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Il Pd verso le elezioni. Le cose da fare. Grandi e meno grandi

Il Pd verso le elezioni. Le cose da fare. Grandi e meno grandi

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 03/02/2018

Che Italia è questa, impegnata (e non da pochi giorni…) in una campagna elettorale fino “all’ultimo colpo”? Come identificarla? D’accordo: pensare di disegnare un profilo omogeneo del popolo italiano (ancorché evitando le cadute razziste e scioviniste che da destra titillano l’elettorato nostalgico) è un impegno difficile se non ingenuo. L’Italia e gli italiani da tempo non hanno più un volto e un pensiero unico, tantomeno dominante. E non è un male. La modernità (e poi la post-modernità) ha arricchito l’insieme di scelte, opzioni, pensieri e valori (qualcuno aggiunge anche i disvalori) che l’hanno reso molto simile a quello di altri popoli e democrazie occidentali. Il pluralismo è una realtà, politica e culturale.

Ma per far sì che il circuito informazione-dibattito-consensovoto sia significativo oltre che corretto, occorre che i partecipanti siano in qualche modo conosciuti, visti, ascoltati, compresi. Se si ha intenzione di conquistarli a una causa comune (prioritaria per il consenso), si deve fare lo sforzo di valutare fino in fondo i perché di un modo di pensare e di comportarsi. E non trattarli come meri bersagli da raggiungere. Ma come comunità da ascoltare, soggetti con cui dialogare. Consapevoli che il compito della politica non è seguire gli umori dell’elettorato, ma neppure, di contro, pensare che solo dall’alto di una colta sapienza si possono orientare pareri, scelte e convinzioni, impressioni ed emozioni.

È un popolo, il nostro, – sì, diciamocelo francamente, – indurito se non proprio incattivito (l’Italia del rancore, dicono molte ricerche) da un insieme di ragioni che, se pur non lo assolvono completamente ripulendone connivenze e acquiescenze coltivate negli anni, ne spiegano le dinamiche. Il populismo – spesso deprecato quando è sulla bocca degli altri e risuscitato quando conviene alla propria parte – si va esprimendo con la potenza della forza «a sovranità negativa nella sua immediatezza, come forza radicalmente nuda, incapace di una critica attiva, espressione di una violenza rassegnata. (…). Il potere tende perciò a essere criminalizzato e ridicolizzato per sua natura. Nel populismo si mischiano così la manifestazione parossistica dello smarrimento politico contemporaneo e l’espressione tragica dell’incapacità di superarlo» (Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi).

Crisi economica, disuguaglianze, corruzione, paure artatamente alimentate a fini elettorali e identitari, paure che segnalano «una crisi di sistema» e che emergono «come passione collettiva, intesa come stato affettivo diffuso che si costruisce culturalmente in relazione a una certa idea di società, e come apparato significante, che orienta la mentalità e sensibilità e il modo in cui percepiamo ciò che sta intorno a noi» (A. Ceretti e R. Cornelli, Oltre la paura, Feltrinelli). Sul campo, allora, si intravedono le sagome delle vittime di un’arcigna e corrosiva idea di società: la solidarietà, la tolleranza, il rispetto per la dignità umana, l’apertura verso l’accoglienza delle vittime, la ragionevolezza e la misura, la verità, la visione del futuro, l’attenzione ai piccoli e la cura della Terra che ci sostiene.

In questo panorama composto di smarrimento e manifesta incapacità di superarlo, l’aver fatto “le cose”, che è già tanto di questi tempi per un governo, non può bastare per un partito, che si candida – con più o meno legittimità a convincere (prima di vincere…) – a governare e non solo per un mandato.

La questione delle alleanze da costruire (obbligate nelle sedi istituzionali per formare una maggioranza di governo, comunque essenziali per una politica di lungo respiro visto che il proporzionale è tornato ad essere la barra di riferimento dell’elettorato) non può essere oggetto di mera tattica contingente. E se «è indubbio che le coalizioni negative sono più facili da organizzare delle maggioranze positive», come scrive ancora il filosofo francese, cosa si può e si deve fare? Come può, per il tempo che è rimasto di questa campagna elettorale (e per l’ipotesi, tutt’altro che peregrina, che un’altra possa riaprirsi di qui a poco), un partito come il PD che si definisce di centrosinistra e che ha (seppure in calo) il maggior consenso di quest’area, attivare un circuito positivo di comunicazione non circoscritto all’immediata scadenza, ma con una riconosciuta ed evidente proiezione per il futuro?

Lungi da me supporre e tantomeno suggerire programmi o strategie elettorali (a che titolo, poi, e con quale speranza di essere ascoltato?). Esprimo piuttosto un desiderio, un auspicio da elettore con- vinto e sostenitore incallito, nonostante gli errori e le distanze incautamente marcate nel corso di questi ultimi anni, che si possa programmare insieme la costruzione, mi si passi il paragone, di un telaio prima ancora del tessuto, dello strumento (luoghi e temi della discussione) prima ancora del risultato. Dovrà finire prima o poi la stagione dei reciproci insulti! E se è vero che le alleanze a monte (con il maggioritario) non sono più facilmente fattibili, facciamole a valle (con il proporzionale), cominciando il percorso di una graduale discesa che, fuor di metafora, consenta di attrezzarsi con maggior disponibilità.

Ecco allora tre modesti suggerimenti, tre obiettivi di vasta portata e tre più piccoli, ma non meno importanti. Tra i tanti possibili.

Primo: riabilitare il valore della democrazia deliberante e partecipata. È una cosa seria e non dobbiamo mortificarla con finte scelte on-line che tutto hanno meno che l’imprinting del coinvolgimento responsabilizzante e realmente dialogante: «Contro la patologica tendenza alla semplificazione caratteristica del populismo come “politica pura dell’impolitica, antipolitica compiuta, contro-democrazia assoluta”, la sfida del momento diviene allora proprio quella di “complicare la democrazia”, metterla all’altezza delle complesse modalità di organizzazione e funzionamento delle nostre società per poterne pensare meglio la realizzazione nelle mutate condizioni dell’epoca post-nazionale». (L. Scuccimarra, “Ripoliticizzare la società, complicare la democrazia”. Nell’introduzione a Rosanvallon, Controdemocrazia). “Complicarla” vuol dire articolarla a diversi livelli, magari perdere qualche passo in velocità, ma guadagnare in durata, consapevolezza e legittimità. Nel saldo, non è poco.

Secondo: c’è bisogno di parole di verità. Sui conti italiani; sull’impossibilità di abbassare le tasse senza compromettere efficacia ed efficienza dei servizi prestati; sull’importanza di alcune riforme; sul declino demografico; sulla necessità dell’Europa, ancora di salvezza per un sistema scassato come il nostro. Parole che possono anche non essere condivise in pieno, ma danno comunque il segno di un modo diverso di pensare e praticare la politica.

Terzo: la necessità di un grande, convinto e poderoso investimento sull’educazione e sulla scuola. Se sono stati fatti errori per aver approvato riforme senza la condivisione di chi poi doveva applicarle, si riprenda il percorso, a partire dalla centralità del merito come sistema non solo premiante (soldi), ma come criterio di discernimento e qualificante per renderci capaci di apprezzare il bello delle cose che abbiamo e di quelle che facciamo, e che può essere occasione di riscatto e di affermazione come singoli e come collettività.

E tre profili di medio cabotaggio. La necessaria manutenzione del Paese. Troppi disastri ancora fanno morti, troppe zone del Paese sono a rischio naturale, troppe “buche” si aprono sulle nostre strade (e non solo a Roma). Averne cura e rimediare è fondamentale proprio perché (e forse di più) è un obiettivo che non fa clamore.

La cittadinanza come conquista e come valore, per chi la vuole, dopo un processo impegnativo (ma non impossibile, irto di ostacoli e di procedure burocratiche) è un valore per tutti e non solo per chi la eredita per sangue (e che poi ci sputa sopra, pulendosi con il tricolore, come fanno ora gli accaniti difensori dell’italianità).

Insistere sulla strada dell’inclusione e delle politiche contro le disuguaglianze. Il Rei, i Fondi per la lotta alla povertà, persino i cosiddetti bonus, sono solo le basi, minime, per poi proseguire su strade strutturali più decisive. Che senso ha condannarli come fossero briciole (mancette), per pretendere di più senza metterle in sicurezza e garantire le risorse corrispondente alle promesse?

Su questo minimo, ma impegnativo programma, si può pensare di costruire percorsi comuni o il centrosinistra è ormai inevitabilmente condannato all’inimicizia che finisce per aprire le porte alla destra che, dal giorno dopo la “presa del potere”, condannerà – senza troppi scrupoli – questi obiettivi al definitivo oblio?

* Vittorio Sammarco è giornalista, membro di C3dem

* * Parte dell'immagine di copertina della nuova edizione del libro di Pierre Rosanvallon, Controdemocrazia con un saggio introduttivo di Luca Scuccimarra, 2017, tratto dal sito di Castelvecchi editore 

 

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