
Torino /3. la presunta libertà di una vocazione forzata: storia di Betta, vittima dei tre preti
Tratto da: Adista Notizie n° 20 del 23/05/2020
40265 TORINO-ADISTA. Sono passati 4 anni da quando Betta, nome di fantasia, è entrata definitivamente e con modalità inquietanti nel monastero delle Figlie di San Giuseppe, a Genova. Solo tre anni prima, nel 2013, era felicemente fidanzata, studiava Giurisprudenza, era una ragazza serena che faceva l’animatrice in parrocchia, a Ciriè, nella cintura torinese. Nel settembre di quell’anno, però, era arrivato, come viceparroco, un giovane prete magnetico, disponibile all’ascolto, affascinante, dinamico, capace di parlare ai giovani, pieno di iniziativa, che suonava la batteria e amava la musica metal: don Luciano Tiso. La mamma di Betta ha ripercorso per Adista la vicenda di sua figlia, mettendo in luce le dinamiche e le distorsioni di un reclutamento, quando non autentico adescamento spirituale, portato avanti in modo sottile, subdolo e pervasivo dai tre preti torinesi oggi sotto esame da parte della Procura, dopo la denuncia di una ragazza che si è sottratta alla manipolazione (v. Adista Notizie nn. 17 e 18/20 e qui e qui in questo numero).
L’inizio dell’incubo
Sono bastati pochi ma intensi giorni di conoscenza, di dialoghi serrati e personali, e Betta comincia a cambiare, a farsi più apatica e distaccata, a tornare a casa sempre più tardi, nell’entusiasmo per la nuova conoscenza. A un ritiro spirituale per gli animatori, nel marzo 2014, don Tiso aveva invitato il suo amico don Damiano Cavallaro, l’altro “pupillo” di don Salvatore Vitiello, come lui fortemente orientato alla liturgia tridentina e al Popolo della Famiglia. Nella vita è importante fare gli incontri giusti, avrebbe poi dichiarato don Tiso nel 2017 al settimanale del Canavese La Voce (31/1/17): anche per lui, ragazzo all’epoca non certo di Chiesa, era stata «fondamentale l’amicizia col viceparroco della chiesa vicina, don Salvatore Vitiello», per veder nascere la propria vocazione. Una catena che si perpetua. Ma quella sera di marzo del 2014, don Cavallaro racconta la propria vocazione, tra le lacrime, con un coinvolgimento teatrale che colpisce profondamente Betta. Nel giro di poco tempo il fidanzato smette di frequentare la casa e improvvisamente lei cambia anche aspetto, indossando un abbigliamento che ha i tratti di una sobrietà religiosa: singolare, se non inquietante, in una ragazza di 21, 22 anni. Il racconto della mamma è straziante: don Tiso dice a Betta che ha una missione più grande da compiere, quella della vocazione religiosa, e che tutto il resto, fidanzato compreso, non è che un minuscolo dettaglio in confronto al grande disegno di Dio. Rinunciare a lui sarà la croce che dovrà portare. Ma di questa vocazione di Betta non fa parola con il parroco, che ha visto crescere la ragazza, don Guido Bonino.
Betta è visibilmente turbata, comincia ad assumere, in casa, un atteggiamento tra l’apatico e lo sprezzante. Appena può corre in parrocchia e vi passa tutta la giornata fino a tarda notte; l’Università non è più così importante. Sono passati solo pochi mesi dall’incontro con don Tiso e già a fine luglio la ragazza confida ai genitori, tra le lacrime, di aver deciso di abbracciare la vita religiosa. Lo confida a genitori che, se la vedessero felice, sarebbero felici con lei, essendo credenti impegnati. Ma lei non è felice. Il giorno dopo comunica la scelta ai fratelli: «L’ho sentita ripetere esattamente le stesse parole, come un discorso imparato a memoria, una cantilena», ricorda la mamma, «e questo ci ha molto inquietati». Anche perché presto emerge che ci sono altre ragazze irretite in questa caccia vocazionale, con le stesse modalità, nello stesso momento.
Da quel momento inizia un incubo per i genitori, che si rendono conto del condizionamento pervasivo che i tre preti esercitano sulla figlia, con messaggi continui su whatsapp e un controllo costante sulla sua vita. Il 24 agosto don Vitiello scrive a Betta che una delle altre ragazze ha deciso di abbandonare, di tirarsi fuori. E le ingiunge di andare sotto casa e prenderla e di impedirle di realizzare il suo intento. Di portarla via, «che un posto per lei lo si trova anche in dieci minuti». Ma l’azione di disturbo, per usare un eufemismo, non va a buon fine, perché interviene la mamma di quella ragazza. “Il demonio”, la chiama don Vitiello, e con il demonio, dice a Betta, non si deve parlare. Betta torna a casa sconvolta: “ho visto il demonio”, dirà.
Colloquio col vescovo Nosiglia
È a questo punto che i genitori di Betta si rivolgono al vescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia. Gli portano oltre 300 pagine di messaggi whatsapp, conversazioni tra i preti e la figlia, che sono riusciti a ottenere. C’è di tutto: compresa l’istigazione a mentire ai genitori (ad esempio tacendo sulla meta di un ritiro, non, come sempre, a pochi km da casa, ma a Roma), con la giustificazione che si sa- rebbe trattato di una innocua “restrizione mentale” dalla quale l’avrebbero poi assolta in confessione.
Da Nosiglia si sentono dire che evidentemente non sono stati buoni genitori, e che comunque farà un’indagine. Ma qualcosa, Nosiglia, deve aver subodorato, perché blocca, quell’estate stessa, il progetto di Vitiello di mettere in piedi una casa per le neo-candidate alla vita religiosa a Chivasso. Un territorio che ricade sotto la giurisdizione della diocesi di Ivrea, e dunque del vescovo mons. Aldo Cerrato, a casa del quale si era svolta una cena, presenti le ragazze. Ma il progetto di una “comunità” autonoma in quella forma, dunque, non va in porto.
Di fronte al suo evidente malessere, la famiglia offre a Betta l’opportunità di andare da una psicologa, «ma quando don Tiso lo venne a sapere – racconta la mamma – le disse che era libera di non andarci. Tutto era giocato sulla parola libertà: lei era libera di non obbedire alla famiglia, di non mettere in piedi una vita col fidanzato, di non andare dalla psicologa». E la ragazza interrompe subito le sedute.
A dicembre 2014, una mattina all’alba, Betta viene scoperta mentre sta per andarsene di casa. Per un incontro in monastero a Genova, dice. I genitori la accompagnano da don Tiso per una chiarificazione, ma la situazione degenera rapidamente, con Tiso che insulta la mamma di Betta e una reazione rabbiosa del papà. Alla fine, però, Betta riesce a partire, sotto la tutela del prete. I genitori ricevono una telefonata di Vitiello: «Ci diffidò dal dar loro fastidio», racconta la mamma, che gli rispose: «Voi avete rapito nostra figlia».
La depressione
Betta è da 4 anni in quel monastero. Un «monastero amico», come viene definito dai tre preti. La Comunità delle Figlie di San Giuseppe: una vita di semiclausura, interrotta dalle mansioni dell’asilo e della scuola elementare annessi. Sono tre le “amiche” finite in quel monastero (altre a Santa Maria di Rosano, in Toscana, nella diocesi di Fiesole, nonché al convento delle Missionarie della Divina Rivelazione in via delle Vigne Nuove a Roma, secondo quanto riporta Francesco Antonioli nella sua inchiesta su Repubblica, 5/5); e guarda caso in quel monastero, a celebrare vestizioni e professioni secondo la liturgia tridentina, c’è, ogni volta, puntualmente, uno “sponsor” altolocato di Vitiello, il card. Mauro Piacenza, genovese di nascita come mons. Nosiglia, suo coetaneo, penitenziere maggiore presso il Tribunale della Penitenzieria Apostolica in Vaticano, tradizionalista come i tre sacerdoti.
Betta non sta bene e la madre superiora la fa vedere da uno psichiatra. Per poi decidere di rimandarla a casa. Per recuperare un equilibrio, per finire gli studi, forse per ripensare il proprio percorso. Ma gli studi verranno interrotti, e Betta, una sera, mentre è fuori con i preti, finirà al pronto soccorso delle Molinette e lì resterà ricoverata per 15 giorni. I genitori non potranno conoscere la causa del ricovero, tenuti lontani e all’oscuro dal rigido cordone sanitario eretto dai preti intorno alla ragazza. Leggeranno solo molto più avanti, nella cartella clinica, che si era trattato di un episodio depressivo grave, la cui origine era imputata “alla famiglia”. Betta torna a Genova, dal febbraio 2016 definitivamente. Nel 2017 la prima vestizione, nel 2018 la seconda.
Di storie come questa di Betta ce ne sono diverse. Qualcuna delle ragazze è riuscita a tirarsi fuori; dei maschi, in seminario, dei quali si occupa don Vitiello, non si sa molto, se non che vengono mandati a studiare a Roma. Che vi sia un interesse di potere, legato alla possibilità di fondare una nuova congregazione, ma anche economico, pare fuori di dubbio: fin dai primi giorni Vitiello si informò da Betta sulla professione del padre e, conferma la mamma, tutte le ragazze “adescate” sono di famiglie benestanti.
È evidente che, trattandosi di giovani maggiorenni e non esistendo più il reato di plagio, la materia è molto scivolosa ma, benché i tre abbiano anche dei sostenitori – si sprecano gli apprezzamenti sullo spirito di iniziativa e la dedizione di don Tiso da parte di alcuni ex animatori (La Voce, 12/5) – c’è chi ha notato, pur nella segretezza che contraddistingueva i rapporti individuali del prete, l’invasività dei metodi di “reclutamento”: «Sicuramente c’è stata insistenza all’inizio del percorso di fede, e questo non l’ho condiviso», ammette il diacono di Ciriè Carlo Mazzucchelli (La Voce, 12/5).
Disagio e silenzio
In ogni caso, se a titolo personale qualche prete esprime con forza il proprio disagio (v. qui), si registra in generale ben poca voglia di parlare, all’interno delle istituzioni diocesane. «Credo che una delle cose più serie e gravi della situazione sia proprio la segretezza con cui le cose sono state portate avanti», ha commentato ad Adista il rettore del seminario maggiore don Ferruccio Ceragioli. «Quando non c'è trasparenza, tutto diventa possibile». Per il resto, si augura che della questione si parli il più possibile: «Mi ha fatto piacere che [la lettera dell’arcivescovo, ndr] rendesse pubblica la questione e chiedesse al clero di esprimersi su una questione così seria in vista di poter fare un discernimento. Mi pare bella anche la possibilità di discutere della situazione nel consiglio presbiterale e la volontà espressa dall'Arcivescovo di arrivare a "concrete e specifiche decisioni". Questa modalità di discussione aperta e che possa portare a scelte precise è anche la cosa che auspico. Spero anche che possano essere coinvolte le famiglie delle ragazze o dei ragazzi protagonisti della vicenda e forse sarebbe utile aprire la discussione anche nel consiglio pastorale perché tutte le componenti della Chiesa diocesana siano partecipi di un qualcosa che riguarda tutta la nostra realtà». Nel frattempo, i genitori di Betta si sono messi nelle mani dell’avvocata Francesca Violante, con una lunga esperienza nell’ascolto di vittime di abusi di ogni genere. Perché la verità venga in superficie.
* Torino e la Mole Antonelliana da Villa della Regina - foto [ritagliata del 2011] di Leonardo Pires tratta da flickr, immagine originale e licenza
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