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Un “prete fatto popolo”. Il ricordo di Tilo Sánchez

Un “prete fatto popolo”. Il ricordo di Tilo Sánchez

Tratto da: Adista Notizie n° 32 del 18/09/2021

40790 SAN SALVADOR-ADISTA. Lo ripeteva sempre, perché glielo aveva insegnato il popolo: «lo Spirito Santo vola anche se spennacchiato». Nel senso, spiegava, che lo Spirito «produce sempre speranza. E fa sempre luce, anche nella massima oscurità». Ed è questa speranza che ci lascia il prete salvadoregno ed ex guerrigliero Rutilio Sánchez, scomparso il 4 settembre all'età di 77 anni. Un uomo «imprescindibile», come lo avrebbe definito Bertolt Brecht, uno di quelli, cioè, che «lottano tutta la vita».

Vero “prete fatto popolo” – proprio come mons. Oscar Romero, di cui era stato collaboratore – aveva scelto, durante la guerra civile che ha insanguinato il piccolo Paese centroamericano per 12 anni, di esercitare il ministero sacerdotale al fronte, in un'area della provincia di Chalatenango controllata dalla guerriglia del Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale, pienamente convinto che «la giustizia e la fedeltà» fossero proprio lì dove si trovavano «i combattenti del Fmln». «Vado a cercare la pecora ferita che si è persa sulla montagna», scrisse all’allora arcivescovo Arturo Rivera y Damas comunicandogli la sua decisione: «Intendo solo prendere la croce e seguire Gesù nei burroni, sulle colline, nelle trincee dove si vivono le beatitudini alla lettera e in spirito, creando le basi del Regno di Dio, un mondo in cui ci sia pane per tutti».

Ma l'esperienza al fronte era stata per Tilo, come lo chiamavano tutti, solo una logica conseguenza del suo impegno rivoluzionario. Punto di riferimento imprescindibile e amatissimo dell’organizzazione contadina – che aveva accompagnato fin dai suoi primi passi – era stato, secondo le sue stesse parole, «dirigente non ufficiale» delle Forze popolari di liberazione – poi confluite nel Fmln –, già al momento della loro fondazione. «Un giuramento – aveva poi raccontato – a me non lo chiesero mai, perché ero stato chiaro nel dire che mi sentivo, al tempo stesso, un rivoluzionario e un sacerdote».

E, a sorpresa, era stato proprio a quel prete considerato sovversivo, sfuggito a innumerevoli attentati, che l'arcivescovo Oscar Romero aveva chiesto di assumere la direzione della Caritas. Un incarico che gli aveva subito attirato l'accusa di politicizzare l'organismo e addirittura di consegnarlo alla guerriglia. «I poveretti a cui diamo un bicchiere di latte e un sacchetto di farina li stiamo in fondo diseducando. Con questi contadini organizzati avviene il contrario. La loro lotta educa tutti noi, anche lei!», spiegava Tilo a mons. Romero, con il quale aveva un rapporto non privo di tensioni ma indubbiamente profondo e fecondo. E Romero, pur segnalando “deficienze” e “imperfezioni”, lodava anche, nella nuova gestione della Caritas, la rottura degli “schemi tradizionali” e l'“ispirazione nuova”.

Sánchez aveva conservato la guida dell'organismo fino a circa una settimana prima dell’assassinio di Romero, quando, accusato di inviare cibo ai gruppi guerriglieri, aveva ricevuto dall'arcivescovo la richiesta di cedere la direzione. «Parleremo dopo», gli aveva assicurato Romero. «Il venerdì un amico giornalista mi scattò l’ultima fotografia insieme a lui. La conservo ancora. Tre giorni dopo venne assassinato. Non fu più possibile parlarne». Ci avevano provato a lungo a uccidere anche lui, fin dal suo primo incarico a Suchitoto, dove era arrivato nel ‘69. E da allora molte altre volte. Nel 1976 avevano collocato un esplosivo nella sua macchina, ma non erano riusciti a farla saltare. E nello stesso anno individui armati avevano sparato contro il suo veicolo, senza però colpirlo. Nel ‘77, un contingente di membri della Guardia Nazionale e di paramilitari di Orden aveva circondato la chiesa e la casa parrocchiale di San Martín allo scopo di catturarlo. Qualcuno tuttavia aveva fatto suonare le campane, richiamando gente in parrocchia. Ed era stato questo a salvargli la vita. Sempre nel ‘77 agenti della polizia nazionale avevano catturato un uomo che stava parcheggiando la sua macchina, credendo che fosse lui. Lo avevano trattenuto tre giorni e, dopo averlo torturato, gli avevano fatto firmare accuse false contro il «prete comunista».

«Alcuni amici non volevano che li andassi a trovare perché temevano che, per uccidere me, avrebbero eliminato anche loro e la loro famiglia», avrebbe confidato in seguito.

Rutilio Sánchez era rimasto a San Martín fino al 19 aprile del 1980, quando la situazione era diventata insostenibile. «Da quel momento la persecuzione nei miei confronti non ebbe interruzioni. Non potevo più rimanere, perché con il pretesto di cercare me torturavano e assassinavano altre persone». Per tutto quell'anno era stato in Europa come rappresentante all’estero del Fronte Democratico Rivoluzionario. Poi, nell’‘81, era tornato in El Salvador e aveva preso la via della montagna.

«Sono stato un prete guerrigliero», ha raccontato: «Quando arrivai, si era deciso che non avrei usato il fucile. E lo stato maggiore mi aveva assegnato da tre a cinque persone perché mi proteggessero. Cominciai a chiedermi se era meglio che cinque morissero per salvare il prete o il prete morisse per difendere quei cinque. La scelta fu facile. È così che presi il fucile. Non fui mai un combattente di prima linea, ma quando arrivavano le jeep dei soldati e bisognava sparare, io sparavo. Sparavo lontano, alla cieca, contro le jeep. Non so se abbia ucciso qualcuno. Ma non sento il peso sulla coscienza, perché i soldati venivano a ucciderci. Perché avrebbero ucciso anche gli anziani e i bambini».

Dopo gli accordi di pace del 1992 – quando le difficoltà del popolo non erano minori rispetto al tempo di guerra, e non c'era più un arcivescovo capace di prendere su di sé quel dolore, di denunciarlo ai responsabili e di convertirlo in speranza – Tilo aveva deciso di non assumere alcun incarico politico, puntando sulla crescita e lo sviluppo delle comunità. È il lavoro che in tutti questi anni ha svolto il Sercoba, Equipo de Servicio para Comunidades de Base, fondato da lui nel 1992 con l’appoggio di una missionaria laica italiana, Mariella Tapella, per ricostruire un punto di riferimento in ambito cristiano e contadino, rispondendo alle necessità più urgenti delle comunità in varie zone del Paese e sostenendone lo sviluppo integrale attraverso diversi progetti di autogestione. Nella convinzione, come ci aveva spiegato in una delle interviste rilasciate ad Adista (v. Adista Notizie n. 47/05) nel corso di questi anni, che «sono le piccole realizzazioni, con la partecipazione comunitaria, a raggiungere risultati duraturi». E senza mai dimenticare l'impegno politico contro l'invasione dei territori da parte del grande capitale, attraverso «progetti di morte», dalla costruzione di grandi dighe allo sfruttamento minerario, dalla deforestazione all'uso dei pesticidi, che per Tilo impedivano «di fare della creazione qualcosa di nuovo» 

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