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Lettera aperta al prefetto del DDF. Canone tridentino e incomprensione dei sacramenti

Lettera aperta al prefetto del DDF. Canone tridentino e incomprensione dei sacramenti

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 6 del 17/02/2024

Egregio Signor Cardinale, Sua Eminenza Victor Manuel Fernàndez,

le recenti polemiche intorno alla Nota del Dicastero da lei presieduto, Gestis verbisque (3/2/24, ndr) manifestano il profondo disagio verso un modo di identificare il sacramento e il suo significato che potremmo definire come il frutto del “canone tridentino”. Si tratta di una “regola” del pensiero e della prassi, che si è affermata con il Concilio di Trento, sulla base del pensiero medievale, e che è arrivata sostanzialmente incontestata fino al Concilio Vaticano II e che dopo la Riforma liturgica diventa una distrazione dalla realtà e causa imbarazzo per molti fedeli. Vorrei cercare di mostrare come è concepito questo modo di “pensare/agire” intorno ai sacramenti e quali conseguenze comporta anche sul nostro modo di giudicare il discorso generale sulla “formula dei sacramenti”.

Il rituale romano del 1614 e la grande divisione

Voglio iniziare da un testo non molto citato, ma che “comanda” molte delle cose che oggi continuiamo a dire e a fare intorno ai sacramenti e in particolare circa il battesimo. Il “rituale romano” del 1614, frutto del Concilio di Trento, nelle prime pagine introduce una distinzione che è diventata decisiva nei secoli successivi. Proprio all’inizio del testo dedicato al Battesimo, il Rituale recepisce e perpetua una distinzione fondamentale, che presenta con queste parole:

«Per amministrare questo sacramento alcune cose sono di diritto divino assolutamente necessarie (come la forma, la materia e il ministro) mentre altre sono soltanto in funzione della solennità, come i riti e le cerimonie…».

Questa distinzione, di origine scolastica e tomista, divide la realtà del battesimo, e di tutti gli altri sacramenti, in due parti, che diventano quasi autonome: da un lato il “nucleo di contenuto necessario” e dall’altro “l’articolazione rituale e cerimoniale”. La mentalità ecclesiale, il modo di celebrare, il modo di pensare e di fare il catechismo, la formazione dei preti, la forma dei battisteri, dei confessionali e delle chiese dipendono largamente da questa “grande divisione”. Persino la divisione delle competenze della Curia romana è profondamente influenzata da questa forma mentis. Così il Dicastero per la Dottrina della fede si occupa delle “formule” delle “materie” e dei “ministri” (del diritto divino, insomma), mentre i riti e le cerimonie hanno, appunto, il Dicastero per il Culto divino come riferimento (e vengono pensate come di minore importanza).

La scissione tra necessità e solennità dopo Sacrosanctum Concilium

La distinzione scolastica, che è diventata “criterio” del Rituale del 1614, si è trasformata però, con il tempo, in una sorta di “scissione” della esperienza. Di questo si erano accorti i primi grandi “liturgisti” del XIX secolo: Rosmini in Italia e Guéranger in Francia avevano percepito questa frattura interna alla esperienza credente ed ecclesiale. Un secolo dopo, ai primi del XX secolo, Romano Guardini ha considerato, come un profeta, questa frattura tra “forma” e “contenuto” come ciò che il nuovo sapere liturgico doveva superare. E ha inaugurato la grande ricerca della teologia liturgica che più tardi Joseph. Ratzinger ha definito con una espressione di grande efficacia: «Era cambiata la nozione di forma». Se dovessimo tradurre questa icastica formulazione dovremmo dire che il significato teologico del sacramento non sta semplicemente nella unione di formula, materia e ministro. «Per ritus et preces» diventa una definizione del sacramento, non semplicemente una sua descrizione cerimoniale. Per dire “che cosa è il sacramento” la triade formula/materia/ministro non è più sufficiente.

Il Sacramento: tutto il verbale e tutto il non verbale

Questo sviluppo ha cambiato le categorie con cui oggi ragiona e celebra la Chiesa (ma non la Curia romana). Per questo il fatto di “isolare” la formula da tutto il contesto rituale diventa una operazione certo sempre possibile, anche opportuna nel momento in cui vi sono problemi, abusi o distorsioni, ma che appare inevitabilmente troppo unilaterale e ingiusta (arriverei a dire “immorale”) quando si lasci ipotizzare che “la sola formula” sia in grado di reggere l’esperienza che è in gioco nel sacramento. Che “solo Cristo” sia mediato da “sola formula” è una teoria troppo debole, sia sul piano teologico, sia sul piano giuridico. Ma, lo voglio ripetere, questo è diventato “istituzionale” nel momento in cui del medesimo sacramento un Dicastero si occupa solo dei “contenuti di fede” e un altro solo “delle forme rituali”. Questa divisione delle competenze, che implica uno “sguardo selettivo” e una “indifferenza ex officio” resta indietro rispetto al dettato conciliare e alla esperienza che la Chiesa fa con la liturgia successiva alla riforma liturgica. Accanto alle “parole della formula” – nel battesimo come in ogni altro sacramento – ci sono tutte le altre parole (della scrittura proclamata, della preghiera comune, della omelia…) e ci sono tutti i linguaggi non verbali, di cui è ricco ogni rituale sacramentale. Si consideri quanto è diverso pensare la “formula” nella celebrazione di un battesimo che dura 15 minuti in un sabato pomeriggio, o nel cuore della Veglia pasquale, dopo un catecumenato di 3 anni. La indifferenza al contesto diventa qui il rischio di una forte incomprensione e di parlare a vanvera.

Tutte le parole precise e una sola goccia d’acqua?

Vorrei aggiungere, inoltre, una ulteriore considerazione. La custodia della “formula tradizionale” sarà tanto più facile nel momento in cui sapremo guardare al “fenomeno battesimo” in una maniera più larga e più articolata. Forse una certa “ostinazione” nel voler adattare la formula a nuove circostanze o sensibilità potrebbe dipendere proprio da questa nostra ottica distorta e comune. Ossia nel voler concentrare tutto ciò che è importante solo nelle parole della formula. Ma ci sono mille altre vie per dire la potenza di Dio, la sua misericordia, il dono di grazia di fronte al peccato dell’uomo e la riabilitazione di questo uomo quando è toccato dalla grazia. Un esempio può essere qui di grande aiuto. Se concentriamo tutte le energie nel “tener ferma la formula stabilita” – e in questo non vi è nulla di male – il rischio è che ci si curi soltanto della formula “esatta” e si diventi estremamente “sciatti” su tutto il resto. Mi colpisce sempre che accanto allo scandalo per la introduzione di “parole diverse”, non si avverta invece alcuno scandalo né per il tono con cui vengono proferite quelle parole, né per la inconsistenza degli altri “elementi rituali”. Perché mai, in un battesimo, la formula deve essere sempre garantita, mentre l’acqua può essere ridotta a una sola goccia? La “grande divisione” ci ha portati ad avere orecchi attenti solo per le “parole formali”, ma la musica di quelle parole e la quantità di acqua o il profumo del crisma, la qualità dei silenzi o la pertinenza dei canti o dei movimenti non suscita in noi, almeno mediamente, alcuna reazione cosciente.

Dietro a tutto questo sta un dispositivo teorico – e un assetto istituzionale che a esso corrisponde – che ho chiamato la grande divisione, che è di lunga data, ma che oggi, da almeno 60 anni, non funziona più. Se si resta al suo interno, si dicono cose sacrosante, del tutto fondate, che però diventano unilaterali nella misura in cui non si lasciano pensare in una sintesi nuova, nella quale la quantità dell’acqua del fonte battesimale presso il quale pronuncio la “formula” non è semplicemente un “orpello cerimoniale” sostituibile con mezzo dito d’acqua in una bacinella di plastica gialla.

Così non è detto che l’ansia di “trasformare la formula” non possa essere a sua volta l’effetto di questa divisione della esperienza, che grida per essere letta diversamente. Ed è vero che uno solo è il battesimo e molti sono i riti, ma è anche vero che al battesimo si accede sempre per via rituale. Il “contenuto” del battesimo, se viene sciolto dalla mediazione verbale e non verbale che lo accompagna, risulta ridotto e quasi addomesticato. Così, per difendere la oggettività della tradizione si diventa rigidi e formali.

Un nodo teorico e istituzionale

Questo nodo teorico, che condiziona tanto la prassi, mi pare che meriti una rinnovata attenzione. E forse proprio così quella giusta istanza, che la Nota recente vuole affermare – ossia voler sottrarre il battesimo alle manipolazioni che la tradizione vorrebbe di volta in volta imporgli –, potrebbe trovare il suo campo più vasto di efficacia. Puntando non soltanto sulla “formula”, ma sulla intera forma verbale (tutte le parole) e forma rituale (tutti i linguaggi) del battesimo e di tutti i sacramenti. Poiché il Signore non si è mediato solo in parole, ma anche in azioni, la percezione di dover recuperare questa unità originaria di detti e fatti, di parola e sacramento, di verbale e non verbale, può essere riconosciuta come un compito che la teologia ha già fatto oggetto di studio e di elaborazione, da più di un secolo, al servizio della crescita comune. Perché possiamo continuare a fare la domanda classica: “quando un battesimo è valido”? Non dovremmo porre a noi stessi una domanda nuova, che cambia il senso anche della domanda classica: “che cosa accade quando un battesimo è soltanto valido”?. Tutto il Movimento Liturgico, al quale si ispira con tanta passione la recente lettera di papa Francesco Desiderio desideravi, e che Sacrosanctum Concilium ha sintetizzato mirabilmente 60 anni fa, non ha fatto altro che recuperare una esperienza del sacramento che stia anche e soprattutto al di qua e al di là della validità. Come è possibile che nel 2024 si possa ancora pensare di affrontare le questioni che riguardano la celebrazione dei sacramenti con una divisione tra “santificazione” e “culto” che spacca in due la realtà? Non sarebbe forse giusto avviare anche sul piano istituzionale un ripensamento delle “competenze necessarie” per produrre discorsi sensati sui sacramenti? Io credo che solo una nuova e strutturale unificazione delle competenze sulla “santificazione” e sul “culto” possa restituire al “fenomeno sacramento” la sua verità. Non sono sufficienti teologi che da un secolo pensano in questa direzione. Occorre che gli Uffici di Curia recepiscano la nuova lettura e escano da quel “canone tridentino” che oggi produce o nostalgia o incomprensione. La distinzione ufficiale tra Dicastero per la fede e Dicastero per il culto produce oggi solo distorsioni e polarizzazioni. Per dire cose sensate occorre unire le forze e fondere le prospettive in una nuova sintesi. Lo stesso fenomeno che oggi vediamo nella Nota Gestis verbisque abbiamo notato, un mese fa, anche nella Dichiarazione Fiducia supplicans, dove è evidente che la nozione di “benedizione” assunta dal documento del Dicastero per la fede manca di tutta l’esperienza liturgica e rituale che il Dicastero per il culto avrebbe potuto richiamare. Che una benedizione non debba essere rituale o liturgica è una affermazione che si può fare serenamente in un Dicastero, ma che un altro Dicastero sa essere falsa: un benedire senza forma (senza spazio, tempo, parole, tatto) è un non senso. Solo una mediazione istituzionale di partenza, e sentita da tutti come strutturale e obbligata, permetterebbe di non fare affermazioni azzardate. Ma se si spacca in due l’esperienza e si ragiona sulle realtà sacramentali con lo sguardo scisso tra “diritto divino” (indifferente alle cerimonie di culto) e “cerimonie” (indifferenti alla sostanza santificante) si produce incomprensione, anche con le migliori intenzioni.

Occorre sottrarre i sacramenti (e i sacramentali) a questo massacro ufficiale.

La saluto cordialmente e Le auguro buon lavoro.

Andrea Grillo, docente di Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo a Roma e di Liturgia a Padova, presso l’Abbazia di Santa Giustina. È autore del blog “Come se non”, da cui questo articolo è tratto (5/2/24).

*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza 

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