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UNA CHIESA CHE HA FUTURO

Tratto da: Adista Documenti n° 18 del 01/03/2008

Cap. 2 - Dio chiama sempre meno preti?

Una delle maggiori preoccupazioni dei vescovi di oggi è la carenza di preti. Attualmente molte comunità non hanno un ministro disponibile. L’Eucaristia domenicale non può più essere celebrata regolarmente ovunque. Il servizio presbiterale si limita all’amministrazione dei sacramenti, trascurando altre importanti attività pastorali. Il crescente sovraccarico di lavoro per i preti limita lo spazio della spiritualità e scoraggia i giovani a seguire la vocazione sacerdotale.

 

Le conseguenze della carenza di preti

Il numero di ordinazioni presbiterali in Austria dai primi anni ’60 è in costante diminuzione. Nel 1962 sono stati ordinati 172 preti tra diocesani e religiosi, nel 2003 sono stati 37, nel 2005 solo 32. L’emergenza aumenta, mentre l’età media dei preti non fa che crescere. L’incremento numerico dei decessi nel clero è inesorabile e non può in alcun modo essere compensato dal numero delle nuove ordinazioni. Solamente nell’arcidiocesi di Vienna vi sono 250 parrocchie senza prete. Il fenomeno è in costante ascesa, tanto che uno stesso prete spesso deve seguire più realtà parrocchiali. La situazione non cambia negli altri Paesi europei. A livello mondiale, la carenza di preti è ancora più grave (…). Il card. Oscar Rodríguez Maradiaga dell’Honduras, salesiano, tra i papabili all’ultimo Conclave, ha affermato, durante una conferenza all’ambasciata argentina presso la Santa Sede nel gennaio 2007, che nella sua diocesi un parroco può a volte seguire più di 100.000 fedeli. Le attività delle sètte in luoghi del genere aumentano a dismisura, tanto più che queste si prendono cura dei malati. “Un parroco che segue 100.000 fedeli non potrebbe mai essere presente al capezzale di un malato”. Ma ciò che pesa ancor di più è che, in alcune comunità africane ed asiatiche, i fedeli hanno la possibilità di prendere parte all’Eucaristia solamente due o tre volte l’anno.

La Chiesa cattolica si è a lungo vantata, a ragione, di essere la Chiesa dei sacramenti, in contrapposizione alla Chiesa evangelica che è quella “della Parola”. Oggi nelle nostre parrocchie, a causa della mancanza di preti, la domenica sempre più spesso viene svolto il solo Servizio della Parola, mentre, nelle parrocchie luterane di Vienna, ogni domenica si svolge la Commemorazione della Cena, o “Eucaristia”, come anche loro oggi la definiscono.

Questo stato di necessità ci obbliga a cercare nuove soluzioni. Quali possono essere?

 

La soluzione “pragmatica”

Dato che la situazione numerica non sembra poter variare nel breve periodo e che ad oggi non ci si possono attendere contributi significativi da parte della Chiesa istituzionale, ogni diocesi cerca la sua soluzione di ripiego. Le diocesi adattano le proprie strutture al numero di preti disponibili.

In Germania, Francia e Austria si progettano degli ampi spazi parrocchiali, nei quali si pensa di unire più parrocchie. Uno o più preti, coadiuvati da un team di laici adeguatamente preparati, guidano la pastorale dell’area da una parrocchia centrale. Si può argomentare che tutto ciò determini anche l’inesorabile decremento del numero di fedeli cattolici. D’altro canto, i mezzi di trasporto in Europa consentono di percorrere anche grandi distanze per andare a Messa.

I teologi pastorali possono obiettare che così verrebbe tolta l’indipendenza alle comunità più piccole che fino ad oggi ne avevano goduto. E che questo minerebbe sia il gusto per la vita delle persone che la vitalità delle celebrazioni liturgiche in loco. La gente oggi cerca sempre più una “abitazione” nella comunità in cui vive, poiché è sempre più isolata e priva di punti di riferimento.

In molte comunità la chiesa è l’ultima forma di socializzazione, in quanto unisce le persone nella gioia e nelle sofferenze. La liturgia rinnovata del post-Concilio spinge verso una partecipazione attiva nella celebrazione comunitaria. Ciò però presuppone una comunità in cui ci si conosca e luoghi di condivisione facilmente identificabili (…).

Nell’arcidiocesi di Vienna si è dato vita ad una iniziativa di parroci che ha esposto questo problema con chiarezza. Si tratta di parroci in esercizio e ben conosciuti che intendono spronare i vescovi a trovare nuove soluzioni nell’ambito della Chiesa ufficiale. Questo non sarà possibile senza estendere il servizio presbiterale a nuovi soggetti.

 

Altre soluzioni possibili

Negli ultimi anni ho avuto modo di osservare diversi sviluppi nella Chiesa, che mi hanno portato a intravedere la direzione giusta. Nella facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Vienna, ad oggi vi sono 1.200 studenti di teologia. All’epoca in cui io ero studente più di 50 anni fa, eravamo circa 200, di cui circa 180 furono ordinati presbiteri. Oggi, dei 1.200, al massimo 30 o 40 arriveranno all’ordinazione. Tutti gli anni, all’inizio del semestre, accoglievo i nuovi iscritti: incontravo i giovani e chiedevo loro perché avessero scelto teologia. Molti l’avevano fatto per diventare insegnanti di religione nelle scuole superiori, alcuni per coadiuvare i ministri nei servizi pastorali, molti, però, senza fini professionali, semplicemente perché erano interessati alla teologia. Solo pochi parlavano di sacerdozio.

Nell’autunno 2005 svolsi tra gli studenti un’inchiesta sul tema: “Perché così tanti studiano teologia e così pochi diventano preti?”. Tra il 17 gennaio e il 13 febbraio 2006, questa inchiesta venne condotta dal teologo pastorale Paul M. Zulehner. Durante un convegno sulla questione dei preti, tenutosi il 10 e 11 novembre 2006 presso l’Accademia Cattolica di Baviera, Zulehner, tra le altre cose, parlò di questa inchiesta. Nonostante questa non fosse esaustiva, furono comunque resi noti i risultati delle interviste agli studenti. Tra gli intervistati, solamente il 9% si era dichiarato effettivamente interessato al presbiterato definendosi “candidato al sacerdozio”. Il 29% si sentiva chiamato al presbiterato, ma forniva al contempo alcune ragioni per le quali avrebbe rinunciato all’ordinazione. In sintesi, si evidenziavano due ragioni fondamentali: l’attuale situazione della Chiesa e il celibato. Gli intervistati valutavano con preoccupazione lo sviluppo della Chiesa e parlavano di alcuni precetti morali difficili da vivere che, in nome della Chiesa, loro, in quanto preti, avrebbero dovuto rappresentare. Riguardo al celibato, non si trattava solamente di una scelta di vita personale: gli studenti mettevano in evidenza piuttosto una minore accettazione culturale del celibato, addirittura un deciso rifiuto all’interno della comunità ecclesiale. E questo rende la scelta del celibato ancora più gravosa.

Un’altra ragione per rinunciare all’ordinazione, secondo altri intervistati, era che non si sentivano maturi per svolgere il ministero presbiterale, preferendo le attività da teologi laici (…). Altri si preoccupavano del fatto che, considerando il loro scarso numero, i preti sono oggi sempre meno pastori d’anime. E un altro motivo addotto per la rinuncia all’ordinazione era la non accettazione della scelta da parte di familiari e amici.

Nell’elevato numero degli studenti di teologia, però, io vedo un potenziale utile alla Chiesa e alla sua pastorale, relativamente a nuovi soggetti a servizio della Chiesa sulla base della molteplicità di carismi presenti nella Chiesa primitiva. Secondo me, l’alto numero di studenti di teologia è senza dubbio un segno dei tempi. Cosa ci vuole dire Dio attraverso questo fenomeno? A cosa ha chiamato tutti questi giovani?

Un altro punto mi ha fatto riflettere seriamente. Molti optano per il diaconato permanente, solo pochi per il ministero presbiterale. (…) Crediamo forse che la chiamata al diaconato sia sostanzialmente diversa da quella al presbiterato?

Alcuni dei diaconi permanenti si sentivano pronti alla chiamata presbiterale ed erano stati in seminario per molto tempo. Poi hanno fatto un’altra scelta di vita, orientandosi verso altre opportunità lavorative.

Forse l’unico ostacolo all’ordinazione presbiterale dei diaconi permanenti è che sono sposati? Sembra proprio di sì.

(…) Le comunità accettano sempre più volentieri uomini sposati. L’ho sperimentato in più occasioni. Il parroco della parrocchia centrale greco-ortodossa di Vienna è, contemporaneamente, parroco in una “parrocchia di rito latino” nella bassa Austria. È sposato, come prevede il Diritto canonico di rito orientale, di millenaria tradizione. Sono stato più volte in questa parrocchia di campagna ed ho sperimentato come la comunità lo abbia accettato tranquillamente (insieme a sua moglie). Il pastore cattolico di rito rumeno-uniate di Vienna è, allo stesso tempo, parroco di rito latino. Anche lui è sposato e viene considerato un valido aiuto nella parrocchia di Vienna in cui opera.

Nella facoltà teologica dell’Università di Vienna c’è un docente esperto di riti del cattolicesimo orientale. Per questo motivo, sempre più preti della Chiesa uniate vengono qui per proseguire gli studi. Sono di grande aiuto nelle nostre parrocchie. Recentemente ha suscitato grande scalpore la notizia che, in un parrocchia viennese, un giovane cappellano austriaco aveva dovuto sospendere il suo ministero perché voleva sposarsi. La domenica successiva, al suo posto, era arrivato uno studente sposato della chiesa rumena-uniate per celebrare la Messa. La gente non ha compreso perché un uomo sposato dovesse sostituire il cappellano, il quale, proprio per la sua volontà di sposarsi, era stato costretto a sospendere il suo ministero. Non è stato facile spiegare che l’ammissione al presbiterato di uomini sposati è possibile secondo il Diritto canonico della Chiesa uniate, ma non secondo il Diritto Canonico di Rito Latino, dal momento in cui le leggi canoniche degli uni e degli altri sono promulgate dallo stesso soggetto legislatore, ovvero il papa di Roma. Del resto, già al tempo di Pio XII, alcuni pastori che passavano dalla Chiesa Riformata alla Chiesa Cattolica, continuavano a vivere nel matrimonio dopo la loro ordinazione con Rito Latino.

Poco tempo dopo si verificò un altro caso analogo nell’arcidiocesi di Vienna, con un pastore evangelico, che, ordinato presbitero cattolico, svolgeva il suo ministero in una parrocchia viennese: il suo matrimonio rimase valido a tutti gli effetti. Il 25 giugno del 1992, scrissi una nota sul settimanale Die Furche (…) dal titolo “Le comunità cercano preti”. Scrivevo in quell’articolo: “Se l’Eucarestia contiene in tutta la sua pienezza l’azione salvifica della Chiesa, ed è sorgente e vertice dell’evangelizzazione e dell’intera vita cristiana, ed esprime la vera essenza della Chiesa, come dice letteralmente il Concilio, non si può privarne l’intera comunità”. E mi chiedevo se, per questi gravi motivi, non fosse opportuno modificare i presupposti per il ministero presbiterale.

I media ricondussero questa mia affermazione ad un mero dibattito sul celibato. Poco tempo dopo, l’allora nunzio apostolico del papa, Donato Squicciarini, mi invitò ad un incontro sul tema. Ero andato spesso da lui e c’era un clima rilassato. Difese il celibato senza toccare l’argomento della indisponibilità dell’Eucarestia. Prima di venire a Vienna era stato per 10 anni nunzio apostolico in Camerun. Gli chiesi quindi come, in quei vasti territori, considerando l’ancora più evidente mancanza di preti sul territorio, venisse gestita la distribuzione dell’Eucaristia.

Secondo lui era tutto a posto. “Avevamo 100.000 catechisti che, in caso di necessità, la domenica celebravano il Servizio della Parola, e, ove possibile, distribuivano la Comunione precedentemente consacrata”.

Mi chiesi, sorpreso, di che tipo di tradizione ecclesiale si trattasse dal momento che il giorno del Signore prevede la celebrazione dell’Eucaristia. Di nuovo mi tornò alla mente: perché di questi 100.000 catechisti almeno alcuni non possono essere ordinati preti? Manca loro la preparazione necessaria, o il motivo fondamentale è sempre che in maggioranza sono sposati?

 

Preti del popolo in comunità vive

Ho di fronte a me un libro di Paul M. Zulehner, del vescovo sud-africano Fritz Lobbinger e del teologo dogmatico Peter Neuner, che propone una soluzione. Il libro si intitola “Preti del popolo in comunità vive”. Si tratta di un’arringa a favore dell’idea del prete di comunità. Potrebbe essere la nuova strada per vivere il ministero presbiterale. Gli autori prevedono nel futuro due modi di esercitare il ministero. Da un lato, un ministero tradizionale per i “preti diocesani”: coloro che hanno sentito la chiamata al ministero presbiterale, sono stati accettati e ordinati dalla diocesi, svolgono il loro compito impegnandosi per tutta la vita, con l’obbligo al celibato, mettendosi a disposizione delle necessità pastorali della propria diocesi. Dall’altro, gli autori propongono una nuova forma di ministero presbiterale detta dei “preti del popolo” o “preti della comunità”. Si tratta di persone appartenenti alla comunità (viri probati), scelti ed eletti dalla comunità stessa. La loro proposta è la seguente: “Vengono ordinati dal vescovo e destinati al presbiterato comunitario. Presiedono la Celebrazione Eucaristica e coordinano dall’interno tutta la comunità mantenendola il più possibile sulla linea della sequela del Vangelo”. I preti del popolo conservano la loro professione e svolgono il servizio presbiterale allo stesso modo dei diaconi permanenti. Gli autori sono consapevoli che una tale soluzione non possa essere perseguita solo da pochi vescovi o da singole Conferenze Episcopali. Diversi vescovi sono stati pregati di portare a Roma questa proposta.

Leggendo il libro, mi sono venuti in mente i casi concreti sperimentati durante una visita in un Decanato di campagna nella bassa-Austria. In quella zona quasi tutti i preti si occupano di due o tre parrocchie. In una delle parrocchie “senza prete” vive da anni un docente di religione insieme alla sua famiglia nella canonica altrimenti vuota. Ha studiato teologia e guida già da tempo un centro giovanile. Adesso è docente di religione in una scuola superiore di una cittadina limitrofa. Dà grande impulso spirituale alla vita comunitaria della sua parrocchia. È incaricato della cura del Servizio della Parola e della distribuzione della Comunione. Insieme alla comunità organizza in maniera creativa le feste religiose, in particolare durante il periodo di Avvento e di Quaresima. Mi sembra il modello perfetto di “prete di comunità”. Potrebbe continuare a svolgere il lavoro come docente di religione e svolgere il Servizio Eucaristico la domenica e i giorni di festa. (…)

 

I sacramenti sono per la gente

La responsabilità di accrescere il numero di preti è molto seria, in quanto, a causa della sempre più grave mancanza di preti, la celebrazione dei sacramenti diventerà sempre più rara.

Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Ecclesia de Eucaristia ha spiegato l’importanza di questo sacramento anche nel suo più specifico valore per la Chiesa tutta. Ha ricordato ai fedeli lo stretto obbligo di partecipare alla messa domenicale e ammonito i vescovi a tale riguardo. (…) Mi stupisco che questo dovere venga considerato così poco seriamente dalla Chiesa. Spero che molti vescovi a Roma reclamino e facciano presente di non essere più in grado di garantire a tutti la possibilità di partecipare alla Messa domenicale. Che io sappia, durante l’ultimo Sinodo dei vescovi, svoltosi a Roma nel 2005 sul tema dell’Eucaristia, anche i vescovi di Paesi in cui la mancanza di preti è più grave hanno fatto appello a nuove soluzioni in modo a malapena udibile. Ma sarebbe stata l’occasione per una giusta trattazione di un tema così rilevante.

Negli ultimi anni l’assistenza ai malati in Austria è sorprendentemente aumentata. Alcuni preti e assistenti pastorali costituiscono, insieme ad un numero rilevante di diaconi permanenti, un folto gruppo impegnato con i degenti e i malati. Il colloquio con i malati è di grande conforto, e la vicinanza della Chiesa, soprattutto in caso di malati terminali, reca un particolare sollievo. Ma la mancanza di preti si avverte particolarmente nel momento in cui non possono essere amministrati in numero sufficiente i sacramenti come la Riconciliazione e l’Unzione degli Infermi. Viene detto ai laici che potrebbero offrire ai malati il perdono dei peccati, ma ciò equivale al Sacramento della Riconciliazione? (…) Possiamo quindi privare i malati dei segni sacramentali?

Si pensa spesso che la discussione riguardante nuovi soggetti che possano accedere al presbiterato tratti esclusivamente l’abolizione del celibato. Questo oggi è ancora un argomento “tabù”. In realtà si tratta dei sacramenti a cui hanno diritto tutti i fedeli. La Chiesa deve valutare quello che le consentono i suoi mezzi e la sua tradizione. Ad oggi non si riescono a prevedere soluzioni pragmatiche per risolvere il problema della mancanza di preti e per soddisfare le esigenze primarie delle comunità in tempi brevi. La Chiesa universale, o quelle a livello continentale, dovrebbero cercare nuove strade. La sola preghiera per le vocazioni, per quanto importante, non è abbastanza. Dovremmo invece pregare affinché si riesca a capire e ad imparare come Dio, forse oggi diversamente dal passato, chiami gli uomini a svolgere un servizio spirituale. Io credo che ci stia già dando dei segni in molti modi. Deve forse tale necessità aggravarsi ancora perché noi finalmente ce ne occupiamo?

 

Cap. 4 - Realtà di vita ormai superate?

 

Ho sentito rivolgere molte critiche alla Chiesa. A volte le trovo giuste e le condivido. Spesso invece sono ingiuste e frutto di pregiudizi, incomprensioni e generalizzazioni. Sono molto turbato quando la gente si scontra con le regole della Chiesa, poiché sente che esse interferiscono con le sue situazioni di vita. Questo può essere spesso vero per quanto riguarda la questione morale coniugale (…).

Come può la Chiesa riacquistare credibilità su questo terreno? A quasi 40 dalla Enciclica Humanae Vitae questo problema avrebbe già dovuto essere risolto in ambito ecclesiale. La teologia morale nel frattempo ha presentato a livello mondiale nuove argomentazioni ai fini di un giudizio differenziato. I teologi morali, così numerosi, avrebbero dovuto essere ascoltati e non affrettatamente censurati. Le nuove frontiere della scienza umana (la cui enorme importanza era stata riconosciuta già in sede di Concilio) ci permettono oggi di vedere ancora più chiaramente cosa significhi realmente, rispetto alla contraccezione, il termine “naturale” nel rapporto sessuale tra i coniugi. La Chiesa avrebbe dovuto ascoltare con il massimo rispetto la voce degli stessi fedeli, le loro esperienze di amore coniugale nella vita reale. Avrebbe dovuto prima di tutto rifarsi al principio di “maternità e paternità responsabile”, ovvero lasciare che i genitori si assumessero liberamente questa responsabilità, dopo un attento e coscienzioso esame della propria situazione, delle proprie motivazioni, se necessario con l’ausilio di un medico, davanti a Dio, quindi anche sfruttando momenti di preghiera comune (…).

 

Cosa è lecito ai divorziati risposati?

Nell’ultimo decennio il numero dei divorzi è aumentato esponenzialmente. La maggioranza dei divorziati trova in seguito un nuovo partner. Questa seconda unione non è accettata dalla Chiesa, a meno che non ci sia stato un previo annullamento del precedente matrimonio. Per questo motivo, per i cattolici praticanti sorgono grandi difficoltà. Poiché essi vivono in uno stato di vita considerato peccaminoso dalla Chiesa, non possono avvicinarsi ai sacramenti. Non potrebbero fare da padrini/madrine di battesimo o di cresima, e neanche far parte del consiglio pastorale parrocchiale. Il loro rapporto con l’istituzione ecclesiastica è messo a rischio dalle regole. Il problema mina profondamente l’intera vita del credente, in campo religioso, familiare e perfino lavorativo. Il rapporto con i divorziati risposati è diventato uno dei problemi pastorali più tragici dell’ultimo decennio.

Nel 1978 ero da un anno vescovo ausiliare di Vienna e mi fu chiesto dal Consiglio Diocesano di riferire a che punto si trovasse la discussione sulla pastorale per i divorziati risposati. Le mie considerazioni furono in seguito pubblicate e, successivamente, raccolte in un libro che, per la sua copertina, venne chiamato “Il libretto rosso”. Circolò insistentemente la voce che questo libretto fosse il motivo della mia mancata successione, nel 1985, all’allora card. König, come molti invece auspicavano. Questo sicuramente non corrispondeva a verità.

Mentre preparavo il libretto, stavo scrivendo un libro dal titolo “Matrimonio e separazione: discussione fra cristiani”. Erano i documenti di un congresso all’Accademia Cattolica di Baviera tenutosi nel 1971. Tra i vari relatori c’erano anche i teologi dogmatici Joseph Ratzinger e Karl Lehmann. Nella mia relazione mi ero riferito spesso alle dichiarazioni di entrambi. Mi furono straordinariamente utili i criteri che Ratzinger aveva formulato con tutta la dovuta prudenza riguardo ai casi in cui alle persone in questione potesse essere concesso l’accesso alla comunione sulla base delle testimonianze del parroco e dei membri della comunità. Non si tratterebbe di una soluzione giuridica, ma di una scelta di coscienza.

Oltre a tali considerazioni, va dato anche un ampio sguardo alla prassi della Chiesa ortodossa. Questa era anche l’opinione dei teologi, cautamente formulata, ma fondata in coscienza.

Anche Walter Kasper già tentava di fare appello ad un consenso sulle dichiarazioni ufficiali di Ratzinger e Lehmann. Mancava comunque ancora una ratifica unanime del corpo ecclesiale. Il Sinodo dei vescovi che si è tenuto a Roma nel 1980 su Matrimonio e Famiglia poteva essere la circostanza adatta allo scopo. E a questo si aspirava. Joseph Ratzinger, divenuto intanto arcivescovo di Monaco-Freising, al rientro dal Sinodo, l’8 dicembre 1980, scrisse una lettera ai preti, ai diaconi e agli operatori pastorali. Nel testo egli faceva riferimento al Sinodo: “Per la cura pastorale di questi nostri fedeli tormentati, è desiderio del Sinodo che venga avviata una nuova e più approfondita analisi – in base alle considerazioni della prassi ortodossa – con l’obiettivo di rendere la carità pastorale ancora più visibile” (…).

Nella Familiaris Consortio, Giovanni Paolo II ha affrontato, fra gli altri, anche il tema dei divorziati risposati, analizzando il problema in modo sorprendentemente realistico (…). Il ricorso al sacramento della penitenza, che riapre la strada all’Eucaristia, può essere valido per loro solo se “si impegnano a vivere una vita completamente casta, che significa astenersi dall’atto sessuale, riservato ai soli coniugi”.

In molte conferenze nell’ambito dell’educazione degli adulti ho tentato di spiegare il magistero della Chiesa. Riguardo alla limitazione relativa ad “una vita completamente casta”, sono stato colpito dalla reazione, di incomprensione o di protesta, di molti cattolici impegnati (…). Tuttavia le comunità ecclesiali si sono sempre richiamate a questa disposizione magisteriale e per questo hanno sempre di fatto impedito alla maggior parte dei separati la partecipazione ai sacramenti. Correnti di opinione diversa sono state sempre respinte da Roma.

Nel luglio 1993 i vescovi tedeschi Oskar Saier, Karl Lehmann e Walter Kasper suscitarono grande scalpore con la loro lettera pastorale. Essi distinguevano tra le disposizioni dottrinali in vigore e “l’evidente complessità di ogni singolo caso”. In alcuni casi “il dialogo può aiutare due separati a trovare un accordo per una decisione responsabile, che deve essere rispettata dalla Chiesa e dalla comunità”. Nelle loro argomentazioni giungevano a conclusioni simili a quelle dei teologi dell’Accademia di Baviera nel 1971. Alla fine del 1993 venne inviata ai tre vescovi austriaci una lettera dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella quale si diceva che il loro documento non era pienamente conforme al magistero cattolico. Contemporaneamente la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva inviato una lettera ai vescovi del mondo, nella quale la dottrina in vigore veniva ulteriormente irrigidita. I vescovi dell’Alto Reno però scrissero alle loro diocesi una seconda lettera, illustrando i propri contrasti con Roma. Lungi dal ritrattare, essi chiarivano che nel loro documento alcune espressioni della Chiesa universale non potevano essere accettate e pertanto non potevano diventare norme vincolanti e della prassi pastorale. Ma promettevano, per il futuro, che si sarebbero sforzati di trovare una soluzione consensuale dal punto di vista teologico e pastorale.

Questa discussione ha ulteriormente evidenziato come sia pressante la necessità di riproporre tali questioni pastorali, e come questa porzione di Chiesa (le tre diocesi di Freiburg, Mainz e Rottenburg) fosse intenzionata ad assumersi seriamente questa responsabilità nei confronti della Chiesa universale. Nel frattempo due dei tre vescovi diventarono cardinali, Walter Kasper e Karl Lehmann. Un segnale rassicurante, che mostrò come, sebbene “la dottrina del tempo non sostenesse le loro tesi”, il loro avanzamento di carriera non fosse stato arrestato. Resta quindi la speranza che entrambi non dimentichino di trasmettere ai propri preti diocesani la consapevolezza della possibilità di una “soluzione consensuale”.

 

Quali altre soluzioni dovremo aspettarci per il futuro?

Nel campo della legislazione ufficiale, resta l’esempio della Chiesa Orientale. Anch’essa sostiene l’indissolubilità del matrimonio, ma in determinate circostanze, “per motivi pastorali e in considerazione dell’umana debolezza”, un secondo matrimonio è possibile. Questo secondo (o a volte terzo) matrimonio prevede una penitenza. Nel 1971 Joseph Ratzinger aveva accennato all’esempio della Chiesa orientale nel suo discorso di ringraziamento all’Accademia Cattolica di Bayern. Il Sinodo dei Vescovi di Roma del 1980 volle approfondire gli studi sul tema per la Chiesa di rito latino. Oggi l’ecumene sembra essere sulla linea della Chiesa Orientale. (…) Questa prassi della Chiesa Orientale era conosciuta anche al tempo del Concilio di Trento. E stranamente non subì alcuna condanna.

Un’altra possibile soluzione è agire secondo coscienza. Nell’assemblea austriaca “Dialogo per l’Austria” che si è tenuta dal 23 al 26 ottobre 1998 a Salisburgo, furono formulate alcune proposte, accolte poi con 233 voti su 269: “Le persone che, in base a una decisione di coscienza responsabile, e dopo attento esame - magari dopo un colloquio con un prete – volessero accostarsi alla comunione, meritano pieno rispetto. Per poter fornire adeguata guida e consiglio, i ministri incaricati devono essere adeguatamente preparati”. Al contempo i vescovi austriaci furono pregati di sostenere e tenere in considerazione il voto espresso nel Sinodo del 1980 sulla prassi della Chiesa Orientale. Nell’elaborazione della proposta del “Dialogo per l’Austria”, la Conferenza Episcopale Austriaca si era impegnata perché tale proposta venisse accettata a Roma, ma poi aveva riportato semplicemente le prescrizioni magisteriali romane. Nello stesso anno, invece, nella Diocesi di Bolzano e Bressanone fu pubblicata una dispensa a supporto dei preti che dovevano predicare alle coppie divorziate e risposate, redatta da un gruppo di esperti e dai vescovi della diocesi, dove si auspicava “che la decisione ultima in merito alla partecipazione all’Eucarestia venisse presa sempre secondo coscienza personale, previa conoscenza degli aspetti generali del problema, in maniera scrupolosa e informata”. Dove è chiaramente comprensibile la distanza tra le norme oggettive e la coscienza soggettiva.

(…) Purtroppo non si può trarre alcuna soluzione a livello di Chiesa universale da questa esperienza diocesana, ma questa presenta il problema in tutta la sua ampiezza e rivela il coraggio di sollecitare e persino di rendere concreta, attraverso tentativi condotti dalla Chiesa locale, una soluzione a livello di Chiesa universale.

In alcune parrocchie non si tratta solo di gestire l’acces-so ai sacramenti, ma ci si interroga anche in che modo il secondo matrimonio, convalido dal punto di vista canonico, possa ricevere la benedizione.

Nel 2006, l’allora ministro delle Finanze austriaco, dopo essersi sposato con rito civile in un vigneto della Bassa Austria (il matrimonio religioso non era possibile), chiese ed ottenne una benedizione dal parroco, previa informazione al vescovo competente.

Nelle comunità parrocchiali incontro spesso membri impegnati che sono divorziati e risposati. Una donna mi ha detto che intendeva impegnarsi nella preparazione al matrimonio in parrocchia, poiché, dopo la fine del suo primo matrimonio, e grazie alla nuova consapevolezza generata da una seconda relazione, era in grado di valutare meglio di altri le gioie e le sofferenze di un matrimonio. In alcune parrocchie non si fa più neanche lo sforzo di chiedere lo stato di famiglia ai padrini/madrine di battesimo (…).

 

L’Aids incide sulla vita matrimoniale?

L’Aids è un terribile flagello per l’umanità. La regione più colpita è l’Africa. La Conferenza Ecumenica Africana del giugno 2004, a cui hanno preso parte 200 membri di 39 Stati africani – presente anche la Chiesa cattolica – ha rivolto un appello allarmante: “l’Aids è un silenzioso genocidio”. (…)

Non si tratta di un castigo di Dio, ma rappresenta certamente un’occasione per riconsiderare abitudini sessuali troppo disinvolte. Al contempo però è nostro preciso dovere proteggere il genere umano dal contagio. La preoccupazione della Chiesa si è concentrata fino ad ora soprattutto sulle coppie di coniugi, in cui uno dei due è sieropositivo. I vescovi africani hanno ripetutamente affermato la propria convinzione che in questi casi debba essere consentito l’uso del profilattico.

Da Roma ci sono stati solo rifiuti (…). Per prima cosa Roma dovrebbe riflettere, se, in casi del genere, l’uso del profilattico non sia “il male minore”. Ad ogni modo bisogna fermare il contagio, assumendosi la responsabilità di seguire il quinto comandamento, più che il sesto. In questo modo la Chiesa mostrerebbe comprensione per persone in condizioni di vita estremamente gravose. Essere contagiati dall’Hiv significa anche caricarsi di un peso psicologicamente insostenibile. Anche in questo caso i credenti necessitano di tutto l’aiuto possibile. E nel matrimonio non è certo bene che uno si senta tagliato fuori come un lebbroso, ma piuttosto è importante che questo aiuto passi anche attraverso l’amore e la passione coniugale. Quale enorme peccato sarebbe negare questo!

Speriamo che la Chiesa smetta di precludersi minacciosamente queste realtà di vita. “L’uomo è la via della Chiesa”: questa frase di Giovanni Paolo II viene spesso citata, a ragione. Essa vincola tutti noi ad aiutare gli uomini a realizzarsi, in una Chiesa che sappia comprendere e curare, e lasciar vivere.

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