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Verona, reintegrato Marco Campedelli. A testa alta

Verona, reintegrato Marco Campedelli. A testa alta

E' approdata alla conclusione che tutti si auguravano la vicenda che, a Verona, tra fine giugno e luglio, ha visto schierarsi su fronti opposti e, soprattutto, con stili opposti Marco Campedelli, prete veronese, insegnante di religione, teologo e narratore, e il vescovo uscente mons. Giuseppe Zenti; una vicenda che ha fatto scalpore e ha suscitato grande clamore e mobilitazione, solidale con Campedelli, perché determinata da dinamiche che si speravano ormai desuete nella Chiesa, con richiami autoritari all'obbedienza “filiale” e minacce di punizioni vescovili che hanno riportato ad altri tempi e ad altri contesti.

Ripercorriamo brevemente i fatti.

Campedelli aveva reagito con una lettera aperta all’intervento del vescovo Zenti nei giorni precedenti il secondo turno delle elezioni amministrative. Il vescovo aveva inviato al “suo” clero un'indicazione di voto, da inoltrare ai fedeli, in cui suggeriva tra le righe la scelta di un candidato, il sindaco uscente sostenuto dalla destra Federico Sboarina, sulla base dei “valori non negoziabili” di ruiniana memoria. Campedelli, nella sua lettera, contestava l’atteggiamento di tutela esercitato dal vescovo nei confronti del popolo cattolico, interpellandolo su alcune questioni di alto profilo culturale e politico, condivise da moltissimi in città. Immediata la vendetta di Zenti, che colpiva Campedelli nella sua veste di docente di religione al liceo Maffei, dopo un vortice iniziale di false smentite (da parte del direttore del Servizio diocesano per l’Irc don Domenico Consolini) e di smentite delle smentite (da parte del vescovo, che definiva Campedelli “non in comunione” con lui e dunque non idoneo all'insegnamento) che quindi confermavano il provvedimento; parole poi confluite in una nota diocesana (ancora a firma Consolini) che, come se nulla fosse successo, senza mai scusarsi per aver negato l’evidenza, invitava il sacerdote Campedelli all’obbedienza filiale, suggerendogli di adire le vie del “dialogo” con il vescovo, per trovare un’intesa, e di evitare una presunta “esposizione mediatica”. Esposizione in realtà non c’è mai stata: Campedelli si è tenuto in disparte, soprattutto quando la solidarietà della cittadinanza ha preso la forma di una mobilitazione generale: dalla petizione online per il suo reintegro, che ha ottenuto in pochi giorni quasi 9.000 adesioni, alla commovente manifestazione in piazza dei Signori, che ha visto riuniti i suoi studenti e tanti cittadini, a rimarcare che la battaglia non era da combattere in chiave personalistica, ma al livello dei temi importanti e qualificanti che aveva sollevato: della libertà di coscienza, del bene comune, della cultura, della formazione di una coscienza critica, di un’idea di Chiesa non autoritaria.

La conclusione che tutti auspicavano, nota già da qualche giorno e oggi pubblicata anche su L'Arena, è che Marco Campedelli ha riottenuto la nomina per l'insegnamento al liceo Maffei. E non certo grazie al “dialogo” suggerito dalla diocesi, che si sarebbe senz'altro svolto in chiave paternalista e autoritaria, con uno che cede e l'altro che concede, e che Campedelli ha rifiutato.

C'è stato, tuttavia, un dialogo. Da parte di Campedelli, un ribadire, con la schiena dritta, la forza delle idee, la visione di una Chiesa laica e adulta, fedele al Vangelo; il concetto di obbedienza – così ha sottolineato Campedelli – che è per lui in primo luogo ascolto: della coscienza, del Vangelo, degli studenti.

Da parte del vescovo, c'è stata la presa di coscienza di un clamore cittadino – e non solo – che ha manifestato il rifiuto netto di uno stile di governo ecclesiale autoreferenziale, improntato alla censura e alla punizione di chi “disobbedisce” per obbedire al vangelo, e insofferente verso chi educa (in senso etimologico) i giovani al pensiero critico e autonomo e all'azione condotta in un'ottica di comunità umana. E forse c'è stata la volontà di non lasciare, come ultimo ricordo del proprio mandato episcopale e come eredità al suo successore, mons. Domenico Pompili, il peso di un conflitto molto più che politico ma vissuto su un piano personale, come un attentato all'autorità del vescovo.

Tutto tranquillo, dunque, tutto tornato semplicemente allo status quo ante?

No. Questa vicenda ha segnato un prima e un dopo, per diversi aspetti. E, come ogni esperienza, va interpretata, per trarne i (tanti) frutti che ha portato, e capitalizzata.

In primo luogo, per lo stile con cui è stata condotta. Campedelli non ha fatto la parte del “cavaliere senza macchia e senza paura”, nemmeno dal punto di vista mediatico, e questo ha consentito di far emergere la rilevanza dei temi sollevati e di trasformare il conflitto in un'opportunità preziosa di riflettere sulle buone pratiche che possono diventare un patrimonio comune. Su quei temi adesso bisogna continuare a riflettere, per far avanzare conoscenza e coscienza e perché diventino sapienza comune e condivisa.

Sono temi che hanno a che fare con la laicità dello Stato e il suo rapporto con il fatto confessionale, in particolare cattolico; che hanno a che fare con il rapporto tra Chiesa e politica, e con quella “profezia politica” che emerge dal vangelo (che non è ingerenza della Chiesa nella politica del potere) su cui tante figure, della Chiesa e della cultura – da mons. Romero al card. Martini, da Hannah Arendt a Simone Weil – si sono interrogate. Sono temi che hanno a che fare con la visione – o il sogno, ancora evangelico – di una Chiesa-comunità democratica, orizzontale, nella quale esista un diritto al dissenso come espressione di ricchezza e di rispetto dell'Altro; con un bilanciamento dei poteri, della responsabilità e della partecipazione, che riduca l'ipertrofia della figura episcopale e diventi sempre più inclusiva, soprattutto rispetto a quella metà della Chiesa, femminile, che continua, di fatto, a essere di serie B, esclusa da ruoli decisionali e di responsabilità ecclesiale da una cultura ancora profondamente patriarcale.

Sono temi che hanno a che fare con l'insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, che richiede, da lunghissimo tempo ormai, una riforma, tanto nella direzione di una sua trasformazione (in Storia delle religioni, come tanti chiedono, ma anche per ciò che riguarda la questione del merito e dell'arbitrio episcopale nelle nomine dei docenti), quanto di un auspicabile approdo nelle università pubbliche della Teologia che, finché “reclusa” all'interno della cinta delle istituzioni cattoliche, non potrà diventare disciplina – e prassi – aperta al dialogo con la cultura contemporanea e con il mondo (come, ad esempio, in Germania).

Oltre ai temi generali, però, c'è uno specifico contestuale “veronese” che segna un prima e un dopo e che non va perduto. Non va perduto in primo luogo dalla Chiesa stessa, che non deve dimenticare né seppellire quanto è avvenuto, perché molto può imparare, dall'esperienza e dai propri limiti, emersi qui plasticamente.

Innanzitutto non va perduto il ruolo dell'opinione pubblica, che tanto peso ha avuto in tutta la vicenda. Un peso politico specifico anche rispetto alla Chiesa come istituzione. Questo peso – nell'evoluzione degli avvenimenti, ma anche nel determinare l'esito del conflitto – deve restare nella memoria del corpo, della cittadinanza come della Chiesa-popolo.

Poi, non va perduta l'importanza del non cedere mai al compromesso, alla soluzione di basso profilo, all'accomodamento; la dignità del tenere il punto, senza aggressività ma con fermezza. Questo stile, nella sua rivendicazione di una prassi ecclesiale sana, fondata sul confronto aperto, e su una comunicazione mai obliqua, rappresenta l'attacco più efficace a quella cultura clericale che, fondata su un malinteso e fuorviante concetto di comunione, non fa che coprire e necrotizzare la verità.

Non va perduto il ruolo della teologia come riflessione pubblica che “accade” nella vita reale delle persone, che si sporca le mani nel e con il quotidiano, liberata da quella frequente ritrosia e da quella subordinazione alla gerarchia – anche quando questa si macchia di abusi di potere – che ne compromette la parresia.

Occorre continuare a riflettere, anche, sulla dimostrata incapacità dell'istituzione di chiedere scusa pubblicamente per gli abusi di potere compiuti. Forse per questo occorre una consapevolezza profonda che non c'è (ancora). Non siamo certi che il vescovo Zenti abbia reintegrato Campedelli sulla scorta della maturata consapevolezza di aver compiuto un abuso di potere; è più probabile che abbia agito così perché stanco, triste, perché rimasto solo davanti a un corpo compatto che chiedeva giustizia e rispetto della libertà di pensiero. Ma tant'è.

Questa stessa mancanza di attitudine all'umiltà della Chiesa istituzione va registrata anche nei confronti della nostra testata, oggetto di affermazioni offensive sia da parte di Avvenire, sia da parte della diocesi di Verona. Alle nostre richieste bonarie a entrambi di fare pubblica ammenda rispetto all'accusa di scrivere falsità (quando il licenziamento di Campedelli veniva negato a oltranza, per poi essere invece dagli stessi confermato, il giorno dopo) nessuno si è peritato di rispondere. Segno di mancanza di onestà intellettuale.

Ma Adista vuole continuare a riflettere sui temi che la vicenda veronese ha sollevato. E lo farà affidando a Marco Campedelli una rubrica quindicinale sulle pagine di Adista Segni Nuovi, per tenere il filo di questioni essenziali, per credenti e non, per i cittadini tutti, per i giovani e per chi ha già una vita lunga alle spalle.

* In foto: la manifestazione degli studenti di Marco Campedelli a Verona, in piazza dei Signori, 1/7/2022

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