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PRIMO PIANO. Camminare insieme

PRIMO PIANO. Camminare insieme

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 12 del 07/04/2018

Qualche settimana fa si sono aperte a Ginevra le celebrazioni per il settantesimo anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC, o WCC dalle iniziali inglesi), principale raggruppamento di Chiese cristiane su scala mondiale (la Chiesa cattolica vi partecipa solo da osservatrice). Durante la sua settima assemblea, tenuta a Canberra (Australia) nel 1991 sul tema “Vieni, Spirito Santo, rinnova l'intera creazione”, fra le relazioni introduttive ci fu quella della teologa presbiteriana sudcoreana Chung Hyun Kyung. Che parlò dello Spirito in termini così innovativi e poco convenzionali da suscitare tra i presenti diverse proteste: in particolare fu la componente ortodossa a cogliervi un cedimento al sincretismo, più che un’inculturazione del credo cristiano. Ai suoi occhi, quell’invocazione alla profetessa Agare a Giovanna d’Orléans, mixata a quelle allo spirito della terra e delle foreste tropicali, della luce e dell’acqua, rappresentò plasticamente il segno della profonda crisi che il movimento ecumenico stava attraversando, destinata ad acuirsi nei decenni seguenti. In quella crisi, che raggiunse persino i media meno attenti, è sensato cogliere tutta la fatica, ma anche la necessità, del lavoro (spesso oscuro) fatto nei suoi settant’anni dal CEC. Che ha avuto, fra l’altro, il merito di portare all’attenzione dell’opinione pubblica l’irruzione di quella che Philip Jenkins chiama la Terza Chiesa; mentre la sua ultima assemblea, a Busan (Corea del Sud, 2013), evidenziò il ruolo cruciale dell’Asia nel panorama geopolitico dell’odierno cristianesimo, ormai sempre più globale. E se dal raduno fondativo di Amsterdam (1948) i partecipanti si lasciarono dichiarando di avere l’intenzione di stare assieme, nel testo conclusivo di Busan si proclama l’intenzione di muoverci assieme; e di volere condividere la nostra esperienza della ricerca dell’unità che abbiamo fatto in Corea come segno di speranza per il mondo. 

Ora, la notizia della prossima visita di papa Francesco, prevista per il 21 giugno a Ginevra in funzione dell’anniversario citato, rappresenta un segno di riconoscimento del contributo unico che questo organismo ha offerto al moderno movimento ecumenico. Lo ha sottolineato il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, annunciando l’evento, lo scorso 2 marzo, nella Sala Stampa della Santa Sede, alla presenza del segretario generale del CEC reverendo Olav Fykse Tveit. Certo, recandosi a Ginevra, Bergoglio seguirà le orme di due suoi predecessori, Paolo VI (10/6/1969) e Giovanni Paolo II (21/6/1984). 

Tuttavia sin d’ora si può immaginare che non si tratterà di un appuntamento di pura cortesia, bensì, ha ammesso Koch, del frutto «dell’impegno personale del papa per raggiungere l’obiettivo dell’unità dei cristiani». Il motto sarà “Camminare, pregare, lavorare insieme”, a riecheggiare il tema adottato dall’ultimo incontro del CEC; ma anche uno slogan particolarmente caro a Francesco, camminare insieme, che più volte è ricorso a esso per indicare il salto di qualità che a suo parere è chiamato a fare il movimento ecumenico nell’odierna stagione storica. Procedendo insieme verso la piena unità, i cristiani apprezzeranno meglio il loro patrimonio comune e si faranno più consapevoli di ciò che già condividono; allo stesso tempo, in tal modo potrebbero affrontare meglio le differenze ancora da superare, specialmente per quanto riguarda le questioni dottrinali o morali. Nonostante la risoluzione delle divergenze teologiche sia essenziale per l’obiettivo dell'unità, infatti, l’ecumenismo non consiste solo nel dialogo teologico, per includere anche la collaborazione per quanti si trovano nel bisogno e per le numerose vittime di guerre, ingiustizie e disastri naturali. 

Del resto, al di là dei passi indubbi nelle relazioni tra le Chiese (turning point quanto accaduto a Lund il 31 ottobre 2016 e la contestuale riabilitazione di Lutero), motivi inediti di speranza per il popolo del dialogo sono rintracciabili soprattutto nello stile di pontificato di Francesco: il che, beninteso, va ben oltre i pur rilevanti cambiamenti nel quotidiano che i media hanno puntualmente rilevato (penso, una volta di più, alla visione di Cristoph Theobald quando rilegge il cristianesimo come stile). Un atteggiamento, quello di Bergoglio, che, sancita la fine di quello che il cardinal Kasper definì un decennio fa a Sibiu il dialogo di facciata o delle coccole (AEE 3, 2007), sta in effetti favorendo – direi – l’avvio di un dialogo della franchezza e della collaborazione, e riportando l’incontro tra le Chiese cristiane al cuore dell’identità ecclesiale cattolica. Un dialogo la cui prospettiva sembrerebbe risiedere nell’unità nella diversità riconciliata, stando all’esortazione Evangelii gaudium (n. 230): fino ad adottare un linguaggio tipico del movimento ecumenico, ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma come poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità. 

Per il papa, dunque, l’identità cristiana non potrà mai essere compresa attraverso la negazione dell’altro, come nella storia delle Chiese è accaduto spesso, ma solo e costantemente in relazione all’altro, colto nella sua irriducibile diversità. Si tratta di un processo centripeto, in controtendenza alle dinamiche vorticosamente centrifughe caratterizzanti questo tempo della globalizzazione, che potrebbe significare molto anche al di fuori dei tradizionali recinti religiosi. E che troverà a Ginevra, mi arrischio a prevederlo, un’altra tappa, per nulla secondaria. 

* Brunetto Salvarani è saggista, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso, docente di Teologia del Dialogo alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

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