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Semi di “resistenza” alla guerra globale

Semi di “resistenza” alla guerra globale

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 17 del 06/05/2017

Duole constatare che, secondo le leggi dell’informazione (almeno di parte di essa; comunque da sempre) ci si occupi di realtà significative solo nel momento della crisi o, peggio, degli eventi drammatici, del sangue versato, della fine. La Chiesa copta è una comunità importante, dal punto di vista storico, per la teologia e la mistica realizzate, soprattutto per quanto ha vissuto nel tempo, sul piano delle difficoltà, delle persecuzioni, del martirio. Gli attentati a due chiese in Egitto dei giorni scorsi hanno proiettato su questa Pasqua 2017 l’esigenza di annunciare, una volta di più, la Resurrezione con i linguaggi della pace. Come afferma la teologa Antonietta Potente, è la pace il nome da dare adesso a quella dimensione apparentemente inconoscibile ...in ogni oggi dell’umano, che è appunto la Resurrezione del Cristo. Il clima politico e sociale che stiamo vivendo è sicuramente ostile, in molte componenti, ad una cultura condivisa di disarmo, di acquisizione di strumenti del dialogo, di comunicazione positiva tra le diverse istanze sovranazionali, sovente etniche. 

Il successo elettorale (realizzato o non improbabile, al contrario di quanto senso civile auspicherebbe) di personaggi politici non certo orientati alle logiche della mediazione, della trattativa, del rispetto delle identità umane, addensa nubi oscure tra l’oggi e l’avvenire, ammesso che la visuale in tal senso fosse già sgombra… appare sempre più evidente che un’autentica cultura democratica è tenuta sotto scacco dalle dinamiche economico finanziarie dettate dal neoliberismo più sfrenato, che contempla la guerra (o la minaccia di essa) come fattore di arricchimento per taluni e minaccia di distruzione per l’intero ecosistema globale. Sentir nuovamente parlare di minaccia nucleare fa riflettere e di certo spaventare. Ma non ci dovrebbe stupire: sappiamo bene che il sogno di Isaia riguardo agli strumenti di guerra convertiti in quelli del lavoro e del bene comune non è da tempo contemplato come praticabile dalle politiche globali e nazionali (pesa sul nostro Paese la cifra di 62 milioni di euro al giorno investiti in spese militari; nel frattempo il 12% delle famiglie è in condizione di grave povertà), e che gli arsenali atomici non sono mai diminuiti, né per numero né per contenuto. 

La legge del mercato impone consumo là dove si produce, se non altro per aggiornamento tecnologico. L’investimento complessivo in armamenti fa temere per la tentazione di adoperarli secondo questa semplice logica di profitto. Intanto i conflitti si preparano sul piano locale instillando mediaticamente paura, pregiudizio, identificazione del capro espiatorio per avere chi sacrificare all’altare della cosiddetta sicurezza. 

A valutare da certa televisione italiana c’è già una guerra in atto nelle nostre strade… sono le stesse testate che parlano raramente di mafie; preferiscono far credere all’invasione dei migranti. Riconoscere chi realmente abbiamo tutte le ragioni per temere ci dovrebbe far vivere meno terrore e più prudenza, e quest’ultima è il modo di saper affrontare i problemi mai rinunciando all’esercizio della propria intelligenza.

Occorre osservare e analizzare tutto quanto sta in questa contemporaneità, per quanto non ci piaccia. Non volgere lo sguardo, spalancare gli occhi, quelli della mente e del sentimento, anche sull’orrore. E poi fare esegesi su quanto compreso, grazie a categorie di segno diverso, antiche eppure attualissime. La storia non è solo quella dei conflitti armati e realizzati, ma pure di quelli evitati e combattuti su di un piano culturale, in una contrapposizione non sempre risolta secondo la legge della prevalenza dei più forti nella violenza. L’esempio delle chiese orientali (chi ricorda più quella irachena…?) sembra confinato in un senso oppressivo di morte, ma è invece espressione di una resistenza storica che non si è macchiata le mani di sangue, scrivendo pagine di dignità e di coerenza. Hanno vissuto la croce, annunziando resurrezione. Ma essa va resa reale operando la giustizia, facendo in modo che i torti storici non si cancellino, restino a lezione. Le minoranze – religiose e non: di ogni genere. Cristiane incluse; per certi versi soprattutto, visti i numeri – vanno tutelate adesso, non attendere il peso del giudizio storico sui carnefici. Vanno protette e l’onere a riguardo è tutto per le politiche sovranazionali. Esse si devono convertire all’etica della responsabilità verso chi soffre violenza, ingiustizia, miseria, marginalizzazione. Vanno pensate sulla misura delle vittime, devono prender carico del dolore umano. Farsi povere, rinunciando al potere. . E non per rimanere nella fragilità dell’esistere: ma per proiettarla verso un altrove evolutivo. La Resurrezione è questo: assumere la sofferenza umana per darle senso e termine. Insieme, nella volontà comune di garantirsi una potenzialità fattiva di vita piena, di felicità.

Di recente ho realizzato, con il regista Massimo Tarducci, un docufilm sulla figura di Lidia Menapace, partigiana, rappresentante autorevole del pensiero politico delle donne, tra le fondatrici de Il manifesto. In un passaggio della narrazione per immagini le ho rivolto una domanda sulla possibilità di farcela, di non veder soccombere le ragioni dei piccoli della Terra. Gliel’ho chiesto anche a titolo molto personale, per le fatiche di questa fase della mia vita. La sua risposta mi sostiene ormai da diversi mesi e lo farà a lungo. «Pensa a noi», mi ha detto; «eravamo ridotti culturalmente a poco da vent’anni di fascismo, divisi, con pochi mezzi, ed avevamo di fronte l’esercito più forte del mondo. Eppure ce l’abbiamo fatta. E se ce l’abbiamo fatta noi, può farcela chiunque». Ogni resistenza radicata nella verità dell’amore troverà la sua Resurrezione, vedrà la vita affermarsi sulla morte. A riguardo, con una ostinazione che non è frutto solo della volontà, continuo a non avere dubbi.

* parroco a Sant’Andrea in Percussina (Fi) e referente di Libera per la Toscana 

 

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