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"Oltre le mele marce": uno studio sistemico sul clericalismo della Santa Clara University

SANTA CLARA–ADISTA. Nella formazione dei preti vine trascurata la dimensione sessuale, dei ruoli di genere e del potere: è quanto emerge da uno studio condotto dalla studiosa di etica sociale Julie Hanlon Rubio e dallo studioso di religione e teologo Paul J. Schutz dell'Università dei Gesuiti di Santa Clara, in California, pubblicato il 15 agosto. Intitolato "Beyond ‘Bad Apples’: Understanding Clergy Perpetrated Sexual Abuse as a Structural Problem & Cultivating Strategies for Change” (Oltre le “mele marce”: il clericalismo come problema strutturale e strategie per il cambiamento") i due esperti, sulla scorta di 300 interviste a preti e laici, esaminano gli atteggiamenti di preti e laici nei confronti del clericalismo, concetto che viene inteso come “struttura di potere che pone i sacerdoti al di sopra degli altri, concede loro potere e autorità eccessivi e limita la capacità di azione dei laici”.

A partire dagli elementi della sessualità, dei ruoli di genere e del potere, emerge come il clericalismo sia favorito da carenze nell'istruzione soprattutto per ciò che riguarda una sana intgrazione della sessualità. Non confrontarsi con la propria sessualità comporta il fatto che molti preti non sono in grado di comunicare in modo appropriato e di rispettare i confini: il 49% dei sacerdoti e il 73% dei seminaristi intervistati per lo studio hanno affermato che la repressione sessuale era stata raccomandata come strategia per affrontare la propria sessualità. Analoghe percentuali di preti e seminaristi hanno affermato di aver trovato difficoltà persino a parlarne.

Un altro fattore è la mancanza di discussione sui ruoli di genere. Il clericalismo si manifesta in forme di mascolinità che la ricerca associa alla violenza e al dominio, giungendo alla conclusione che una forma clericale di esercizio del potere è associata a stili di leadership autoritari e caotici.

Ciò che gli autori contestano è una visione individualista dell'abuso sessuale nella Chiesa come opera di singoli autori isolati. Serve invece un'analisi strutturale della vita ecclesiale, affermano, allo scopo di individuare strategie "anticlericali", che finora non hanno ricevuto sufficiente attenzione ma che possono consentire di affrontare e prevenire la violenza sessuale nella Chiesa.

Gli studiosi raccomandano specificamente di consolidare lo sviluppo di una sessualità matura nella formazione dei sacerdoti e dei laici, a partire da una discussione aperta sui temi inerenti, la cui mancanza è stata lamentata dagli intervistati. Esiste infatti una connessione tra la mancanza di competenze linguistiche sulla sessualità e l'abuso. Così come c'è una mancanza di approcci all'intimità e alla vulnerabilità, che non possono limitarsi alla definizione di confini per gli altri. C'è ancora troppo poca riflessione nella Chiesa su come le relazioni sono rappresentate nei media e nella cultura, su quali modelli negativi emergono e sugli ideali dannosi di mascolinità e femminilità. Per non parlare della necessità di non formare seminaristi in gruppi puramente maschili durante gli studi in seminario.

Dopo l'ordinazione ministeriale, molti preti – osservano i due studiosi – non sono in grado di mettere in campo strategie per coinvolgere maggiormente i laici e consentire loro di assumere maggiori responsabilità. Da un punto di vista teologico va dunque rafforzata l'immagine di preti meno orientati all'autorità. "Nuovi modelli di sacerdozio incentrati sull'empowerment dei laici, sulla cura reciproca, sulla trasparenza, sull'apertura e sulla vulnerabilità sono fondamentali per prevenire la violenza sessuale nella Chiesa", sottolineano gli autori, aggiungendo che questo comporta anche una riflessione sulle pratiche liturgiche, dal momento che la maggior parte delle persone trae la propria immagine del prete dalle proprie esperienze liturgiche.

Come detto, lo studio si è basato su quasi 300 intervistati, di cui circa la metà erano preti, o seminaristi o religiosi in formazione. Gli autori osservano criticamente che non hanno raggiunto il numero originariamente previsto di 600 intervistati a causa della resistenza registrata nelle diocesi e nei seminari. Sono quindi sovrarappresentati gli intervistati formati presso le istituzioni dei gesuiti. Dal confronto tra questi e i diplomati di altri centri di formazione sono emerse grandi differenze: la metà dei sacerdoti e seminaristi intervistati ha affermato che la loro formazione li aveva adeguatamente preparati a vivere il celibato senza negare la propria sessualità; tutti loro erano laureati nelle istituzioni dei gesuiti.

Ciò che colpisce nella valutazione è che tra il clero, il 58% degli intervistati ha dichiarato di non essere eterosessuale (25% omosessuale, 10% bisessuale, 11% altro o nessuna risposta), mentre l'85% dei laici intervistati si è descritto come eterosessuale e solo l'uno per cento non ha fornito alcuna informazione sul proprio orientamento. "La concentrazione degli uomini gay nel ministero ordinato non può essere ignorata, poiché la maggior parte dei sacerdoti non è in grado di parlare apertamente del proprio orientamento sessuale e alcuni di loro, consciamente o inconsciamente, scelgono il sacerdozio come un modo per evitare o sopprimere la propria sessualità, il che rende estremamente difficile vivere il celibato in modo sano", sottolineano gli autori.

 

*Foto Opus Dei Communication tratta da Flickr, immagine originale e licenza

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