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"Parola e... Parole": il testo della "restituzione" sulla parabola del Samaritano

Pubblichiamo qui di seguito, a mo' di esempio sia del taglio che del contenuto dell'iniziativa - la "restituzione (una sorta di resoconto di quanto è stato detto nel corso dell'incontro. Come in un collage, sono messi insieme frammenti significativi degli interventi dei singoli partecipanti, parole e pensieri espressi da ciascuno e ciascuna) di uno degli incontro di "Parola e... Parole", il gruppo esperienziale nato dall'iniziativa di Cammini di Sperana e Nuova proposta rivolto ai genitori Lgbt ed ai genitori di persone Lgbt (che abbiamo presentato in questa notizia). L'incontro, svoltosi il 19 marzo scorso, era incentrato sulla celebre parabola del samaritano. Il brano evangelico viene riportato in calce al testo della "restituzione".

 


E riprendiamo il nostro cammino con la domanda: “Chi è il mio prossimo?” Lo chiede un dottore della legge a Gesù nel racconto del Vangelo di Luca con cui ci confrontiamo (riportato di seguito). Tra gli ebrei c’erano risposte diverse a questa domanda: il prossimo da amare era chi aveva la stessa religione? Solo il vicino? O anche lo straniero? Su un punto però tutti erano d'accordo: i samaritani non erano prossimo da amare. Tra gli ebrei ed i samaritani c’era una grande inimicizia per motivi di religione e di etnia. Le samaritane erano considerate portatrici di impurità, ed, essendo come donne all’origine della vita, erano anche all’origine della contaminazione. L’impurità da loro si contagiava a tutti. I samaritani erano gli intoccabili.  La risposta di Gesù alla domanda dello studioso della legge è nella parabola: parabola del buon samaritano o parabola del samaritano? In realtà la parabola non dice che il samaritano era buono, la parola “buono” non c’è nel testo. Non si sa niente della sua vita di prima, né di quella di dopo, si sa solo che in quel momento, sulla strada da Gerusalemme a Gerico, fa qualcosa che rimanda e da senso alle parole di Gesù, quando diceva: “il Regno di Dio è in mezzo a voi”. Se c’è una categoria di persone per le quali sentiamo che quasi quasi è meglio morire che essere salvati da una di loro, forse abbiamo trovato i nostri samaritani. E se poi succedesse che qualcuno di loro mi salvasse, meglio raccontare quella storia come la storia del buon…..

Aiuta quella parola “buono”. A non mettermi in discussione. Vabbè uno era buono, forse per sbaglio, ma tutti gli altri sono e rimangono spregevoli, persone da cui stare alla larga. Ma quella parola nel Vangelo non c’è. Peccato. Sarebbe stata un’utile scappatoia per il malcapitato dottore della legge e per me, rispetto ai miei samaritani. E se il samaritano non era buono, il sacerdote ed il levita non erano cattivi. Avevano solo i loro impegni. Importanti, forse al servizio della comunità. Per questo non si fermano. Non possono. Non riescono a mettere da parte i loro programmi. C’è chi nel gruppo si identifica con loro: se riesco a fare tante cose, ed anche buone cose per gli altri, nel campo del volontariato, è anche grazie alla mia capacità organizzativa. L’agenda è importante per me. I programmi si possono cambiare, questo sì, ma buttarli in aria in un attimo, senza nemmeno ragionarci su, come fa il samaritano, che pure non si trovava su quella strada in cerca di malmenati da soccorrere, è un’altra cosa!     E c’è chi aggiunge: forse proprio perché escluso ed emarginato nella società del suo tempo, il samaritano si è riconosciuto in quell’uomo ferito e abbandonato e ha sentito l’impulso di fermarsi e di soccorrerlo. Non è sulla categoria buono-cattivo che si gioca il racconto di Gesù. Il punto è un altro: è quanto siamo disponibili a buttare via la nostra agenda, a scombinare i nostri piani, anche i più buoni e sani, quando inaspettatamente inciampiamo in qualcuno che è ferito, ferito dentro o sul corpo, e che ci chiede di fermarci, o forse che nemmeno ce lo chiede.  Qualcuno osserva che Gesù avrebbe potuto raccontare la parabola in un altro modo, poteva essere un ebreo a soccorrere un samaritano. Già questo sarebbe stato estremamente difficile da accettare per il dottore della legge. Ma Gesù fa di peggio.   Il samaritano diventa il modello da seguire: “Vuoi capire cosa significa amare il prossimo? È il samaritano il modello da seguire, va e fa anche tu come lui”. È troppo, è paradossale, una sorta di pugno nello stomaco per lo studioso della legge. È come se Gesù dicesse a qualche partecipante convinto del world congress of families, che si svolgerà a Verona: “Vuoi sapere che significa amore e rispetto in una famiglia? Impara dalle coppie gay, dalle famiglie arcobaleno. Loro sono il modello da seguire!”   La mamma di un ragazzo gay sottolinea che Gesù non chiede tolleranza per i samaritani: neanche io chiedo tolleranza, quello che voglio per mio figlio è altro, è molto, molto di più. Voglio contagiare gli altri con la bellezza che vedo io. Pensando di aiutare il papà – so che per i papà è più difficile… - un giorno gli ho detto: “Sei mai entrato (con la mente) nella stanza da letto del nostro primo figlio (eterosessuale)? Perché allora dovremmo entrare nella stanza da letto dell’altro?” Questo gli ho detto… ma poi la mia mente ha fatto altro. E ci ha fatto capolino in quella stanza. I mobili sono riciclati, sono quelli di quando ci siamo sposati noi. Hanno visto il nostro amore dei primi anni insieme. Lì sono stati concepiti i nostri figli. Lì abbiamo giocato con loro, quando gli concedevamo di salire sul lettone. Ora quella stanza fa esperienza di un altro amore, quello di mio figlio e del suo compagno. La mia mente ci è entrata in quella stanza e quello che ha visto era bello. Di questa bellezza voglio essere testimone. La tolleranza non voglio sottovalutarla. Ma la lascio a chi non sa andare oltre gli schemi, e si impedisce di vedere la bellezza che c’è nell’amore. In ogni storia di amore. Nel gruppo emerge la testimonianza di chi continua a sentirsi una samaritana, un’esclusa: mia madre non è riuscita a “vedermi”, con le storie che la mia vita portava, e ad accogliere quella bambina ferita e abusata. “Se volevi proteggermi, dovevi non dirmelo” – è stata la sua risposta. Il mio io non c’era, è stato distrutto. Una ben altra immagine di famiglia,

dunque! Rispetto alla famiglia che accoglie, che si stringe intorno al figlio. Eppure ho costruito tanto anche con un io che non riusciva a venire fuori. Nonostante quella voce svalutante dentro di me. Ora però è arrivato il momento che quell’io esca fuori. Il momento di prendere per mano quella bambina, lasciata sola per troppo tempo sulla banchisa. Il momento di esserci non solo per gli altri, ma anche per me. Belli appaiono ad una di noi due uomini che fanno l’amore, come due donne che fanno l’amore, proprio perché uguali nei loro corpi. Eppure nonostante questa bellezza così profondamente percepita, lei da insegnante non si può permettere di vivere alla luce del sole il suo essere lesbica. Un’attrice, una ballerina possono permetterselo, un’insegnante no, deve programmaticamente rimanere nei ranghi.  La testimonianza vivente dell’amore, della tenerezza della propria figlia verso la sua giovane compagna apre il cuore alla gioia e alla speranza, al di là dello stereotipo della famiglia e dell’amore “normali”. L’ho riconosciuto l’amore tra loro, perché anch’io l’ho vissuto. Come si può pensare, ci si chiede, di togliere il diritto ad amare in nome di una presunta normalità? Sembra quasi una banalità accettare una cosa così semplice, eppure è così difficile! Bisogna conoscere per capire, vivere le situazioni, è questo che cambia tutto. Che dire poi, cosa pensare di quel padre che dichiara candidamente di poter accettare tutto, ma non un figlio drogato o omosessuale? Il pensiero nel gruppo si sposta verso quelle madri che si trovano nella terribile condizione – quella sì terribile - di dover amare un figlio assassino. Cosa possono provano dentro di loro? Possono davvero accettare? Possono davvero perdonare? Tenere a bada le proiezioni dei propri desideri sui figli è davvero difficile per chi a sua volta ha subito le medesime proiezioni su di sé da parte dei genitori. Le mie figlie fanno fatica con me ad essere come sono, a scardinare le mie proiezioni su di loro. Forse possiamo chiedere a noi stesse, a noi stessi almeno di riconoscere le difficoltà ad accogliere le paure e le fragilità dei propri figli. Forse entrare in contatto con il dolore profondo di persone molto care ha consentito di contattare anche il proprio dolore nel percepirsi imperfetta come madre, nel riconoscersi simile al levita e al sacerdote, che non sanno scombinare i propri piani. E diversa dal samaritano che si ferma, presta soccorso e non si aspetta alcuna gratitudine dalla persona di cui si è preso cura. Io non ci riesco a fermarmi. Non so mollare tutto e prendermi il tempo per ascoltare le mie figlie. Qualcosa scricchiola dentro di sé quando il proprio figlio rivendica l’autonomia: ”Quando tornerò a casa dopo l’Erasmus non sarà più come prima”. Tanto più scricchiola quando l’inciampo è rappresentato dal coming out di quello stesso figlio. Un’incrinatura a quello che sembrava un percorso semplice e fortunato di una famiglia.  Qualcuno nel gruppo ha identificato nel samaritano il proprio compagno, incontrato nel momento in cui sembrava proprio impossibile amare nella libertà. L’amore arriva in modo inaspettato, quando si era come consolidata l’abitudine ad elemosinarlo. Eppure nonostante questo evento felice abbia del miracoloso, continua ad essere invasivo e doloroso dover giustificare ai genitori i propri sentimenti, i propri gesti, i propri comportamenti, in una parola il proprio amore. Accettare il rapporto omosessuale è difficile, non solo per i papà, lo è anche per i gay. Chi è il mio prossimo? Forse proprio i miei genitori e la madre chiesa. Il rapporto con i miei genitori scappa un po’ da tutte le parti, e la madre chiesa… poteva fare qualcosa in più per me…

E c’è chi aggiunge: la crescita delle persone, la conversione, anche quella della chiesa, non sempre avvengono in modo lineare, spesso attraversano sentieri tortuosi, devono fronteggiare forti scossoni, e quindi vivere grande sofferenza. Tutto questo non va contrapposto all’amore. A volte amare non significa rendere la vita facile a chi si ama, può significare provocare sofferenza. Gesù non ha amato solo gli emarginati, ha amato anche chi emarginava, ma in un altro modo, li ha amati scomodandoli e creando scossoni nelle loro vite. Io - continua a raccontarsi qualcuno di noi - non mi sento il samaritano, mi identifico al contrario con la figura del giustiziere della notte. Davanti all’uomo ferito sarei d’istinto andato alla ricerca degli aggressori, di chi l’aveva ridotto quasi in fin di vita. Mi trovo sul mio posto di lavoro a dover gestire dinamiche pesanti fra gli studenti. Fare il paladino della giustizia è di competenza di un bravo educatore? O bisogna saper prendere più distanza? Cosa significa rimanere me stesso, rimanere sanguigno come sono sempre stato, e nello stesso tempo riuscire ad essere compreso dai miei studenti? Come comportarsi davanti ad un ragazzo che ha fatto coming out in classe? Un senso di profonda gratitudine verso il proprio padre anima chi si sente lontano da ogni forma di macismo, e pensa che questo gli venga proprio dal padre. Un grazie particolare è circolato nel gruppo verso chi ha avuto il coraggio di sdoganare parole-tabù come la parola penetrazione, uscendo allo scoperto, testimoniando non solo l’oppressione subita per anni, ma anche la scoperta della bellezza, della felicità e della positività vissute attraverso l’esperienza omosessuale.  Forse però, fa osservare qualcuno, non bisogna sottovalutare il nemico. La cultura espressa dal manifesto di chi ha organizzati il congresso internazionale delle famiglie a Verona non è poi così marginale nella nostra società, per non parlare delle società latino-americane.  Il cammino per uscire dalle catacombe, dove ci hanno spinti e dove spesso seguitiamo a stare, è ancora lungo. Ma da lì dobbiamo uscire tutti e tutte.

 


Luca 10,25-37 Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese:  «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».

 

 

 

 

 

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