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IL PIANETA IN GINOCCHIO PER I CAMBIAMENTI CLIMATICI. MA I GOVERNI ANCORA PERDONO TEMPO

Tratto da: Adista Notizie n° 46 del 27/12/2014

37921 LIMA-ADISTA. La strada dell’inferno climatico sarà lastricata degli impegni volontari dei governi: nell’anno più caldo mai registrato nella storia, il documento dal titolo “Appello di Lima per l’azione sul clima”, approvato per consenso dai 195 Paesi riuniti nella Cop 20 – la XX Conferenza delle parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, svoltasi nella capitale peruviana dal 1° al 14 dicembre scorso –, non segna alcun passo in avanti verso l’adozione del nuovo piano d’azione globale che dovrà essere sottoscritto a Parigi nel 2015, con l’obiettivo di contenere il riscaldamento climatico entro la soglia dei 2 gradi centigradi. In base al documento, saranno infatti le considerazioni politiche dei governi, anziché le ragioni degli scienziati, a dettare l’entità dei tagli alle emissioni: i diversi Paesi, cioè, saranno obbligati, entro giugno del 2015, a presentare i propri obiettivi di riduzione volontaria, i cosiddetti INDCs, adottando misure per limitare il proprio impatto già nel periodo tra il 2015 e il 2020 (l’anno in cui entrerà in vigore il nuovo accordo). E resta ugualmente affidata alle “buone” intenzioni dei governi anche la questione dei contributi al Fondo Verde per il Clima, destinato a finanziare azioni di mitigazione e di adattamento nei Paesi più vulnerabili (motivo per cui sono giunti ad oggi appena 10,2 miliardi di dollari, vale a dire un decimo di quanto i Paesi ricchi si erano impegnati a versare).

A fronte dunque della rituale soddisfazione dei governi per l’esito della Conferenza, il risultato della Cop 20 allontana in realtà ancora di un po’ l’obiettivo di “zero emissioni” entro il 2100, e con esso la possibilità di contenere il riscaldamento entro il livello di guardia indicato dagli scienziati. Tanto più considerando che lo sforzo a cui sarebbero chiamati i Paesi, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Pnuma), non è certo di poco conto: in aggiunta ai tagli già previsti, servirebbe una riduzione tra le 8 e le 10 gigatonnellate di anidride carbonica entro il 2020, addirittura più delle emissioni annuali degli Stati Uniti, che ammontano a 7 gigatonnellate (Valor, 15/12). 


Speranze tradite

Eppure qualche segnale incoraggiante, per un risultato finalmente all’altezza della più grande sfida mai affrontata dall’umanità, si era registrato. C’era stata una crescente mobilitazione della società civile a livello globale, culminata il 21 settembre scorso, in occasione del summit sul clima delle Nazioni Unite, nella più grande marcia sul clima della storia: la People's Climate Change March di New York, accompagnata da migliaia di eventi in oltre 150 Paesi (v. Adista Documenti n. 34/14). C’era stato, il 12 novembre, l’accordo tra Cina e Stati Uniti (rispettivamente al primo e al secondo posto nella classifica dei Paesi contaminatori) sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, con la Cina decisa a raggiungere il picco delle proprie emissioni nel 2030 per poi iniziare a ridurle e gli Stati Uniti impegnati a tagliare entro il 2025 tra il 26% e il 28% delle proprie emissioni rispetto ai livelli del 2005: un accordo salutato come “storico”, malgrado il suo modestissimo impatto ai fini di una reale azione di contrasto al cambiamento climatico. E c’era stata, infine, in vista della Cop 20, la proposta del Brasile di “differenziazione concentrica”, centrata su tre diversi livelli di responsabilità: al centro i principali contaminatori storici, quelli che il problema l’hanno creato (a cominciare dagli Stati Uniti), obbligati a operare tagli alle emissioni in tutti i settori dell’economia; a un livello intermedio le potenze emergenti, quelle che oggi il problema rischiano di amplificarlo in maniera incontrollabile (Cina in testa, seguita da Paesi come India e Brasile), chiamate a presentare offerte adeguate alle proprie condizioni; e, al livello più esterno, i Paesi più poveri e più vulnerabili al cambiamento climatico, quelli che, pur avendo le minori responsabilità, soffrono le peggiori conseguenze, invitati a interventi più limitati. Una proposta, quest’ultima, che non è stata tuttavia accolta nel documento, benché fosse stata valutata positivamente dalle diverse delegazioni, offrendo una soluzione accettabile per quello che è diventato il problema dei problemi, almeno da quando, nel 2012, è scaduto il Protocollo di Kyoto, con la sua semplice ma ormai inadeguata divisione tra Paesi ricchi (con tagli di emissioni obbligatori) e tutti gli altri (con impegni solo volontari): la questione, cioè, delle responsabilità differenziate dei Paesi nella crisi climatica, o, in altre parole, il noto scaricabarile tra Paesi industrializzati e potenze emergenti e in particolare tra Stati Uniti e Cina, insieme responsabili di quasi la metà delle emissioni climalteranti (ma gli Stati Uniti con oltre 17 tonnellate procapite all’anno di Co2 e la Cina con poco più di 7 tonnellate procapite, le stesse dell’Ue). Dimenticando che, come evidenzia Gerardo Honty (Alai Amlatina, 17/11), «in tutti i Paesi c’è chi fa soldi a scapito del clima», cosicché la distinzione non è tra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati, ma «tra poveri e ricchi di qualunque parte del mondo» e «finché non lo si comprenderà, i Paesi continueranno a discutere su chi sia il maggiore colpevole, senza riconoscere che nessuno è innocente». 

Ma, se nessuno è innocente, alcuni sono decisamente più colpevoli di altri, come indica il rapporto The Climate Change Performance Index, divulgato da Germanwatch e Climate Action Network Europe, che esamina le politiche pubbliche in materia climatica seguite da 58 Paesi responsabili di oltre il 90% delle emissioni climalteranti del mondo: nella classifica dei Paesi più virtuosi, le prime tre posizioni sono state lasciate vuote, proprio a significare che nessuno sta facendo quando dovrebbe (al quarto posto figura invece la Danimarca, seguita da Regno Unito e Portogallo, mentre all’ultimo posto si trova l’Arabia Saudita, preceduta da Kazakistan, Iran, Canada e Australia; l’Italia è al 18°, gli Stati Uniti e la Cina rispettivamente al 43° e al 46°). E se il cammino indicato da ogni parte per contenere il riscaldamento del pianeta passa per la riduzione del consumo di combustibili fossili, fino al completo azzeramento entro il 2100, per gli investimenti nelle energie rinnovabili, per l’efficienza energetica, per il rimboschimento e per un diverso modello di agricoltura (non a caso, tra il 44% e il 57% di tutte le emissioni climalteranti provengono dal sistema alimentare globale), i Paesi del G20 stanno seguendo tutt’altra strada, continuando, per esempio, a destinare ai sussidi ai combustibili fossili circa 88 miliardi di dollari all’anno (senza contare che il drastico calo del prezzo del petrolio, sceso a meno di 60 dollari al barile contro i 100 di alcuni mesi fa, non facilita davvero una transizione a un nuovo modello energetico). 


La voce delle Chiese

Ci ha provato anche papa Francesco, ma invano, a scuotere i governi riuniti a Lima: «Le conseguenze dei cambiamenti ambientali, che già si avvertono in maniera drammatica in molti Stati, soprattutto quelli insulari del Pacifico, ci ricordano – ha scritto in un messaggio inviato al presidente della Cop 20, il ministro dell’Ambiente peruviano Manuel Pulga Vidal – quanto l’incuria e l’inazione siano gravi. Il tempo per trovare soluzioni globali sta finendo. (…). Esiste, pertanto, un chiaro, definitivo e improrogabile imperativo etico ad agire. La lotta efficace contro il riscaldamento globale sarà possibile unicamente con una responsabile risposta collettiva, che superi interessi e comportamenti particolari e si sviluppi libera da pressioni politiche ed economiche». 

Ma a favore della giustizia climatica un po’ tutte le Chiese si sono date da fare. Solo per ricordare le iniziative promosse nei giorni finali della Conferenza di Lima, la Chiesa metodista del Perù ha promosso, l’8 dicembre, un seminario sul tema “Cristiani impegnati nella cura del creato”; il giorno dopo il capodelegazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Cec), Guillermo Kerber, ha moderato una tavola rotonda all’Università Antonio Ruiz de Montoya su “Ecoteologia e dialogo interreligioso” e il 10 dicembre un gruppo di vescovi cattolici di quattro continenti ha diffuso una dichiarazione auspicando il superamento del sistema economico dominante in direzione di «una nuova vita in armonia con il creato, nel rispetto dei limiti del pianeta» e chiedendo ai delegati riuniti a Lima di adottare «un accordo globale giusto e giuridicamente vincolante sulla base dei diritti umani universali applicabili a tutti». Un accordo che, tra l’altro, ponga fine all’era dei combustibili fossili, avanzando gradualmente verso l’uso del 100% di energie rinnovabili. Infine, l’11 dicembre, la delegazione del Consiglio Ecumenico delle Chiese ha presentato ufficialmente all’interno della Cop 20 la dichiarazione finale del Vertice interreligioso promosso lo scorso settembre a New York dal Cec e da Religioni per la Pace, dal titolo “Clima, Fede e Speranza: tradizioni religiose unite per un futuro comune”.  

Qualcosa, tuttavia, va rivisto anche all’interno delle religioni, se è vero che, in base a una ricerca divulgata durante l’incontro annuale dell’American Academy of Religion e della Society of Biblical Literature, svoltosi dal 22 al 25 novembre scorso, i credenti, almeno negli Stati Uniti, non ritengono che il riscaldamento globale sia il problema attualmente più importante, né credono che ne subiranno personalmente l’impatto (National Catholic Reporter, 2/12). E non c’è da sorprendersene troppo, considerando che più di 6 su 10 persone consultate hanno dichiarato che i propri leader religiosi non parlano mai, o tutt’al più raramente, di cambiamenti climatici. (claudia fanti)

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