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Il dossier abusi per il nuovo presidente Cei

Il dossier abusi per il nuovo presidente Cei

Tratto da: Adista Notizie n° 18 del 21/05/2022

Ci siamo. La 76.ma Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana è alle porte, nell’attesa, quasi messianica, di un nuovo vertice che finalmente si lasci alle spalle l’inazione sul tema degli abusi nella Chiesa della gestione Bassetti e intraprenda azioni efficaci e credibili, prima di tutto con la decisione di aprire cassetti e archivi e vedere cosa c’è dentro. A segnare la strada, per fare l’esempio a noi più vicino, anche se non scevro da farraginosità e lentezza, il percorso avviato dalla Chiesa francese con la Commissione CIASE che, per usare un efficace slogan coniato dai collettivi di vittime d’Oltralpe, molto attivi e partecipi nelle rivendicazioni e molto focalizzati nelle loro richieste, viene riassunto nelle “4R”: Riconoscimento, Responsabilità, Riparazione, Riforme.

Ad oggi in Italia nulla di tutto questo è lontanamente in vista. Gli accenni di Bassetti alla possibilità di effettuare un’indagine interna (ipotesi già viziata concettualmente da un peccato originale e dunque irricevibile: un “imputato” non può giudicarsi da solo) sono stati rinforzati dalla resistenza di mons. Ghizzoni, presidente del Servizio Tutela Minori della CEI, quando ha detto, in un’intervista a un giornale svizzero, che «La stragrande maggioranza delle Chiese nazionali non ha fatto nulla. Devo dire la verità: il presente e il futuro ci interessano più del passato».

Insomma, non c’è da aspettarsi molto dalla libera iniziativa della CEI, soprattutto alla luce del suo recente coinvolgimento nell’Osservatorio antipedofilia del Ministero per la Famiglia, nel quale la Chiesa italiana assume addirittura un ruolo di consulente. Un grande aiuto da parte dello Stato a mostrare all’opinione pubblica il suo impegno.

Del resto, che la Conferenza episcopale italiana non mostri di volersi assumere le proprie responsabilità rispetto alla conoscenza e alla gestione degli abusi perpetrati dal clero è più che evidente nel mancato controllo dell’applicazione dei dispositivi prescritti da papa Francesco nel motu proprio Vos estis lux mundi del 2019, come l’obbligo di denuncia canonica per preti e vescovi, o la creazione di uffici dedicati in ogni diocesi entro il giugno 2020; a tre anni di distanza, in un sondaggio sulla conformità a tali richieste delle Conferenze episcopali condotto dal quotidiano francese La Croix (v. articolo a pag. 3), la CEI comunica candidamente di non essere «a conoscenza di questi elementi perché rientrano nella competenza dell'Ordinario diocesano». Dopo tre anni e con l’assemblea generale alle porte, non è un segnale confortante.

Oltre all’inerzia dei vescovi poi, in Italia bisogna fare i conti con i gap legislativi e le problematiche giuridiche derivanti dal Concordato, che rappresentano un grave ostacolo alla giustizia. Se il papa, nel motu proprio, “obbliga” i preti a segnalare ai vescovi, e i vescovi a segnalare alla Santa Sede, siamo pur sempre all’interno di un contesto giuridico canonico e dell’istituzione ecclesiale. All’obbligo, invece, di denuncia alle autorità civili, i “dipendenti” della Chiesa continuano a non essere tenuti: in Italia solo i pubblici ufficiali lo sono, a differenza, ad esempio, della Francia, dove tutti i cittadini sono perseguibili qualora non riportino all’autorità civile la notizia di un reato. E il clero non ha le funzioni di pubblico ufficiale: afferma l’art. 4 comma 4 del Concordato: «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero». I vescovi italiani hanno avuto buon gioco, finora, di ripararsi dietro a questo scudo giuridico; nelle loro Linee guida contro la pedofilia, aggiornate nel 2019, rimarcano che «l’autorità ecclesiastica non ha l’obbligo giuridico di denunciare», pur insistendo sull’«obbligo morale» di procedere all’esposto quando sussista il fumus delicti.

In Italia, il Coordinamento #ItalyChurchToo – di cui Adista fa parte – sta provando a porre l’episcopato davanti alle sue responsabilità e ai suoi doveri, a dimostrare da che parte sta, se da quella dei perpetratori di abusi o da quella delle vittime. Gli strumenti che la Chiesa finora ha messo in campo e ai quali fa riferimento per mostrare la propria sollecitudine nella lotta agli abusi, come i centri d’ascolto diocesani, non hanno la terzietà e le competenze necessarie per convincere le vittime che vogliono farsi avanti di trovarsi in un luogo sicuro, neutro, qualificato. Se la Chiesa italiana vuole tornare a essere un punto di riferimento, dovrà fare molto più del minimo indispensabile. E cominciare dalla prima delle “4R”: il Riconoscimento delle vittime. Con un’operazione di trasparenza senza sconti e senza scorciatoie. Perché ascolto e giustizia per chi è sopravvissuto all’abuso, in tutta questa vicenda, sono la priorità.

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