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Gaza /1. E l’umanità resta a guardare
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 23 del 14/06/2025
Pubblichiamo il grido disperato di un medico di Gaza, Ezzideen Shehab, condiviso dalla regista Farah Nabulsi e pubblicato da Assopace Palestina il 18 maggio. Così ha scritto la regista di The Present: «Sto condividendo qui una delle cose più dolorose che ho letto in questi giorni incredibilmente oscuri. Avevo pensato di leggerla in un video, ma onestamente mi sento male. In questo momento vorrei solo rannicchiarmi e sparire da questo mondo. È di un uomo chiamato Dr. Ezzideen, che seguo su X. La sua scrittura è in generale molto potente, ed è un vero medico a Gaza (il suo account su X è @ezzingaza, nel caso qualcuno volesse saperlo)».
Non c’è illusione più oscena, più grottesca, della convinzione che l’essere umano sia il culmine della creazione. Se indossa una corona, è forgiata dalle macerie e incastonata di denti strappati dalla bocca dei bambini. E in nessun luogo, in nessun luogo, questa oscenità è più visibile che a Gaza, dove l’uomo strappa l’ultimo velo della civiltà e si mostra per ciò che è sempre stato: una bestia predatrice, con la ragione abbastanza affilata da uccidere con efficienza, e appena abbastanza coscienza da provare un fugace disagio, subito messo a tacere.
Gaza non è una tragedia. Chiamarla così sarebbe troppo gentile. Non è un incidente della diplomazia o dei confini. È un palcoscenico. Una rappresentazione. Una dimostrazione di ciò che accade quando all’uomo vengono dati strumenti, sistemi, dati – ma non un’anima. È la conclusione logica di una specie che non vive: divora.
Le persone lì – bambini, donne, vecchi – non sono vittime. Anche quella parola è diventata troppo gentile. Sono soggetti di esperimento.
Vivisezionati, esaminati, catalogati. Non in nome della scoperta, ma all’ombra dell’indifferenza totale. Gaza è stata trasformata in una gabbia – non immaginaria, non poetica, ma letterale – e al suo interno viene scatenato ogni strumento di degradazione umana: fame, bombardamenti, silenzio, isolamento, sparizione. Non in successione. Ma insieme. Simultaneamente. In modo esaustivo.
Questo non è dolore. È l’industrializzazione dell’agonia.
Perfino ai topi da laboratorio viene offerta la dignità dell’isolamento: un trauma per gabbia. Fame in una, paura in un’altra. Ma Gaza non è un laboratorio. È una fornace. Un sito nero. Un luogo dove le regole della sperimentazione sono crollate in un rituale di crudeltà. Le variabili non vengono più misurate. Sono armate.
Le armi a Gaza non vengono usate: vengono presentate in anteprima.
Il cadavere di un bambino non è un errore: è una conferma. Un dato.
L’annientamento di un quartiere non è un incidente: è marketing.
Il mondo non piange. Guarda. Si informa. Il missile raggiunge il bersaglio? La struttura crolla nel raggio previsto?
Il cibo non è trattenuto per caos: è razionato con precisione matematica.
Il gazawi non è nutrito in base a ciò che la vita richiede, ma a ciò che la morte permette.
Appena abbastanza per negare il martirio, mai abbastanza per permettere significato.
Non è misericordia. È manutenzione.
Lo spirito umano, sospeso indefinitamente nello spazio tra il perire e il sopravvivere.
E nulla di tutto questo è casuale. È sistematico. Pulito. Clinico. Gaza non è governata. È amministrata come un paziente terminale tenuto in vita per studio.
Le soglie psicologiche vengono testate, non da studiosi, ma da soldati. I legami sociali vengono schiacciati sotto il peso del lutto ripetuto.
Ogni urlo è registrato. Ogni silenzio annotato. Ogni sepoltura cronometrata e archiviata.
E il mondo? Si volta dall’altra parte. Dà un nome a questo “conflitto”, come se sezionatore e sezionato fossero in qualche modo uguali. Come se il topo e il bisturi fossero entrambi partecipanti dello stesso esperimento.
No. Questo non è un conflitto. Questa è vivisezione. E l’umanità, questa specie che osa parlare di bellezza e di eternità, guarda.
Razionalizza. Va avanti.
L’uomo non è ciò che immagina di essere. Non è portatore di giustizia, né creatura di verità. È, nella sua forma ultima e più autentica, il più raffinato fabbricante di sofferenza che abbia mai camminato sulla Terra.
Nessuna bestia scuoia i suoi simili con tale brillantezza. Nessun diavolo è necessario.
Se un giorno qualcuno chiederà: “Ma come, lo sapevate?” Non risponderemo. Apriremo le mani e mostreremo ciò che resta:
le ustioni sulla pelle dei nostri figli,
la fame scolpita nelle ossa dei vivi,
le ninne nanne che ora finiscono nel ruggito dei droni.
Non diremo nulla. Perché non resta nulla da dire. Non lo abbiamo imparato. Non l’abbiamo letto nei libri. Lo abbiamo portato nei nostri corpi.
Siamo diventati questo.
Non c’è bisogno dei diavoli.
L’uomo basta. Egli è la ferita.
Egli è il coltello.
Ed è lui che lo gira.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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