Liberi dal pensiero unico. La rivoluzione culturale della spiritualità
ROMA-ADISTA. Con la tenacia dell’apostolo, tanto più attivo quanto meno ascoltato,Maurizio Pallante ha dato alle stampe l’ennesimo volume: Liberi dal pensiero unico. La rivoluzione culturale della spiritualità (Lindau, pp. 131, euro 12). In queste pagine egli ribadisce i temi che nei decenni lo hanno reso l’esponente italiano più noto della “decrescita felice”: più noto, ma fuori dai circuiti mediatici televisivi e radiofonici. E si intuisce facilmente la ragione di questa conventio ad excludendum: chi invita a disertare il consumismo offre il petto al complesso industriale-commerciale egemone; se poi aggiunge che il mito della crescita illimitata (fondato sulla falsa equazione progresso = sviluppo) è perseguito unanimemente da partiti di Destra, di Centro e di Sinistra si espone al fuoco incrociato (o peggio: alla damnatio memoriae) degli schieramenti politici che si alternano al governo e all’opposizione parlamentare.
Della nutrita e nutriente lista delle sue indicazioni critiche e delle sue proposte costruttive vorrei qui limitarmi a evocare i passaggi che giustificano il sottotitolo: “Al contrario di quanto si crede, la dipendenza dal consumismo genera una frustrazione permanente, perché la continua immissione sul mercato di prodotti innovativi rende sempre più breve la soddisfazione offerta dall’atto di acquistare, mantenendone inalterato il richiamo. L’unica forza in grado di rompere questo incantesimo è la spiritualità” (p. 15).
Pallante invoca dunque un ritorno alla pratica religiosa confessionale-istituzionale (in calo progressivo) o, almeno, a una qualche forma di religiosità panteistica? No. O non necessariamente. Egli pensa a una spiritualità laica che si fonda sulla “capacità di cogliere la meraviglia racchiusa nell’ordinario della vita: in ogni fenomeno naturale, nei paesaggi, nelle stagioni; è la capacità di percepire i legami di reciproca interdipendenza che connettono la specie umana con tutte le altre specie animali e vegetali, d’immedesimarsi nella sofferenza e nella gioia di altri esseri viventi. La spiritualità fa perdere la cognizione dello spazio e del tempo ascoltando una sinfonia, incantandosi davanti a un quadro, leggendo una poesia, impegnandosi a capire che una scoperta scientifica, meditando, pregando se si ha una fede” (pp. 15 – 16).
Questa spiritualità basica, elementare, che si ritrova in persone atee, agnostiche e credenti in senso teologico, difetta però in troppe altre persone che si dicono atee, agnostiche e credenti: per questo, come ricorda l’autore citando Norberto Bobbio, il filosofo torinese sosteneva che “la differenza non è tra il credente e il non credente”, ma “tra chi prende sul serio” le questioni esistenziali ed etiche e chi non se ne preoccupa minimamente, “si accontenta di risposte facili” e gli “basta ripetere ciò che gli è stato detti fin da bambino” (pp. 43 – 44). Senza il gusto della moderazione, la sobrietà dei costumi, l’austerità nei consumi non è possibile una società socialista (lo ricordò forse troppo tardi Enrico Berlinguer) né tanto meno una società improntata allo spirito del Vangelo.
Pallante rilancia le avvertenze di Pier Paolo Pasolini alla Chiesa cattolica degli anni post-conciliari di Paolo VI (e che non hanno certo perso di attualità con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI): se essa si preoccupa di lingue liturgiche o di questioni sessuali, senza contrastare il “pensiero unico” che fa della “crescita della produzione di merci e dei consumi” “l’indicatore del benessere di un Paese” (p. 56) si condanna alla “propria liquidazione”. Essa potrebbe evitare di precipitare nella totale irrilevanza sociologica a cui sembra irreversibilmente destinata se si auto-costituisse come “la guida grandiosa, ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore; degradante. […] E’ questo rifiuto che potrebbe dunque simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all’opposizione e alla rivolta” (p. 57). Che vediamo, invece, nel modo di pensare e di vivere dei vertici vaticani? Quale attenzione a evitare i consumi superflui, lo spreco del cibo a tavola e dell’acqua potabile nelle docce, il dispendio dell’energia elettrica nelle curie vescovili, nei seminari, nei conventi femminili, nelle scuole cattoliche, nei sinodi e nei mega-convegni internazionali di teologia, nella quotidianità delle famiglie vicine alle parrocchie? Vegetariani e vegani (addolorati per le stragi natalizie e pasquali di agnellini e di ogni altro esserino vivente indifeso) sono minoranze trascurabili trattate con un misto di curiosità per l’esotico e di commiserazione per l’idealismo fuori dalla storia. I preti – specie i più giovani - sono di solito tra i primi nel proprio ambiente ad acquistare l’ultimo modello di automobile o di cellulare né devono minimamente giustificarsi agli occhi dei fedeli che ne condividono totalmente la filosofia edonistica: anzi, così dimostrano di essere al passo coi tempi e in sintonia con la mentalità dei laici di cui si curano pastoralmente.
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