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La canonizzazione

La canonizzazione "ufficiale" di Oscar Romero: una buona notizia di «secondaria» importanza

Tratto da: Adista Documenti n° 38 del 03/11/2018

DOC-2942. ROMA-ADISTA. Ha lasciato sicuramente un po' di amaro in bocca il fatto che la cerimonia di canonizzazione di mons. Oscar Romero – proclamato santo in Vaticano il 14 ottobre, insieme a Paolo VI e ad altre cinque figure della Chiesa – si sia svolta lontano dal popolo e, anche, che lo spazio concesso all'arcivescovo martire sia apparso tanto esiguo.

Del resto, non era andata molto meglio in occasione della beatificazione del 23 maggio 2015, pur celebrata a San Salvador, quando i poveri erano stati tenuti piuttosto a distanza, costretti a cedere il passo ai prìncipi della Chiesa e del mondo, tra cui aveva trovato posto persino Roberto D'Aubuisson, figlio dell'omonimo mandante dell'assassinio di Romero. E mentre i vescovi salvadoregni, incontrando il papa, gli hanno chiesto di avviare il processo perché Romero venga proclamato dottore della Chiesa, in molti, estranei alla logica delle canonizzazioni, continuano a ritenere che di una santificazione dall'alto non ci fosse bisogno, come già indicava tanti anni fa il vescovo Pedro Casaldáliga: «Che non canonizzino mai san Romero d’America perché gli farebbero un’offesa. Egli è santo in un modo del tutto particolare. È già stato canonizzato dal popolo. Non occorre altro». A ribadirlo, oggi, è stato anche il teologo della liberazione Jon Sobrino, a cui Romero chiese di scrivere il discorso che pronunciò all'Università di Lovanio il 2 febbraio del 1980 in occasione del conferimento della laurea honoris causa (e che già prima, nel 1977, aveva redatto per lui la seconda lettera pastorale "La Chiesa, corpo di Cristo nella storia"): «Romero è stato un essere umano, un cristiano e un arcivescovo eccellente, eccellente. Che lo canonizzino o meno è secondario» (Religión Digital, 15/10).

Al di là del rischio, sempre presente, di cancellarne la memoria sovversiva, trasformando Romero in un santo dell'istituzione, con tanto di agiografia, reliquie da venerare e statue da erigere, è il discorso stesso della sua canonizzazione a porre qualche interrogativo. Come quello che, a proposito della "conversione al popolo" vissuta dall’arcivescovo, sollevava quanto mai opportunamente don Enzo Mazzi, l'indimenticato animatore della Comunità di Base dell'Isolotto: «Fu la sua salvezza perché divenne un altro uomo: restò un contemplativo ma con gli occhi e la sensibilità della gente umile che contempla dal basso, laicamente, cioè con le mani, con i piedi, col sangue, con la collera, con la lotta, con la fede. Si può parlare di Romero senza partire da tutta questa gente, senza vederlo interno al grembo vitale della massa povera della gente del Salvador, generato da lei? Certo che si può, ma facendo torto alla sua seconda nascita. Non ha vissuto per emergere ma per convergere, per dare forza e voce e potere ai senza potere. Pur senza saldare definitivamente, neppure lui, il debito incolmabile che ognuno di noi mantiene verso la coerenza. Non fare santo lui, fare santa tutta questa gente. Questo potrebbe essere l'obiettivo delle comunità di base, delle organizzazioni popolari e della teologia della liberazione. Liberarsi e liberare da tutte le mitizzazioni e santificazioni».

Di seguito, una riflessione di José María Vigil sul riconoscimento della santità di mons. Romero in relazione all'ormai superata logica delle canonizzazioni e dei miracoli (https://eatwot.academia.edu/JoséMaríaVIGIL), all'articolo di José María Castillo e quello del gesuita Rafael Moreno, già segretario per gli Affari sociali di mons. Romero (pubblicato da Intercambio e rilanciato da Ihu Unisinos il 24 settembre).

* Tributo all'arcivescovo Oscar Romero, murale di Jamie Morgan - murales di Balmy Alley (San Francisco - CA), foto del 2003 di Franco Folini, tratta da Flickr, immagine originale e licenza

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