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Brasile. Quale speranza nell’epoca del nuovo autoritarismo?

Brasile. Quale speranza nell’epoca del nuovo autoritarismo?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 2 del 19/01/2019

Stiamo vivendo tempi politicamente e socialmente drammatici. Non abbiamo mai visto nella nostra storia odio e rabbia così diffusi, soprattutto attraverso i social-media. È stato eletto presidente una figura spaventosa che ha incarnato la dimensione dell'ombra e del represso della nostra storia. Ha contagiato molti dei suoi elettori. Questa figura è riuscita a tirar fuori il diabolico (che separa e divide) - che accompagna sempre il simbolico (che unisce e riunisce) - in modo così travolgente che il diabolico ha inondato la coscienza di molti e indebolito il simbolico al punto di dividere famiglie, rompere con gli amici e liberare violenza verbale e fisica. In particolare, tal violenza è indirizzata contro minoranze politiche, che sono in realtà maggioranze numeriche, come la popolazione nera, gli indigeni, i quilombolas e altri di diverso orientamento sessuale.

Innanzitutto voglio ringraziare chi ha organizzato questo incontro e chi ci ospita: don Paolo che mi ha invitato, chi farà la traduzione, Antonio Vermigli della Rete Radié Resch. Voglio presentarvi tre libri speciali che trovate all’ingresso. Il primo si intitola Quell’uomo chiamato Gesù, e contiene i quattro Vangeli in forma di romanzo; questo libro è stato scritto per quanti non hanno tempo né voglia di seguire un corso biblico. Il secondo è Battesimo di sangue, e narra la partecipazione di un gruppo di frati domenicani alla lotta contro la dittatura in Brasile. Il terzo è un libretto appena pubblicato in Italia, che parla del rapporto tra fede e politica.

In verità non vi parlerò di questi libri… sto solo facendo propaganda affinché abbiate voglia di leggerli [grande sorriso].

Certamente sapete che il Brasile ha appena eletto un presidente neo fascista, Jair Bolsonaro, che ha vinto le elezioni grazie a quattro concause.

La prima, è stata la poca fiducia del popolo brasiliano nei confronti della politica a partire dal 2013. Secondo me, il PT, il partito di Lula, è stato il migliore nella nostra storia repubblicana. Purtroppo alcuni dei suoi leader si sono lasciati corrompere, e questo ha creato discredito e una grande sfiducia tra la gente.

La seconda, sono state le Chiese evangeliche che ormai rappresentano più del 60% delle Chiese in Brasile; queste sono molto presenti nelle frange più povere della popolazione, soprattutto perché uno dei nostri problemi maggiori è l’assenza dello Stato in campo sanitario, e queste Chiese promettono cura. E siccome non ci sono medici che si occupano della loro salute, queste persone frequentano le chiese e i loro “guaritori” dai quali si aspettano di essere curate (benché costoro non siano medici!).

Le Chiese evangeliche si basano su un principio: fratello vota fratello. E non è un caso che Bolsonaro, che prima era cattolico, sia diventato evangelico, sapendo che tutti costoro avrebbero votato per lui.

La terza concausa che ha determinato la sua vittoria è la cosiddetta “rete”; che io non chiamo “rete sociale”, ma “rete digitale”. La forza della “rete” è stata ampiamente dimostrata con Trump nelle elezioni in America, con la Brexit nel Regno Unito, e anche in Brasile. È, quello della “rete”, un potere al quale nessun Paese può tenere testa. Perché Facebook, Whatsapp e Instagram contengono una “offensiva” molto forte di messaggi che aiutano a confondere la testa della gente.

La quarta concausa è data dal fatto che le persone più ricche del Brasile si arrogano la più totale libertà di non rispettare le leggi del nostro Paese. Non rispettano i diritti delle persone che lavorano; non rispettano l’ambiente e distruggono la foresta amazzonica per farvi pascolare le loro mandrie e piantarvi la soja in estesi latifondi; a questi si aggiungono le grandi imprese minerarie che rubano le terre degli indios. In Brasile vivono ancora un milione di indios, di popoli nativi, le cui terre un tempo erano demarcate e protette, mentre oggi sono invase dalle multinazionali, con il beneplacito di Bolsonaro che considera gli indios «di nessuna utilità».

La somma di questi quattro fattori spiega bene la sua vittoria elettorale.

Ma Bolsonaro è stato eletto con 57 milioni di voti; mentre gli aventi diritto al voto siamo 143 milioni. Ciò significa che questo presidente non rappresenta 86 milioni di brasiliani. Questi numeri devono farci riflettere! Purtroppo il totalitarismo è un fenomeno mondiale. Chi tra voi ha superato la mezza età, ricorderà cosa era il fascismo; tutte e tutti conosciamo la politica xenofoba di Trump. Ma come si spiega questa vittoria delle destre nel mondo? Secondo la mia modesta analisi, la spiegano tre fattori: innanzitutto, l’egemonia del capitalismo in tutto il mondo, dopo la fine del socialismo nell’Est europeo, cioè quella che impropriamente viene chiamata globalizzazione. Perché non di globalizzazione si tratta, ma di globo-colonizzazione, cioè l’imposizione a tutta l’umanità di un modello neoliberista di capitalismo. Secondo questo modello, noi non siamo più visti come cittadini ma siamo solamente dei consumatori. L’assioma di questo modello è: “fuori dal mercato non c’è salvezza”!

Il secondo fattore è che il capitalismo è passato dalla ricchezza come frutto della produzione alla ricchezza come frutto della speculazione finanziaria.

Il terzo fattore è la crisi delle utopie o della speranza libertaria. Questo significa che, per molti giovani di tutto il mondo, la vita è ormai incentrata su quattro valori: potere, fama, ricchezza, bellezza. Questo favorisce gli “avatar politici” come Trump e Bolsonaro. Forse qui in Italia questo non accade, ma vi posso assicurare che negli altri Paesi è così.

Qual è, pertanto, la nostra missione come cristiani o come militanti della speranza? Io credo che sia la stessa missione di Gesù.

In Brasile molti mi domandano: “Perché, pur essendo un frate domenicano, ti occupi di politica?”. La mia risposta è: “Perché sono discepolo di un prigioniero politico”. Infatti so per certo che Gesù non morì di malattia nel suo letto. Fu arrestato, torturato, giudicato da due poteri politici e condannato alla morte in croce. La domanda da fare è un’altra, e cioè: “Che fede è questa, la nostra, che non si interroga sulla attuale situazione politica?”. Se c’è una cosa che mi irrita, è visitare le librerie cattoliche, il cosiddetto settore di spiritualità, pieno di poster con immagini bellissime e idilliache, boschi, laghetti alpini, montagne, tramonti… Qual è il messaggio che passa? È che, per essere un buon cristiano, tu devi abitare in Svizzera! Se invece apriamo il vangelo, che cosa troviamo? Che tutta la vita di Gesù è un conflitto permanente! Comincia con il grave sospetto di Giuseppe che Maria abbia commesso adulterio! Troviamo poi l’episodio del rifiuto della famiglia di Giuseppe di accoglierli a Betlemme; quindi – sempre a Betlemme – la strage dei tanti bimbi innocenti; poi la fuga in Egitto, e così via. Questo sta a significare che il conflitto fa parte della nostra vita di cristiani; significa che Gesù non ha scelto un posto tranquillo e pacifico per incarnarsi, ma una provincia del Medio Oriente sotto l’occupazione dell’Impero romano. E Gesù entrò in conflitto con tutti i capi religiosi ebrei, con l’autorità di Erode, con il potere romano. Perché lo hanno ucciso così brutalmente? Molti di noi – e anche io – pensavamo che Gesù fosse venuto sulla terra per fondare una Chiesa, che fosse venuto a fondare una religione, il cristianesimo. Invece il motivo più importante della sua venuta non è stato né l’una né l’altra, né la Chiesa né il cristianesimo. Gesù è venuto a portare un nuovo progetto di civiltà chiamato Regno di Dio.

Nei vangeli, la parola chiesa compare solo 2 volte, e solo nel vangelo di Matteo; invece l’espressione Regno di Dio è contenuta 122 volte, e ben 90 è sulla bocca di Gesù. Per Gesù il Regno di Dio era il progetto per un mondo nuovo. Nel Padre Nostro noi preghiamo dicendo: «Venga il tuo regno» e non “portaci da qui fin nel tuo regno”! La proposta del Regno poggia su due pilastri: nelle relazioni personali, il pilastro è l’amore, inteso non come sentimento bensì come una attitudine che porti libertà; in ambito sociale, il pilastro è la condivisione dei beni, così come dice il sacerdote nella celebrazione eucaristica: condividere i beni della terra e i frutti del lavoro umano.

Pertanto, se vogliamo mantenere vive la speranza e la nostra spiritualità, dobbiamo in qualche modo creare un vincolo, un legame, con coloro che credono nella proposta del Regno, cioè con quanti credono che un’altra società più umana, più civile, più giusta è possibile.

Ciascuna e ciascuno di noi dovrebbe porsi questa domanda: in che modo la mia vita può dare un apporto concreto alla causa di quanti lottano per un mondo nuovo? E siccome don Paolo mi ha chiesto di lasciare uno spazio per le persone che vogliono intervenire, io mi fermo qui e vi lascio a meditare su questa domanda.

L’amore per il nemico

Tutti noi conosciamo la parabola del Buon Samaritano: c’è un uomo per terra sul ciglio della strada; passano da lì alcuni personaggi, tra cui un sacerdote e un levita, che restano indifferenti. L’evangelista Luca è stato ingiusto sia con il sacerdote e sia con il levita, perché io ho saputo che il sacerdote non si era fermato non per indifferenza, ma perché erano già le cinque del pomeriggio e lui doveva celebrare una messa a Gerusalemme alle sette… E ho saputo anche che durante la celebrazione, alla preghiera di fedeli, ha invitato tutti i presenti a pregare per quell’uomo che aveva incontrato lì per terra; finita la Messa, il sacerdote aveva telefonato al direttore dell’ospedale di Gerusalemme perché mandasse un’ambulanza a prenderlo…

Il levita, invece, era un religioso, come lo sono io. Lui non si fermò non perché fosse indifferente, ma perché nel suo convento di lì a 40 minuti sarebbe cominciata la recita dell’ufficio divino monastico. E anche lui chiese alla sua comunità di pregare per l’uomo che giaceva sul bordo della strada…

Quello che sto per dire vale per i rapporti sociali come per quelli personali: l’amore non si esprime con parole di sentimento, ma si esprime con la verità e la giustizia. Se io mi limito a dire a un’altra persona “ti voglio bene”, non significa niente se non sono giusto e autentico con lei/lui. Cioè, non possiamo intendere l’amore solo come mero sentimento, perché l’amore deve essere una attitudine.

È per questo che Gesù introduce un precetto religioso che è assolutamente nuovo per qualsiasi religione: l’amore per il nemico. Io ho trascorso quattro anni in prigione, al tempo della dittatura militare in Brasile, come è scritto in questo libro (Battesimo di sangue, ndr). Molti mi chiedono se nutro sentimenti di odio verso i miei torturatori. Io rispondo di no. E allora mi dicono: “quanto sei virtuoso!”. No, non lo faccio perché sono virtuoso, ma lo faccio per un tornaconto personale, perché la prigione mi ha insegnato un principio che spero anche voi facciate vostro: l’odio è quel veleno che uno beve sperando che l’altro muoia! A cosa mi giova, allora, odiare il mio torturatore se l’odio fa male solo a me? A questo torturatore, poco importa di me. Io penso che “amare il proprio nemico” non significhi essere in buona relazione con lui, ma lottare affinché lui cambi e smetta, per esempio, di essere un torturatore. Significa lottare per una società che non produca più i Trump, i Bolsonaro e quanti calpestano i diritti umani. Una volta un mio confratello, ormai morto, andò a cercare il suo direttore spirituale e gli disse che aveva perduto la speranza, e che per questo avrebbe fatto psicoterapia. Il direttore gli suggerì di lasciar perdere queste terapie: se vuoi ritrovare la speranza – gli disse – vai tra i poveri, perché lì ne troverai in abbondanza!

Tornare in Brasile

Ho vissuto ventuno anni sotto la dittatura militare: è stata una cosa certamente non bella, ma di certo non ha guastato il mio spirito. Io mi aspettavo ciò che è successo in questi giorni, e che questi avrebbero festeggiato, e temo che ci saranno periodi ancora più bui; perché l’elezione di Bolsonaro in Brasile mi ricorda l’elezione “democratica” di Adolf Hitler nella Germania del 1933. In questi giorni sto suggerendo a tutti i miei amici di guardare un film, Cabaret, con Marlene Dietrich oppure l’altra versione con Liza Minnelli, perché il film spiega molto bene cosa fu l’ascesa del nazismo e fa comprendere altrettanto bene che da noi sta accadendo la stessa cosa, perché ammazzano le voci di dissenso. Sapendo della mia venuta in Italia, alcuni amici mi hanno invitato a restare qui, a non tornare. Ma, per me, non tornare sarebbe come tradire i miei principi. Invece io devo tornare in Brasile, devo continuare a lottare.

Perché il contrario della paura non è il coraggio, ma è la fede!     

* Frei Betto è  domenicano brasiliano, teologo e scrittore. Conferenza tenuta a Modena il 30/10/2018, parrocchia BVA. (Traduzione di Alba Monti, trascrizione di Angela Colasuonno). Video su http://www.arcoiris.tv/scheda/it/-17031/.

* * Jair Messias Bolsonaro in una foto di Pedro França/Agência Senado del 6 novembre 2018 tratta da Wikimedia Commons, licenza Creative Commons

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