenuti, oppure “più libertà, meno regole”, e ancora - rifugio preferito dalle sinistre partitiche - un “capitalismo dal volto umano”. Infine, vero coniglio estratto dal cappello, un “capitalismo verde”, che si presume capace di conciliare tutti i problemi.

Certamente esistono anche alcune voci fuori dal coro, opportunamente filtrate o silenziate dai media, quasi tutti ormai ligi al potere. Fra queste, alcune rispolverano le idee di quell'Ivan Illich che negli anni sessanta e settanta del XX secolo aveva suscitato appassionati dibattiti a livello mondiale, attirando riprovazione per le sue idee eterodosse da parte delle due scuole di pensiero allora dominanti, il liberalismo e il marxismo.

IVAN ILLICH: UNA VOCE FUORI DAL CORO

Ivan Illich, “chi era costui?”, si chiederanno coloro che all'epoca erano troppo giovani per ascoltarlo o addirittura non erano ancora nati. Non è facile rispondere in poche parole, dato che molti e diversi furono i campi di indagine a cui si dedicò, per cui è stato volta a volta identificato come filosofo, sociologo, storico, agitatore sociale, profeta, utopista, apocalittico.

Non è possibile tracciare in un breve testo un quadro esaustivo dell'uomo e del suo lavoro, ma solo illustrare alcuni aspetti significativi: l'unità profonda fra pensiero e stile di vita, la gioia di vivere intensamente ogni momento («la sensazione di essere in grado di celebrare il presente, e di celebrarlo usandone il meno possibile, perché è bello e non perché è utile per salvare il mondo» - Cayley, 1994, p. 216), la sua formazione intellettuale che, sicuramente non sprovvista di letture colte, aveva continuamente attinto alla realtà, da lui esplorata con insaziabile curiosità e acutezza, la celebrazione dell'amicizia. «Gran parte della mia vita è in realtà il risultato di aver incontrato la persona giusta nel momento giusto e di esserne diventato amico» (Ibidem, p. 25).

Questo suo radicamento alla terra e alla vita risalta con forza in un testo scritto nel 1990 con Lee Hoinacki e Sigmar Groeneveld: «Il discorso ecologico sul pianeta terra, la fame globale, le minacce alla vita ci sollecitano, come filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo. Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al suolo consegniamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo - la sua coltivazione e il nostro legame con esso - è significativamente trascurato dall'indagine filosofica della nostra tradizione occidentale. (…)» (Illich, Hoinacki e Groeneveld, 1990). (…).

LEGGERE ILLICH OGGI

Perché continuare o iniziare a leggere Illich oggi? Molti se lo sono chiesto, dando risposte diverse ma coincidenti su un punto: la straordinaria attualità del suo pensiero e la sua importanza per un'analisi profonda del mondo attuale e della crisi che lo attraversa. (…).

Raúl Olmedo, in una lettura presentata all'incontro «Omaggio a Ivan Illich», celebrato a Cuernavaca nel 2007, si chiese: «Perché leggere Illich?» e fra le altre ragioni indicò la seguente: «Illich è un grande analista critico della società industriale. Forse l'analista più acuto del sistema industriale della seconda metà del secolo XX e degli inizi del XXI. (…). L'aspetto più interessante di Illich è l'esser riuscito a percepire con grande chiarezza già dagli anni sessanta che la contraddizione storica fondamentale del XX secolo non era tra capitalismo e socialismo, bensì tra sistema industriale e sistemi (anzi modi di vita sociale) non industriali. La contraddizione tra capitalismo e socialismo reale era ed è secondaria, poiché consiste unicamente nella contraddizione tra due versanti dello stesso sistema industriale: il versante capitalista e il versante socialista» (Olmedo, 2009, p. 94).

Torniamo ora al tema della crisi, per tentare di comprenderne la natura e le possibili soluzioni ricorrendo alle parole di Illich.


ILLICH DI FRONTE ALLA CRISI

Nel 1973, nel suo testo forse ancora oggi più letto, La Convivialità, scrisse: «I sintomi di una crisi planetaria in corso di accelerazione sono manifesti. Se ne è ricercato il motivo un po' ovunque. Da parte mia, avanzo la seguente spiegazione: la crisi ha le sue radici nel fallimento dell'impresa moderna, cioè la sostituzione della macchina all'uomo. Il grande progetto di sostituire la soddisfazione razionale e anonima alla risposta occasionale e personale si è trasformato in un implacabile processo di asservimento del produttore e di intossicazione del consumatore. La relazione dall'uomo allo strumento è divenuta una relazione dallo strumento all'uomo. (...). La soluzione della crisi esige un radicale rovesciamento: solo ribaltando la struttura profonda che regola il rapporto tra l'uomo e lo strumento potremo servirci degli strumenti che sappiamo costruire. Lo strumento veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza degradare l'autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio d'azione personale» (Illich, 1993 [1973], pp. 27-28).

Questo brano esprime bene la radicalità dell'analisi di Illich, radicalità oggi preziosa di fronte ad una crisi che rende obsoleti molti dei paradigmi su cui è fondata la “modernità”, senza che tuttavia ne siano ancora stati individuati con chiarezza i nuovi.

Per Illich quindi era chiaro che presto il sistema sarebbe collassato e, se aveva sbagliato sui tempi, ritenuti più rapidi, non aveva sbagliato sulla natura della crisi e su come l'apparato al potere avrebbe reagito: «Guidatore, dacci dentro!» (Illich, 2005b [1978], p. 20), cioè invocando più crescita, più tecnologia, più sacrifici.


IL MITO DELLO SVILUPPO E LA SOCIETÀ IPER-INDUSTRIALIZZATA

La critica allo sviluppo è stato uno dei punti centrali della critica di Illich al sistema e merita la nostra attenzione perché questo mito è, nell'immaginario collettivo, l'ostacolo più grande al cambiamento di rotta verso una società conviviale.

Nel corso dei “trenta gloriosi” - così furono definiti dall'economista francese Jean Fourastié gli anni dello sviluppo galoppante in Europa e in altri luoghi del mondo fra il 1945 e il 1975 - la voce di Ivan Illich si levò per ammonire sulle contraddizioni che ai suoi occhi apparivano evidenti da parte della neonata ideologia dello “sviluppo” (…). Questa parola divenne rapidamente il credo che orientò, incontrastato, tutte le politiche degli Stati, sia di quelli già “sviluppati” che di quelli che da allora vengono definiti “sottosviluppati”. Un credo che aveva cominciato a presentare vistose crepe già verso la metà degli anni settanta ma che continuò nonostante tutto ad essere conservato anche dopo, fino ai giorni nostri, pur se puntellato da un'interminabile serie di aggettivi-stampella (“sostenibile”, “durevole”, “integrale”, “umano”... fino alla recente dizione di “etnosviluppo” ).

Illich iniziò la sua battaglia, all'inizio quasi solitaria, contro questo cancro che si incuneava anche nelle menti di molti leader rivoluzionari del terzo mondo. Nel 1973, nell'introduzione al libro La Convivialità, aveva scritto: «L'uomo ha bisogno di uno strumento col quale lavorare, non di un'attrezzatura che lavori al suo posto. Ha bisogno di una tecnologia che esalti l'energia e l'immaginazione personali, non di una tecnologia che lo asservisca e lo programmi. L'industrializzazione programmatica ci ha progressivamente privato di tali strumenti. Io credo che occorra invertire radicalmente le istituzioni industriali, ricostruire la società da cima a fondo. (...) Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l'ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. (...) La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno ad una società dotata di strumenti efficaci. Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara» (Illich, 1993 [1973], pp. 28-29).

Lo sviluppo è andato di pari passo con l'esasperazione della società industriale che aveva visto la luce in Inghilterra nel XVIII secolo. La riflessione di Illich su tale modello di società parte dall'esame degli strumenti di cui l'essere umano ha bisogno per organizzare la propria vita e modellare il proprio ambiente. Ogni strumento dovrebbe essere concepito e gestito per realizzare una finalità specifica. In una conversazione del 1972 col teologo della liberazione Giulio Girardi, uno degli ispiratori del movimento «Cristiani per il socialismo» e favorevole allo “sviluppo”, Illich afferma: «Il socialismo è impossibile nel modello di produzione industriale (...). Esso contraddice la razionalità economica il cui principio è il seguente: produrre il massimo di merce al costo più ridotto. Le esigenze del funzionamento di un apparato tecnico esigono che le decisioni siano concentrate in poche mani e non potranno mai essere affidate alla gente».

Pensando al futuro di questo modello di produzione egli afferma: «Se vogliamo poter dire qualcosa sul mondo futuro, disegnare i contorni di una società a venire che non sia iper-industriale, dobbiamo riconoscere l'esistenza di scale e limiti naturali. L'equilibrio della vita si dispiega in varie dimensioni: fragile e complesso, non oltrepassa certi limiti. Esistono delle soglie che non si possono superare» (Illich, 1993 [1973], p. 14).

Ma la società industriale, afferma Illich, ha superato di gran lunga questi limiti ed ha affermato il proprio dominio non solo sulle risorse e sugli strumenti, ma anche sull'immaginario e i desideri di un numero crescente di persone. E così si allarga a dismisura la povertà modernizzata, una povertà che «non va confusa con il divario fra i consumi dei ricchi e dei poveri, sempre maggiore in un mondo in cui i bisogni fondamentali sono sempre più determinati dai prodotti industriali» (Illich, 2005b [1978], p. 14.) Essa è dovuta al crescente divario fra i bisogni creati dalla pubblicità e le possibilità concrete di acquisto di una gran massa di persone.

LA “GRANDE CRISI”: UN'OPPORTUNITÀ PER IL CAMBIAMENTO

L'industrializzazione conseguente alle politiche standardizzate dello sviluppo per Illich preparava indubitabilmente il collasso. (…).

Ma la crisi, dice Illich, offre anche un'alternativa all'apocalisse. La parola “crisi”, egli osserva in Disoccupazione creativa, ha una radice greca che significa “cambiamento”: «Essa può indicare l'attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all'improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero» (Illich, 2005b [1978], p. 20).

Si tratta oggi di interrogarsi: l'inversione radicale e la ricostruzione conviviale della società di cui Illich afferma la necessità, sono realmente possibili?


GLI “INDIGNADOS”: UNA NUOVA PRIMAVERA

Il susseguirsi da vari anni di molte crisi parziali di varia natura ha incrinato la fiducia della gente, e la crisi economico-finanziaria in corso - col suo contorno di crisi apparentemente settoriali ma in realtà fra loro strettamente connesse - sta aprendo crepe profonde in questa fiducia perché ha toccato un gran numero di persone nelle loro possibilità di sopravvivenza. «La maggioranza silenziosa oggi aderisce totalmente alla tesi dello sviluppo, ma nessuno può prevedere il suo comportamento quando la crisi esploderà», dice Illich (1993 [1973], p. 132). Senza determinismi (la storia è un processo aperto), interroghiamoci sugli eventi in corso.

Da tempo singoli scoppi di protesta sociale percorrono a zig-zag il mondo. Spenti in un luogo si riaccendono in un altro. Raúl Zibechi fa un'interessante analisi degli accadimenti nelle periferie delle grandi città latino-americane (il caracazo di Caracas, le sollevazioni di El Alto in Bolivia...), ma anche altrove improvvise fiammate spiazzano i governi e sollecitano nuove analisi: Seattle, Genova, Praga, Londra.., per non parlare di ribellioni più radicali e durevoli come l'insurrezione zapatista del 1994.

(…). Il 2011 è stato un anno di grandi contestazioni sociali a livello globale: esplose il 15 maggio in Spagna col movimento Los indignados di plaza del Sol di Madrid con il lemma «Democracia ya!» e in Grecia con le imponenti manifestazioni di piazza Syntagma, estesesi sull'altra riva del Mediterraneo con le primavere arabe, in primis quelle di Tunisia ed Egitto, dilagate poi negli Stati Uniti con il movimento Occupy Wall Street e infine rifluite in Europa con le manifestazioni del 15 maggio 2012 a Francoforte e nei Balcani (a Zagabria e Sarajevo), dopo aver toccato il Cile, Israele, le Filippine e la Corea. In Italia da anni un'intera valle, la Val di Susa, è in resistenza contro l'inutile e costosissima (finanziariamente e ambientalmente) ferrovia ad alta velocità Torino-Lione. Ma compilare l'elenco di queste resistenze attive sarebbe ancora lungo. (…).

Nel manifesto di Occupy Wall Street si afferma: «Noi, Assemblea Generale della Città di New York che occupa Wall Street in Liberty Square, vi invitiamo a rivendicare il vostro potere. Esercitate il vostro diritto a riunirvi pacificamente; a occupare lo spazio pubblico; a creare un processo per gestire i problemi che abbiamo di fronte, e a creare soluzioni accessibili a tutti».

Accanto a queste proteste più appariscenti, altre insurrezioni più silenziose e forse più radicate si moltiplicano - a livello individuale, familiare o di gruppo - sul piano degli stili di vita, delle relazioni comunitarie e della produzione vernacolare: ritorno alla terra con piccoli orti individuali o collettivi nelle periferie di molte città europee, mentre in alcune grandi metropoli del mondo si realizzano orti comunitari su terreni abbandonati o sulle terrazze apicali di grandi condomini. Cresce il numero dei gruppi di acquisto solidale, delle botteghe del commercio equo, delle monete locali, delle esperienze di cohousing, delle banche del tempo e così via, mentre in alcuni Paesi si affermano forme di economia solidale. Altrove si consolida l'esperienza delle “fabbriche recuperate”, mentre gli zapatisti del Chiapas sperimentano nei caracoles la forma più radicale di esercizio del potere dal basso. La sovranità alimentare diventa la bandiera di organizzazioni contadine, mentre a livello mondiale si assiste al “ritorno dei contadini” (cfr. Pérez-Vitoria, 2009).

CONSONANZE

Molte delle analisi di Illich trovarono spazio nel dibattito culturale degli anni sessanta e settanta. Verso il 1980 la voce di Illich si fece più silenziosa e la sua vita più appartata, ma non diminuì il suo impegno intellettuale e non scomparve la sua presenza in qualche spazio pubblico in varie località del mondo. Oggi esse tornano di attualità.

Fra le consonanze iniziali ci piace ricordare che in Italia Pier Paolo Pasolini, un altro personaggio scomodo, seppur diverso da Illich come percorso intellettuale, aveva colto a sua volta il cambiamento profondo causato dalla società industriale e dal consumo di massa (…). 

Saltando all'oggi, sono molti, con o senza riferimento esplicito a Illich, coloro i quali, incalzati dalle crepe profondissime del sistema, percorrono strade almeno in parte convergenti.

Consonanze interessanti con Illich si ritrovano anche nei movimenti dei popoli amerindi. Quando nota come la pretesa utopica di “vivere meglio” ostacoli il “vivere bene”, egli è in sintonia con uno dei lemmi del buen vivir dei popoli originari andini, e quando afferma: «Io non fornisco ricette per cambiare l'uomo e rifare una società nuova, e non pretendo di sapere come le personalità e le culture muteranno. Una cosa però è certa: una pluralità di strumenti limitati e di organizzazioni conviviali stimolerebbe una diversità di modi di vita, sia che essa si richiami maggiormente alla “memoria”, cioè all'eredità del passato, sia che si rifaccia all'invenzione, cioè alla creazione ex-novo» (Illich, 1993 [1973], pp. 35-36), è in sintonia con il lemma zapatista: «un mondo in cui coesistano mondi diversi». (…). 


LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI DI IVAN ILLICH

Una delle domande frequenti, tipica di chi è abituato a ricevere, per abitudine o comodità mentale, formule preconfezionate, è quella di chi domanda: «Insomma, qual è la soluzione che Illich propone?». La risposta in genere sconcerta costoro: Illich non propone alcuna soluzione. Offre strumenti per costruirne una propria, confacente con la situazione in cui ciascuno vive: «(…) Io non propongo qui né un trattato di organizzazione delle istituzioni, né un manuale tecnico per la fabbricazione dello strumento giusto, né un modo d'impiego dell'istituzione conviviale. Non sono né il commesso viaggiatore di una tecnologia “migliore” né il propagandista di una ideologia. Voglio solo definire degli indicatori che segnalino ogni qual volta lo strumento manipola l'uomo, per poter bandire le attrezzature e le istituzioni che distruggono il modo di vita conviviale. Questo manifesto è dunque una guida, un rivelatore, e come tale va utilizzato» (Illich, 1993 [1973], pp. 33-34).

Giungiamo alla conclusione. La crisi che oggi viviamo non è per Illich né economica, né energetica, né ambientale. È la crisi dei paradigmi fondanti la modernità. Illich ne ha esplorato con inusitata acutezza le radici storiche e il travagliato percorso. Senza volerlo mitizzare - lui stesso col passare degli anni aveva attualizzato e corretto le sue analisi - la sua lettura offre strumenti preziosi per la comprensione della vera natura della crisi e quindi dei percorsi necessari per risolverla. (…). 

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