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- UN ALTRO TEOLOGO NEL MIRINO DEL VATICANO: CLAUDE GEFFRÉ SPIEGA QUAL È LA SUA CONCEZIONE DEL PLURALISMO RELIGIOSO.

Tratto da: Adista Contesti n° 48 del 30/06/2007

Roma si è opposta alla consegna di un dottorato honoris causa, da parte della Facoltà di teologia cattolica di Kinshasa, in Congo, al teologo Claude Geffré per l’insieme della sua opera. Le ragioni di questo sopruso restano sconosciute. Questo domenicano di grande levatura, già direttore della Scuola biblica di Gerusalemme, autore di numerose pubblicazioni, è lungi dall’essere un rivoluzionario, ma ha consacrato tutto il suo lavoro all’elaborazione di una teologia del pluralismo religioso. Abbiamo cercato di capire cosa c’è dietro questa faccenda, nel momento in cui, paradossalmente, il Vaticano annuncia che restituirà il suo completo status al Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.

Lei è in conflitto con il Vaticano?
No. Vorrei conoscere la lettera indirizzata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede alla Congregazione per l’Educazione Cattolica, nella quale devono comparire le ragioni del suo rifiuto al mio dottorato honoris causa. Ho già avuto qualche difficoltà nel 1996 quando sono stato nominato direttore della Scuola biblica di Gerusalemme. All’epoca, il maestro generale dell’Ordine, Timothy  Radcliffe, ha dovuto battersi perché il Vaticano desse il suo avallo alla nomina. Forse verso di me ci sono dei pregiudizi che si trascinano. Mi hanno attribuito l’idea che l’islam sarebbe una continuazione della rivelazione giudaico-cristiana. Ma io non l’ho mai detto, anzi! Penso soltanto che si può dare un giudizio positivo dell’islam in quanto monito profetico sulla fedeltà ad un monoteismo stretto. Per spiegarmi, ho inviato dei miei testi al cardinale Pio Laghi, allora responsabile della Congregazione per l’Educazione Cattolica. Non ha accusato ricevuta.

Ma, nel 2000, la promulgazione della Dominus Iesus non è stata un chiaro avvertimento?
La dichiarazione Dominus Iesus, dell’agosto del 2000, è un avvertimento indirizzato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, allora presieduta dal cardinal Ratzinger, a teologi soprattutto indiani e americani, e anche europei, come padre Dupuis e io stesso. La Dichiarazione condanna le “teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio)”. Ora, il nostro lavoro consiste nel dire che il pluralismo religioso non è solo un dato di fatto, ma può derivare da un pluralismo di principio legato al disegno misterioso di Dio. Si tratta dunque di interrogarsi sul significato, all’interno del disegno di Dio, delle tradizioni religiose che si situano al di fuori della rivelazione giudaico-cristiana.

Fondamentalmente, qual è il problema?
Per schematizzare, diciamo che per secoli ci si è attenuti al precetto “fuori della Chiesa non c’è salvezza”. La teologia delle religioni si fermava alla problematica della salvezza degli infedeli. È la posizione “esclusivista”. Nel XX secolo, con la dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, si è riconosciuto che al di là del cristianesimo si possono avere semi di verità e di bontà nelle altre tradizioni religiose. Si può dire che i “padri” del Vaticano II hanno applicato alle religioni quello che i Padri della Chiesa dicevano della saggezza filosofica greca, come “riflesso” della verità del Verbo di Dio, riconoscendo che ci sono nell’arco di tutta la storia umana semi del Verbo, anche prima dell’incarnazione del Cristo. La teologia “ufficiale” soggiacente ai testi del Vaticano II è quella della teologia del compimento: cioè, che Cristo “porta a compimento” quello che c’è di potenzialmente cristiano nelle altre religioni. Questo per dire che tutto ciò che c’è di vero e di buono nelle altre religioni è una sorta di preparazione al Vangelo. È una posizione “inclusivista”. Ci sono teologi, fra i quali mi situo io, che vogliono oltrepassare questa posizione nel senso di una teologia del pluralismo religioso.

Qual è la sua posizione?
La teologia del pluralismo religioso vuole davvero rispettare l’alterità degli altri sistemi religiosi. Cioè, noi pensiamo che i valori positivi che si incontrano nelle altre religioni non sono necessariamente “valori implicitamente cristiani”. In altri termini, i musulmani o gli ortodossi, o i buddisti di buona fede non sono cristiani che non sanno di esserlo! Così, io preferisco non parlare di valori implicitamente cristiani che si incontrerebbero fuori del cristianesimo: questo significherebbe che questi sono solamente schizzi maldestri di quello che il cristianesimo ha poi portato alla perfezione. Se certi non-cristiani vengono salvati, non è a dispetto della loro appartenenza alla loro religione, ma per la fedeltà a tradizioni che hanno una capacità di salvezza in loro stesse.

Come concilia lei questa pluralità con l’unicità della salvezza in Gesù Cristo professata dalla fede cristiana?
Nella Bibbia c’è l’episodio della torre di Babele: al tentativo degli uomini di cercare un’unità che non appartiene che a Dio, Yahvè risponde con il castigo della confusione delle lingue. È il ritorno alla condizione creata per volere di Dio: egli benedice la molteplicità delle lingue e delle culture. E perché no delle forme religiose? La teologia del pluralismo religioso non rimette in discussione l’unicità della mediazione di Cristo per la salvezza del mondo. Dal momento che il mistero del Cristo domina tutta la Storia, credo che i germi di bontà, di santità, di verità delle altre religioni siano valori “cristici” che, alla fine dei tempi, avranno il loro compimento nel mistero del Cristo, maestro della Storia, nel rispetto della loro propria alterità. Questi valori li chiamo “cristici” perché sono legati alla potenzialità cristica presente in ogni essere umano. Infatti ogni uomo è creato a immagine dell’archetipo che è il Cristo.

Questo ha spaventato molto Ratzinger nel passato, e a quanto sembra anche oggi…
Il cardinale Ratzinger, divenuto Benedetto XVI, ha l’ossessione della “dittatura” del relativismo. Alcuni passaggi della Dominus Iesus hanno difficoltà a conciliare l’assoluto della salvezza in Cristo e il riconoscimento dei valori propri delle altre religioni. Il testo è troppo debitore di una concezione greca della verità definita unicamente in rapporto all’errore. Per molto tempo si è pensato che, se il cristianesimo è la vera religione, allora tutte le altre sono false. Secondo me, l’incontro del messaggio cristiano con la cultura greca è stato un caso di inculturazione fondamentale per l’avvenire del cristianesimo. Ma nel XXI secolo non si può più assolutizzare la filosofia greca come cultura dominante se si vuole che la religione cristiana sia universale (che è il significato della parola cattolico). Altrimenti, restiamo chiusi in una concezione tutta occidentale del cristianesimo. Oggi dovremmo pensare la questione in funzione delle tradizioni culturali dell’Asia e dell’Africa. Non si tratta di rinnegare i primi concilii ecumenici e i loro dogmi, al contrario! Ma bisogna dare una reinterpretazione creatrice a partire dalle risorse delle altre culture. Perché ogni cultura può essere assunta dal cristianesimo, a condizione che l’inculturazione sia sotto il segno del discernimento critico e del rispetto della differenza.

Qual è la sua visione della verità?
La verità di ordine religioso è sotto il segno di una tensione verso una pienezza ancora nascosta. Io faccio una distinzione fra la rivelazione che è chiusa in quanto avvenimento – e di cui il Nuovo Testamento è la testimonianza storica - e la rivelazione come contenuto intellegibile che non ha mai finito di essere esplicitato. Si tratta qui di allargare la questione della salvezza in Gesù Cristo all’insieme della storia dell’umanità e di non restringerla alla sola storia della salvezza nel senso stretto del termine, che coincide cioè con la rivelazione giudaico-cristiana. Gesù morto e risuscitato non è solo un avvenimento storico. È un avvenimento sovrastorico che ha un’efficacia salvifica per i secoli che lo precedono e che lo seguono.

Cosa pensa delle dichiarazioni del papa in Brasile, quando ha detto che l’evangelizzazione dell’America Latina non ha “comportato in nessun momento un’alienazione delle culture precolombiane e non ha imposto una cultura straniera”?
Questa visione corrisponde alla teologia del compimento di cui ho parlato. Il cristianesimo non ha fatto che portare a compimento, rivelare i germi cristiani che preesistevano nelle tradizioni degli Amerindi. Non che sia falso, ma è una visione molto idealista, e, storicamente, l’evangelizzazione ha spesso comportato una vera alienazione delle culture locali – cosa che il papa ha riconosciuto subito dopo. Tutti i mezzi erano buoni per assicurar loro la salvezza eterna. La questione resta attuale. La missione della Chiesa rimane con tutta la sua urgenza. Ma lo scopo della missione non è la conversione a qualsiasi prezzo del non-cristiano, come se cambiare di religione fosse la condizione sine qua non per la sua salvezza eterna. Ci sono uomini e donne che sono membri del Regno di Dio pur non appartenendo alla Chiesa visibile.

Benedetto XVI denuncia spesso il relativismo... La verità è relativa?
La verità rivelata testimoniata da Gesù non è relativa. Ma l’apprendimento umano di questa verità è relativo alla nostra situazione storica. In questo senso, la rivelazione è ancora una rivelazione limitata che non pretende di esaurire la pienezza della rivelazione che è in Dio. È l’insegnamento stesso di Gesù nel Nuovo Testamento che ci invita a sottolineare il carattere escatologico della verità che il Padre gli ha affidato: “Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà verso tutta la verità” (Gv 16,13). La verità cristiana non è né esclusiva né inclusiva di ogni altra verità d’ordine religioso. Una tale pretesa renderebbe impossibile il dialogo tra le religioni. La verità che ci è affidata è relativa, non nel senso di relativo che si oppone ad assoluto, ma nel senso di relazionale. Si potrebbe dire che la verità della rivelazione cristiana è relativa alla parte di verità che si trova nelle altre tradizioni religiose.

Cosa pensa del pontificato di Benedetto XVI?
Il papa è preoccupato di mantenere l’identità cattolica allorché l’interesse crescente per il dialogo interreligioso può condurre a derive d’ordine dottrinale e a sincretismi dubbi. Così, mentre protrae l’opera di Giovanni Paolo II nel senso di una riflessione fondamentale sulle relazioni con il giudaismo, manifesta una grande freddezza nel dialogo con l’islam e con le religioni dell’Oriente. È ben cosciente in effetti delle difficoltà di un confronto d’ordine dottrinale e privilegia l’incontro delle culture. Ma io mi felicito per l’annunciato ristabilimento del-l’autonomia del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso.
Il teologo Ratzinger non ha forse assunto tutta la sua responsabilità papale dal punto di vista geopolitico. È sorprendente accordare tanta importanza al riassorbimento della scisma lefebvriano quando ci sono tante sfide da superare per l’avvenire del cattolicesimo su scala planetaria.

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