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L'ALIENO È FRA NOI

- La creazione di africom, comando militare usa nell’area maghrebina e sub-sahariana, suscita vive polemiche in Africa

Tratto da: Adista Contesti n° 72 del 20/10/2007

Questo articolo  di  François Soudan è stato pubblicato sul settimanale  pubblicato a Parigi “jeune afrique” (30/9/2007). Titolo originale: “Au secours! Les américains débarquent…”

 

Sul sito internet ufficiale del Dod (il Dipartimento Usa della Difesa), alla rubrica “United States Africa Command”, in questi giorni attira l’attenzione un’offerta di impiego quanto meno sorprendente. “Se siete alla ricerca di una nuova opportunità per la vostra carriera, vi invitiamo ad unirvi ad un team storico. Un soggiorno presso l’Africom vi offrirà la possibilità di arricchire il vostro curriculum professionale. Africom è la vostra chance di fare la differenza lavorando all’interno di un’organizzazione efficiente e creativa. Africom, un nuovo stile di comando”. A pochi giorni dal suo lancio, previsto per inizio ottobre a Stuttgart, e a meno di un anno dall’entrata in funzione operativa di Africom sul continente, il Centro di comando militare Usa per l’Africa (Africom) ha avviato il reclutamento. Nominato a capo di questa nuova struttura, la cui creazione è stata annunciata da George W. Bush nel febbraio scorso, il generale afro-americano William “Kip” Ward, 58 anni, spera assai che questa campagna di seduzione lanciata presso i suoi compatrioti abbia più successo di quella che porta avanti da vari mesi, di capitale africana in capitale africana, per scovare un Paese che accolga il suo futuro quartier generale. Anche se il continente è probabilmente la regione del mondo in cui attualmente si manifesta meno il sentimento antistatunitense (soprattutto nella regione subsahariana), fino ad oggi solo un Paese ha offerto ufficialmente i suoi servizi: la Liberia. In termini di interesse strategico, logistico e finanziario – tutto o quasi è da ricostruire – si tratta senza dubbio della scelta meno interessante per il Pentagono, che conta di installare un quartier generale “pesante” (fra i 400 e i 700 uomini), da cui dipenderanno svariati punti d’appoggio dotati di infrastrutture preposizionate – carburante, munizioni, ecc. –, il tutto secondo le norme dell’Us Army.Di fronte al fuoco di sbarramento diplomatico scatenato dal Sudafrica e, in minore misura, dall’Algeria e dalla Libia, l’Africom fa fatica ad attecchire. Al punto che il Pentagono ha dovuto posticipare a febbraio 2008 il termine del processo di selezione del Paese ospite. Gli anti-Africom hanno ricevuto, a fine settembre, un sostegno inatteso da parte del vecchio presidente della Banca Mondiale, falco apparentemente pentito dell’amministrazione Bush, Paul Wolfowitz. “Non sono convinto che Africom, la cui creazione mi ha sorpreso, sia una buona idea”, ha spiegato. “Capisco perfettamente che gli africani, che non hanno dimenticato il sostegno che in passato abbiamo dato a dittatori tipo Mobutu, esprimano reticenza sulla presenza di soldati Usa sul loro territorio”. Se si aggiunge lo scetticismo della Francia e i sospetti della Cina – che crede di leggere in questo progetto una volontà di ostacolare le sue ambizioni commerciali sul continente –, come anche le proteste di tutti coloro per i quali Africom è un mezzo per trascinare l’Africa nella guerra mondiale contro il terrorismo, si vedrà che la misura è colma. Chiaramente gli statunitensi, che hanno sempre difficoltà ad ammettere fino a che punto la loro politica estera sia impopolare, non si aspettavano una simile accoglienza.Rinunceranno allora ad Africom? “Neanche per idea”, si risponde a Washington. A conferma della fermezza della decisione americana, vi è la lunga perorazione a favore di questo progetto recentemente diffusa dal Pentagono e firmata dalla segretaria aggiunta alla Difesa per gli Affari africani, Teresa Whelan. Al paragrafo “Africom, miti e realtà”, si può leggere che l’Us Army non ha l’intenzione di installare nuove basi permanenti nel continente, che la sua presenza sarà “relativamente modesta e discreta”, che Africom comprenderà una forte componente civile ed umanitaria, che la preoccupazione di proteggere le fonti di approvvigionamento di energia degli Stati Uniti non è fondamentale e che l’insieme del progetto risponde a un disegno di razionalizzazione dei vari comandi americani nel mondo. Unica autocritica: la signora Whelan ammette che Africom avrebbe dovuto essere operativa... prima. Girando la pagina, tuttavia, qualche riga del “foglio di spedizione” di Africom mette la pulce nell’orecchio: l’Us Africa Command, si può leggere, “potrà, su istruzione, condurre operazioni militari per respingere aggressioni e rispondere alle crisi”. Il diavolo si nasconde sempre nei dettagli...In realtà, dietro l’aspetto “Peace Corps” dell’operazione, c’è un approccio più bellicoso e una volontà di dotare il continente di informazione, di presenza diplomatica (gli Stati Uniti hanno oggi meno ambasciate in Africa di quante ne abbia la Cina) e di capacità di azione militare veicolata dal progetto Africom. “La visione” tipica del dopo-11 settembre 2001 e già sperimentata – con il successo a tutti noto! – in Medio Oriente, che consiste nel legare controterrori-smo, preoccupazione umanitaria e promozione della buona governance in un quadro strategico unificato, serve da copertura alla continuazione e al rafforzamento di una sensibile espansione militarista negli ultimi sei anni. All’installazione di una forte base permanente a Gibuti sono seguite l’“Iniziativa pan-Sahel”, gli interventi della Cia in Somalia contro i Tribunali islamici (che si sono manifestamente arenati), la trasformazione dell’Etiopia del neo-dittatore Mélés Zenawi in centro di detenzione e di interrogatori di presunti jihadisti, l’installazione  di una potente stazione d’ascolto a São Tomé, negoziati su agevolazioni navali e aeree con una mezza dozzina di Paesi, dal Mozambico alla Mauritania, come pure la costruzione di nuove ambasciate secondo le norme di sicurezza post-11 settembre. I programmi di formazione delle forze armate africane per il mantenimento della pace degli anni ’90 condotti da istruttori Usa sono oggi volti all’addestramento di forze speciali a caccia di terroristi. Questa espansione a tutto campo, come pure la necessità di proteggere i pozzi di petrolio del Golfo di Guinea (fra il 15 e il 20% delle importazioni americane di greggio oggi, fino al 35% nell’arco dei prossimi quindici anni) rendevano imperativo, agli occhi degli strateghi del Pentagono, l’istituzione di un comando unico e specifico per tutto il continente, che dipendeva fin qui da tre direzioni differenti (Eucom-Us European Command, Centcom-Us Central Command e Pacom-Us Pacific Command).Ma l’Africa ha qualche interesse a vedere i soldati Usa sbarcare in forze sul proprio  suolo? Se esiste, questo interesse non può che essere effimero e puramente finanziario per il Paese che accetterà di ospitare il quartier generale di Africom. Perché, per il resto, non si vede bene quale fattore di pace e di stabilizzazione, quale pegno di prosperità futura potrebbe rappresentare questa presenza Usa pesante, vistosa e unilaterale. Washington non ha consultato nessuno prima di imporre Africom, contentandosi di giri di parole evidentemente poco convincenti. Oltre al fatto che essa attirerà terroristi piuttosto che respingerli, rendendo in qualche modo l’Africa ostaggio di una politica straniera quanto meno contestabile, questa nuova struttura sarà unicamente a servizio degli interessi della sicurezza degli Stati Uniti, quale che sia l’indoramento semantico (“partenariato”, “concertazione”, “in-teressi mutui”, ecc.) utilizzato per fare ingoiare il rospo.Chi, domani, sarà in grado di opporsi al comando di Africom quando deciderà, per esempio, di inviare una forza di reazione rapida per “ripulire” il Delta del Niger, o di intervenire contro regimi considerati come ostili o pericolosi – l’Eritrea, lo Zimbabwe o il Sudan?

Senza dubbio c’è ancora tempo per limitare i danni prevedibili ed esigere, come fa il Sudafrica, che il quartier generale di Africom sia collocato in Europa e non nel Continente. E profittare per ricordare una rivendicazione elementare di sovranità, purtroppo dimenticata: la chiusura di tutte le basi militari in Africa, a cominciare da quelle francesi la cui persistenza sembra sempre più anacronistica. È quello che ha voluto dire, qualche giorno fa, a mezza voce, davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a New York, il presidente della Commissione dell’Unione Africana Alpha Oumar Konaré. Ma sembrava solo. E soprattutto senza illusioni.

 

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