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Expo 2015. Alle radici dell’albero della vita

Expo 2015. Alle radici dell’albero della vita

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 40 del 21/11/2015

L’Expo 2015 è stata una bella fiera. Sospinti da una propaganda martellante, 21 milioni di persone (numero rilevante, ma inferiore alle previsioni della vigilia) hanno sciamato felici nel cardo e nel decumano per poi infilarsi, spesso dopo lunghe code, in padiglioni colorati e super accessoriati. Peccato però che del tema così promettente della manifestazione – “Nutrire il pianeta, energia per la vita” – abbiamo trovato rappresentati solo gli aspetti più scontati e commerciali. Non si conoscono ancora i conti finali della manifestazione (il deficit a carico delle casse pubbliche si aggirerebbe intorno al miliardo). Paiono positivi gli effetti sui privati (alberghi, ristorazione, negozi). È invece insopportabile la retorica sul “nuovo rinascimento”. Per farlo, un rinascimento, ci sarebbe voluta una revisione profonda, a tutto tondo, degli equilibri tra l’antropologico e il tecnologico, tra l’organico e l’inorganico, tra la qualità della vita e il profitto economico, tra il Nord e il Sud del mondo. Vasto programma, che era in qualche misura scritto nel dossier di partenza presentato per ottenere l’assegnazione dell’evento. Ma le  belle parole non hanno mai preso corpo. La fiera è rimasta una fiera.  Non a caso, anche il suo logo, a un certo punto, è stato cambiato: l’immagine umanistica – l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci – è stata sostituita da una scritta più moderna,  più colorata, più sexy.

A questa grande fiera gli organizzatori volevano a tutti i costi il papa. Ma il papa si è limitato a mandare un video-messaggio in perfetta sintonia con la sua Laudato si’: «L’Expo è occasione propizia per globalizzare la solidarietà. Cerchiamo di non sprecarla, ma di valorizzarla pienamente». 

La Chiesa è stata comunque presente in forma ufficiale, con i padiglioni di Santa Sede, Caritas, Pontificio Consiglio Cor Unum e diocesi di Milano. In questi luoghi sono state proposte varie installazioni che potessero colpire i visitatori: mi tornano in mente le opere di Tintoretto e Rubens nel Padiglione della Santa Sede, la  copia un po' surreale della Madonnina nello spazio della Fabbrica del Duomo, la Cadillac arrugginita riempita di pane nell’Edicola della Caritas ambrosiana. Ci sono stati poi i convegni (i cui temi però mi sono già scordato) e gli eventi (uno di questi sì che me lo ricordo: la tavolata con i poveri promossa dalla Chiesa di Milano a Cascina Triulza, il padiglione della società civile). È però mancato un gesto forte, unitario, profetico, in grado di essere qualcosa di diverso e di “spigoloso”. Sul “modello Ravasi” (mi riferisco alle modalità vellutate d’intervento dell’onnipresente cardinale ministro pontificio della Cultura) si è avuto paura di disturbare la festa. La stessa Caritas Internationalis ha aspettato la fine per dire che la Carta di Milano – il documento che è stato sbandierato dagli organizzatori come l'eredità morale di Expo – è molto deludente nei suoi contenuti. Tale Carta era pubblica dal 28 aprile: esprimere il dissenso subito in partenza non avrebbe avuto tutt’altro peso?

A cancelli chiusi, sarebbe utile farsi qualche domanda anche sull’installazione che ha avuto più successo, l’albero della vita. Guarda caso, il simbolo più “religioso”, proposto con una liturgia a orari prefissati. I “fedeli” del decumano hanno partecipato in massa all’adorazione, con i telefonini all'insù e i santini sparsi in forma di selfie sulle bacheche dei social network. L’albero della vita, anche nella sua versione pagana e kitsch, può servire a ricordarci la nostra natura originaria e il nostro sogno fondamentale. Chi siamo? Siamo corpi che hanno scritto dentro, a caratteri invisibili ma incancellabili,  il  paradiso (tipo il bendidio esposto nei padiglioni), e nel paradiso, l’albero splendente. Cos’è quest’albero? È il ricordo dell’inizio, tanto buono tanto bello, poi perduto, ora da ritrovare. Il fine di tutte le ricette migliori è recuperare nel futuro il tempo passato. La vita è davvero “la recherce du temps perdu”. Perché il tempo perduto è stato eros, non thanatos. E noi adesso abbiamo il desiderio (vocazione) di riconquistarlo e di mangiarlo quale cibo succulento. L’albero della vita - non l’obelisco, la piramide, la ziggurat, la guglia del grattacielo – merita di tornare al centro delle nostre città. Esso regalerà i suoi frutti dodici volte all’anno, per ciascun mese il suo frutto; le sue foglie guariranno le nazioni. Ogni mattina potremo interrogarlo: “Cosa c’è di nuovo oggi?” La sua risposta ci arriverà senza esitazioni, portata da centinaia di foglie: “Tutto”.

Giovanni Colombo è ex vicepresidente dell’Azione cattolica ambrosiana

* Immagine di Bruno Cordioli, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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