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DIO (O IL DIVINO) CON NOI?

Tratto da: Adista Documenti n° 6 del 19/01/2008

La domanda di Gesù ai discepoli in cammino “verso i villaggi di Cesarea di Filippo”, “chi dice la gente che io sia?” (Mc 8,27), torna ancora una volta alla mente di quanti continuano ad interrogarsi sull’ultima identità del “grande profeta” (Lc 7,16) che ha sconvolto la storia di Israele e delle genti.

Certo, le risposte utili, opportune, anzi privilegiate si trovano già chiare in quel cumulo di informazioni consegnate da Dio stesso ai suoi confidenti (i profeti) che vanno sotto il nome di “rivelazione”. Infatti, in Matteo Gesù è chiamato “Dio-con-noi” allo stesso modo che in Giovanni è definito “Verbo Incarnato”, ma non si può negare che entrambe le designazioni siano tutt’altro che evidenti. A parte il significato che esse hanno nelle fonti originarie (in Isaia per Matteo, nel contesto biblico-ellenistico per il Logos) rimane sempre aperta una domanda di fondo a cui si dovrebbe dare una risposta: “È l’Essere supremo che si fa uno di noi (una supposizione per lo meno imbarazzante) oppure più semplicemente è l’uomo Gesù di Nazaret che nonostante tutti i suoi limiti creaturali è riuscito a comportarsi in mezzo ai fratelli con quella dedizione, generosità, carità, carica di amore che solo Dio possiede e mette in atto? Nel caso che così fosse, non avrebbe egli ugualmente diritto a presentarsi e ad essere additato come il “Dio-con-noi”, il Verbo Incarnato”?

La “divinità” del Cristo non sarebbe così più convincente e soprattutto non avrebbe un più chiaro significato se invece della “consustanzialità divina” (una dottrina su cui si è cimentata per quattro, cinque secoli la Chiesa delle origini senza arrivare ad una soddisfacente conclusione, solo a un compromesso, quello di Calcedonia) si rapportasse alle sue capacità operative umane rivelatesi alla pari di quelle stesse di Dio? Secondo Mt 5,48 e più ancora Lc 6,35, per non parlare di Giovanni (1 Let 4,16), l’agire proprio di Dio è motivato solo da un amore disinteressato, e, quando l’uomo riesce a fare altrettanto, dà prova di possedere in qualche modo le sue stesse attitudini, capacità di bene. “Ego dixi: dii estis”, osserva il salmista (Sal 81,6). È quanto in Gesù, nella sua parola e più ancora nella sua testimonianza, gli uomini sono venuti a conoscere e nello stesso tempo hanno appreso che, se lo vogliono, possono arrivare a raggiungere la stessa “perfezione” (operativa, ossia caritativa) di Dio (Mt 5,48), fino addirittura a denominarsi suoi “figli” (Lc 6,35), non solo a parole, fa sapere Giovanni, ma “realmente” (1 Let 3,1).

Se Dio, per un’ipotesi impossibile ma non assurda, potesse ritrovarsi tra i protagonisti delle vicende che si svolgono nel tempo, non potrebbe avere altri “sentimenti”, “atteggiamenti”, “comportamenti”, in una parola “virtù”, che quelle che hanno riempito l’esistenza e l’esperienza del suo Cristo. Lo straordinario di Gesù non è quello di appartenere ad un mondo superiore, ad una famiglia sovrumana (“divina”), ma che, pur essendo uno come gli altri (“vero uomo”), è stato capace di comportamenti sovrani, per non dire inediti, che si equiparano a quelli di Dio che, secondo il suo modo di sentire, più che il “Gran Signore” è un “padre” compassionevole e misericordioso, come già ripetevano antichi oracoli, “lento all’ira e pronto al perdono” (cfr. Es 34,7; Nu 14,18; Dt 5,9-10; Gioe 2,12; Sal 86,15).

Gesù, grazie ai suoi carismi, avrebbe potuto conquistare il mondo, almeno ergersi un trono di potenza e di gloria (le sue “tentazioni”!), ma, assecondando la voce dello Spirito di Dio, ha preferito spendere le sue energie e la stessa vita per il bene degli ultimi, dei poveri, degli indifesi, dei peccatori. E non è stata una scelta comoda, facile, scontata, ma che gli ha richiesto un grado di disponibilità e di coraggio sovrumani. È sì morto per ossequio alle ispirazioni del padre che inoltre gli chiedeva non di restaurare il suo onore, che a nessuno era mai passato in mente di mettere in discussione,  ma di prendersi cura del bene delle moltitudini da sempre angariate e oppresse. E se Gesù non avesse dovuto “soffrire” per assolvere questo compito, per essere virtuoso, amico di Dio e dei propri simili, santo; se non si fosse ritrovato come tutti a lottare contro le tendenze opposte al bene (passioni) che albergano in ogni essere e che spesso finiscono per travolgere la resistenza dei comuni mortali, come potrebbe presentarsi o essere presentato come il prototipo, l’esempio di vita, la misura, la norma del comune agire morale umano? E come può essere additata l’imitazione di Cristo quale essenza del vangelo se Gesù è di un altro ordine, di un’altra condizione esistenziale, di un altro rango, diverso dagli altri uomini, privilegiato?

Se il mistero dell’incarnazione si identificasse con la discesa, l’avvio della dimora di Dio in mezzo agli uomini, non si farebbe che ripetere una “notizia” da sempre ribadita e celebrata: l’onnipresenza divina nella storia del mondo e degli uomini.

Il “Dio-con-noi” non potrebbe invece unicamente dire che il modo non tanto di essere (che rimane sempre impenetrabile) ma di agire dell’essere supremo ha fatto la sua “apparizione” in un comune ma straordinario profeta che ha dato ai “fratelli” tutto se stesso, anche la vita?

Egli non solo ha dimostrato che c’era un Signore al di sopra di tutti, ma ha avuto cura di far sapere chi egli fosse, solo bontà e amore, le stesse donazioni e dotazioni che hanno caratterizzato la sua vita. In Gesù, pertanto, il mondo o “regno di Dio” non ha fatto il suo primo ingresso, ma la più alta manifestazione nella storia che si è scoperta non solo antropo ma deiforme: egli ha fatto in altre parole capire che Dio non è tanto in alto, ma permea l’essenza e l’esistenza degli uomini, che sono, tra l’altro, suoi consanguinei (cfr. 2 Pt  1,4). E se una buona volta questi riuscissero a prendere coscienza della loro dignità e ad operare in corrispondenza ad essa, le vicende degli uomini assumerebbero un ben altro corso, quello che Gesù ha realizzato e prospettato ai suoi simili.

Solo in quest’orientazione, in questa apertura teandrica più che teologica ha senso parlare di “Incarnazione”, di “Emmanuele” o di “Dio-con-noi”, poiché non si stanno a ripetere titolature teoriche, accademiche, ma percorsi, testimonianze, esperienze calate sì dal cielo che riguardano gli uomini, i quali, da creature o prodotti dell’Essere ultimo, si scoprono suoi familiari, parenti. E Gesù è il primo componente di questa nuova umanità, ma non l’unico; forse per questo Paolo lo chiama “il primogenito dei fratelli” (Rm 8,39), colui che ha segnalato e incarnato il destino promesso a tutti.

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