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Aumentare l’occupazione è possibile, ma...

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 35 del 11/10/2014

Se obiettivo del Jobs Act di Renzi è quello di ridurre la disoccupazione, esso, purtroppo, non sarà raggiunto, per molti  motivi. Il dramma è che in Italia lavorano 3 milioni di persone in meno rispetto all’Europa e sei rispetto alla Germania. La misura reale del dramma occupazionale italiano non è il tasso di disoccupazione, oggi al 12,6%,  simile a quello dell’eurozona, all’11,7%, ma il tasso di occupazione (occupati su popolazione in età da lavoro), che è di otto punti inferiore a quello dell’eurozona, 59,8% rispetto al 67,7%, e di quasi 20 punti inferiore a quello dei Paesi del Nord Europa, Germania in  testa che ha un tasso di occupazione del 77% (dati Eurostat). Otto punti di differenza tra Italia ed Europa, su una popolazione in età da lavoro di quasi quattro milioni, significa che all’Italia mancano più di tre milioni di occupati per essere nella media europea, quasi sette  milioni per essere come i tedeschi. I posti  di lavoro che mancano all’Italia sono tutti nei servizi, dove siamo debolissimi. Mentre gli altri Paesi industriali hanno compensato la deindustrializzazione seguita alla globalizzazione con una forte crescita dei servizi, in Italia la crescita è stata minore, tanto che oggi il peso dei servizi italiani su Pil ed occupazione è di sette punti inferiore a quello dei maggiori Paesi industriali, 68% contro 75%. Altro fattore di indebolimento dei livelli occupazionali italiani è il prevalere di fattori di quantità sulla qualità.  L’Italia, malgrado la crisi, è oggi, con la Grecia, il Paese dove la durata media del lavoro è più lunga, 1.800 ore contro 1.500 dei Paesi nordeuropei, perché  paga lo straordinario meno del lavoro ordinario e  non incentiva le riduzioni di orario, come in Olanda, Germania, Danimarca, Svezia, Francia, ecc... 

Oggi, hanno scritto Ocse, Bit, Fmi, il rischio maggiore è la crescita senza occupazione. Alcuni Paesi sono andati in senso contrario, aumentando l’occupazione anche senza crescita. Aumentare l’occupazione, anche in tempi difficili, di limiti alla crescita, è possibile se si fanno politiche ad hoc. Oggi, a  differenza dei limiti del 1972, quando ne parlava il rapporto  del Club di Roma “The Limit of Growth”, i nuovi limiti non vengono tanto dallo spreco delle risorse non rinnovabili che non sono infinite, ma dal Pil mondiale che continua a crescere del 3% ma con alto tasso di crescita nei Paesi emergenti e basso nei Paesi industriali. 

La globalizzazione è il nuovo limite della crescita. Nel periodo 2000-2013 il Pil degli Usa, più giovani per età media dell’Europa, è cresciuto dell’1,7% l’anno, quello dell’Europa dell’1,3% e quello di Italia e Giappone, Paesi più “vecchi“, dello 0,9%. L’andamento degli Ide, Investimenti diretti esteri, è stato analogo, con spostamento massiccio degli Ide-in dai Paesi industriali a quelli emergenti.  

Negli ultimi sei anni il record negativo degli Ide-in sono stati  lo 0% del Pil in Giappone, lo 0,4% del Pil  in Italia. Come fanno i Paesi industriali a mantenere buoni livelli di occupazione con tassi di crescita così bassi e con la deindustrializzazione accelerata dalla globalizzazione? In due modi, con una terziarizzazione spinta  – la produzione di prodotti intelligenti e l’export di servizi sono diventati il futuro dei Paesi industriali  – e con politiche di redistribuzione del lavoro, in pratica aumentando la qualità e riducendo le ore lavorate procapite. L’Italia marcia in opposta direzione.

La Germania è il caso più emblematico di buone pratiche occupazionali. Nel 2009 col Pil al -5,5% l’occupazione non si è mossa grazie ad un cospicuo processo di redistribuzione del lavoro. Nel decennio 2000-2013 ha addirittura aumentato l’occupazione (il tasso di occupazione è passato dal 68,4% al 77,1%, dati Eurostat), malgrado una crescita annua del Pil di poco superiore all’1%. E, malgrado un  monte ore annuo ridotto da 60 a 57 miliardi, l’occupazione è aumentata essendosi  ridotte le ore lavorate pro capite (kurzarbeit e 35 ore).

L’Italia, con un Pil simile nello stesso periodo, ha invece ridotto l’occupazione ed aumentato la disoccupazione perché ha seguito politiche anti-occupazione, pagando gli straordinari meno dell’ora ordinaria, non finanziando a sufficienza i contratti di solidarietà – con cui lo Stato rimborsa ai lavoratori metà del salario perso con gli orari ridotti  –, aumentando l’età pensionabile senza possibilità di “progressiv pension” come in Germania e altrove. 

Del Jobs Act sinora abbiamo visto la legge Poletti, che ha liberalizzato ulteriormente i contratti a tempo determinato e la bozza di legge governativa approvata dalla Commissione Lavoro del Senato, che introduce il (titolo del) lavoro a tutele crescenti, che entra in concorrenza diretta col lavoro a tempo determinato (se si può assumere col contratto a termine senza alcuna giustificazione perché mai l’imprenditore dovrebbe utilizzare il nuovo contratto?). Del Jobs Act, purtroppo, si è intuito anche altro, cioè che al termine del famoso periodo di tre anni del Ctc l’eventuale assunzione a tempo indeterminato avverrebbe con esclusione dei diritti dell’art.18. 

Mentre penso sia giusto eliminare le incertezze che preoccupano alcuni imprenditori, tempi e costi degli esiti giudiziari, eliminare completamente l’art. 18 per i giovani avrebbe due risvolti negativi: la probabile anticostituzionalità e l’ulteriore ghettizzazione dei giovani già penalizzati dalle 40 forme di lavoro precario che, sembra di capire, saranno abolite solo in piccola parte.

La più grossa sciocchezza dei fautori della cancellazione dell’art. 18 risiede nella convinzione che quest’ultimo impedirebbe gli investimenti esteri. Da anni le multinazionali non investono più in Paesi “vecchi”, infatti Giappone, Italia e Germania (i Paesi più vecchi del mondo: 45 anni di età media contro i 25 di quelli emergenti) hanno il record mondiale negativo degli Ide, sempre più diretti verso Africa e Paesi “giovani”, malgrado guerre ed incertezze varie.

Insomma si torna al vecchio vizio italico di inseguire la flexi senza la security, come si è fatto dal pacchetto Treu del ’97 ad oggi. Dal Jobs Act sappiamo che vuole abolire l’art. 18, ma non ancora a quanti altri lavoratori, più o meno precari, saranno  estesi gli ammortizzatori, Aspi ac similia.

Se il Jobs Act seguirà le strade che ha lasciato trapelare, avremo un aumento della precarietà, nessun investimento estero in più dello zero attuale e non un solo posto di lavoro in più rispetto a i 3 milioni che invece servirebbero all’Italia.

* Già presidente della società di ricerca economica Nomisma

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