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Caso Orlandi, cosa non torna nelle indagini: rogatorie e silenzi del vaticano

Caso Orlandi, cosa non torna nelle indagini: rogatorie e silenzi del vaticano

Tratto da: Adista Notizie n° 13 del 06/04/2024

 

41809 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. La commissione bicamerale nata lo scorso 14 marzo per provare a dipanare l’intricata vicenda della scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, ha dovuto superare non pochi ostacoli prima di vedere la luce. Fra gli altri, a opporsi alla sua approvazione, oltre a esponenti politici come Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato, è stato lo stesso Vaticano; in primo luogo a parlare fu il promotore di giustizia Alessandro Diddi, nel corso dell’audizione in Senato, compiuta in previsione del voto sull’istituzione della commissione, lo scorso 6 di giugno. «Ritengo che in questo momento – disse nell’occasione Diddi – aprire una terza indagine (oltre quelle aperte dal Vaticano e dalla procura di Roma, ndr) che segue logiche e forme diverse dall'autorità giudiziaria, sarebbe una intromissione anche perniciosa per la genuinità delle indagini in corso». «Purtroppo – aggiungeva – un eccesso di interesse dell'opinione pubblica può costituire un inquinamento della genuinità del lavoro che stiamo svolgendo in collaborazione con la procura di Roma».

Lo stop di Parolin

Tuttavia Diddi, accanto a queste contestazioni di merito, sollevava – attraverso la lettura di un messaggio inviato al Senato dal cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin – un problema di forma, relativo ai rapporti fra Stato vaticano e Stato italiano, con un avvertimento lanciato ai lavori futuri della commissione. La convocazione del promotore di giustizia vaticano, spiegava infatti il cardinale nella lettera, «non è stata corretta sia dal punto di vista della forma che della sostanza».

L'audizione – ricordava Parolin – era «finalizzata ad avere informazioni da un pubblico ufficiale di uno Stato estero». Tuttavia, il via libera alla presenza di Diddi è stato dato dal Vaticano nella «speranza di arrivare a un definitivo chiarimento sul caso»; allo stesso tempo, riferiva il porporato, la presenza di Diddi «non può essere considerato un precedente» e «in futuro, quando le autorità italiane vogliono avere informazioni, dovranno essere osservate tutte le formalità previste dal diritto internazionale». Diddi da parte sua, osservava che «ci sono regole istituzionali sempre seguite fino ad oggi e che avrebbero imposto la convocazione con altre forme, non con una mail e una telefonata alla mia segreteria privata. La Segreteria di Stato inizialmente era contraria perché non ero stato convocato per vie ufficiali, io ho espresso la mia personale opinione rimarcando l'irritualità della convocazione», ma lo stesso Diddi, ricordava, aveva sottolineato che «era opportuno che fossi presente».

Nella stessa occasione venne ascoltato anche l’attuale presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, ex procuratore generale di Roma, il quale affermò: «Non so con quale qualifica sono stato invitato; come presidente del Tribunale vaticano faccio mie le osservazioni del promotore Diddi, io non c'entro nulla, le indagini le sta facendo il promotore di giustizia, è un ufficio del tutto autonomo, e il segreto è anche nei miei confronti. Sotto il profilo del già procuratore di Roma dal 2012 al 2019, ho trovato le varie sentenze di non luogo a procedere e ho vistato, non ero io il titolare dell'inchiesta, il procedimento di archiviazione che ha concluso anche per la scadenza dei tempi; la richiesta di archiviazione poi è stata accolta dal gip, e confermata anche dalla Cassazione». In pratica, Pignatone era stato il procuratore della capitale che aveva messo il sigillo definitivo alla chiusura delle indagini sul caso Orlandi nel 2016.

Rogatorie mancate

Va detto che tutta la storia investigativa relativa alla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, è contrassegnata da pochissimi elementi probatori concreti, un dato impressionante se si considerano gli anni di indagine e il periodo di tempo trascorso dagli eventi in questione; allo stesso tempo si sono accumulati una montagna di depistaggi, false piste, documenti contraffatti, ipotesi più o meno incredibili. Di certo c’è però che se fosse vero quanto affermato dal prefetto dell’Archivio apostolico vaticano, mons. Sergio Pagano, circa il fatto che non solo non esisterebbe un dossier in Vaticano sul caso Orlandi, ma che in buona sostanza il collegamento fra i sacri palazzi e la scomparsa di Emanuela è frutto di «dicerie» giornalistiche, mentre la ragazza «tristemente, chissà quale fine ha fatto», non si comprenderebbe la lunga e pervicace reticenza che ha caratterizzato la gestione del caso da parte vaticana. Il che non significa affermare che il Vaticano è implicato per forza in qualche modo, ma di certo questa sorta di resistenza passiva è uno degli aspetti da chiarire.

A cominciare dal tema delle fatidiche rogatorie inviate dalla magistratura italiana in Vaticano per interrogare diversi autorevoli testimoni che ebbero un ruolo attivo nella vicenda. In particolare si fa qui riferimento alle rogatorie richieste dal giudice istruttore Adele Rando, titolare della prima grande indagine sulla scomparsa di Emanuela e Mirella, che, con la sentenza del 1997, smantellò di fatto la tesi del complotto internazionale teso alla liberazione dell’attentatore di Giovanni Paolo II, Mehmet Ali Agca, come movente del rapimento delle due giovani. Ma chi volevano sentire gli inquirenti italiani? Il segretario di Stato in carica in quel momento, il card. Angelo Sodano, il card. Agostino Casaroli (ex segretario di Stato), mons. Eduardo Martinez Somalo (ex sostituto della segreteria di Stato), mons. Giovanni Battista Re (allora assessore della Segreteria di Stato), mons. Dino Monduzzi (allora prefetto della Casa Pontificia).

La prima richiesta fu mandata nel marzo del 1994 e una seconda nel marzo del 1995. Quella del 1994 venne respinta perché gli inquirenti italiani avrebbero voluto interrogare di persona i diversi testimoni, cosa che fu negata dal Vaticano che si appellò ai trattati internazionali fra Italia e Santa Sede (secondo i quali le rogatorie potevano essere effettuate solo passando attraverso i giudici vaticani), la seconda venne accolta perché completa di “quesiti da sottoporre ai testi” da parte però dell’autorità giudiziaria della Santa sede, i «quesiti che concernevano – si spiegava nella sentenza del 1997 – indagini eventualmente svolte all’interno del Vaticano, acquisizioni documentali ivi pervenute e non trasmesse, modalità di attivazione e funzionamento della linea riservata (quella attivata in Vaticano per parlare con i rapitori di Emanuela, ndr), possibili trascrizioni e annotazioni delle telefonate effettuate, nonché il riscontro di una riunione avvenuta presso la Segreteria di Stato nell’immediatezza della scomparsa di Emanuela e alla quale avrebbero partecipato il card. Casaroli, mons. Re e mons. Martinez circostanza questa che aliunde dagli atti emergeva».

Non potendo ascoltare i testi di persona, si afferma nella sentenza, l’apporto dato dalle rogatorie alle indagini fu praticamente nullo.

Una talpa in Vaticano?

Dalla sentenza della giudice Rando, emerge altresì quanto disse mons. Francesco Salerno (all’epoca dei fatti consulente legale presso la Prefettura degli affari economici della Santa Sede, oggi scomparso come molti protagonisti di quella stagione) ascoltato dagli inquirenti il 3 dicembre del 1993. Mons. Salerno veniva interrogato «congiuntamente al giudice istruttore del titolare della terza inchiesta sull’attentato al sommo pontefice in ordine alle telefonate pervenute all’utenza riservata nonché agli inutili tentativi di identificare gli sconosciuti interlocutori», «riteneva che proprio quest’ultima circostanza provasse l’esistenza di qualche informatore interno alla Segreteria di Stato; esprimeva inoltre la personale convinzione che negli archivi della Segreteria di Stato fossero conservati documenti inerenti al caso». Da sottolineare, inoltre, che una prima rogatoria era stata inviata Oltretevere nel 1986 allo scopo di acquisire documenti o informazioni «concernenti la scomparsa delle due giovani. L’esito era stato negativo, nel senso che si escludeva la conduzione di un’inchiesta interna in ordine ai fatti per i quali doveva ravvisarsi una competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria italiana».

Il 14 aprile del 2012, p. Federico Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede, diffondeva una nota sul caso Orlandi in cui difendeva l’operato del Vaticano compresa la questione rogatorie per le quali ricordava che la presenza dei giudici italiani non era prevista durante gli interrogatori in Vaticano in base a quanto previsto dagli accordi internazionali fra Italia e Santa Sede. «Il fatto che alle deposizioni in questione – scriveva in merito Lombardi – non fosse presente un magistrato italiano, ma che si fosse richiesto alla parte italiana di formulare con precisione le questioni da porre, fa parte della prassi ordinaria internazionale nella cooperazione giudiziaria e non deve quindi stupire, né tantomeno insospettire».

Testimoni

Nella stessa nota, il direttore della Sala stampa della Santa Sede, elencando i funzionari vaticani per i quali le autorità italiane avevano inviato la rogatoria, faceva il nome anche di mons. Claudio Maria Celli (già sottosegretario della sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato), fatto non secondario se si considera che Celli, insieme a Re, è uno dei pochi “sopravvissuti” del periodo del sequestro Orlandi. Quindi potenzialmente entrambi potrebbero ancora raccontare qualcosa sulla vicenda. Fa gli altri testimoni dell’epoca, ancora vivi, c’è pure mons. Gianfranco Girotti, ex reggente della Penitenzieria Apostolica, nel 1983 funzionario presso la Congregazione per la Dottrina della Fede. D’altro canto, Girotti, intervistato da Repubblica nel gennaio del 2023 sulla decisione della Santa Sede di riaprire le indagini, fece sapere qual era il suo punto di vista: «Io penso – disse – che la Santa Sede abbia deciso di avviare nuove indagini per poter rispondere, dopo una nuova e scrupolosa fase investigativa, a quanti adombrano da anni il sospetto che la risposta del rapimento possa trovarsi in Vaticano. Credo che questa iniziativa sia stata attivata per fare in modo che alla fine si possa dire basta alle tante voci che, in un verso o in un altro, per tanto tempo hanno indicato l'esistenza di presunte prove sul caso Orlandi all'interno del Vaticano. Penso che si potrà arrivare almeno a questo chiarimento perché non credo che dopo tanti anni gli inquirenti possano trovare delle prove certe ed inoppugnabili».

Servizi segreti

Da rilevare in ogni caso, che p. Federico Lombardi, nella stessa nota del 2012, metteva più volte in luce come, fra le autorità inquirenti che ebbero accesso alle informazioni in possesso del Vaticano, ci sono i servizi segreti italiani, il Sisde in particolare. «È anche da rilevare – affermava p. Lombardi – che all’epoca del sequestro di Emanuela, le autorità vaticane, in spirito di vera collaborazione, concessero agli inquirenti italiani e al Sisde l’autorizzazione a tenere sotto controllo il telefono vaticano della famiglia Orlandi e ad accedere liberamente in Vaticano per recarsi presso l’abitazione degli stessi Orlandi, senza alcuna mediazione di funzionari vaticani». Del resto, il tema del ruolo avuto dai servizi segreti entra in gioco nel caso di Emanuela Orlandi in diverse occasioni, sulle quali torneremo nelle prossime settimane; la stessa indagine della Rando ne teneva conto, domandando, fra l’altro, a Sismi e Sisde gli atti relativi alle indagini su Orlandi e Gregori, che risultavano però «classificati». Il giudice Adele Rando chiedeva quindi uno stralcio, un prolungamento dell’indagine, proprio in relazione a quegli aspetti mai chiariti della vicenda. – continua...

*Foto presa da Wikipedia, immagine originale e licenza 

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