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Firenze/Un segno di speranza Per reagire dal basso allo scisma sommerso

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 60 del 30/05/2009

I  fatti danno valore alle parole e le fanno diventare pietre. Il successo per i numeri e per i contenuti del convegno che si è svolto a Firenze il 16 maggio rende particolarmente significative le parole scritte in preparazione e quelle pronunciate durante l’intensa giornata di lavoro. Non era scontato alla vigilia che un incontro autoconvocato da cattolici che vivono “in disagio” l’attuale stagione della chiesa (molto attenti a non confondersi con quanti sono “in dissenso”, ma altrettanto disponibili a confrontarsi con loro) potesse raggiungere lo scopo di realizzare «uno scambio aperto del vissuto della fede, nell’esperienza della forza del Vangelo» senza che nessuno si sentisse «ospite o straniero».

Non si trattava del solito convegno sulla pace, la fame nel mondo, l’immigrazione, la giustizia sociale. Il tema proposto era la chiesa e lo scisma sommerso che l’attraversa. Non era neppure inteso a rivendicare spazio per i laici, piuttosto si proponeva di riaffermare la loro responsabilità nell’annunciare, come recitava il documento di convocazione, «il Vangelo che abbiamo ricevuto».

La scelta del canto del Veni creator come momento conclusivo della breve liturgia introduttiva può essere interpretata proprio come segno delle legittime apprensioni dei promotori sulla possibilità di garantire un sereno confronto data la diversità delle esperienze e degli orientamenti dei partecipanti, già emersa nell’ampia e articolata serie di contributi inviati alla vigilia da singoli e gruppi. Della loro ricchezza, ma al tempo stesso della loro varietà ha dato la misura la relazione introduttiva che ne ha tentato, con successo, non un’impossibile sintesi, ma una tematizzazione funzionale allo svolgimento del confronto, che si è, infatti, svolto senza sterili battute polemiche, precisazioni o distinguo.

Ciascuno ha potuto pronunciarsi distintamente sui diversi temi, secondo le chiavi di lettura proposte, in modo da offrire ai partecipanti la possibilità di autonome valutazioni sulle prassi emergenti dalle esperienze, sugli orientamenti frutto di studi e letture più o meno condivise e, infine, anche sulle proposte concrete, sul modo di continuare il cammino e su eventuali iniziative da prendere nell’immediato.

Coerentemente con il modello di convegno scelto, queste non sono state offerte al voto, così come non è stato stilato un documento conclusivo al termine delle oltre tre ore di dibattito. La sua ricchezza è stata assunta, invece, come patrimonio d’idee e d’indicazioni per il lavoro futuro per il quale si sono auspicati un collegamento, una rete di relazioni e la convocazione ogni anno di uno o più convegni, magari decentrati al nord e al sud, per favorire lo sviluppo del confronto e la contaminazione delle esperienze. Non premessa per un nuovo “movimento  ecclesiale” ma sperimentazione di modi nuovi di essere chiesa senza ostracismi, senza la pretesa di offrire modelli o soluzioni da generalizzare, nella consapevolezza del limite che tutto ciò che è umano porta in sé. Un collegamento rispettoso delle diversità: non tollerate, ma assunte come valore senza l’ossessione di separare chi è dentro e chi è fuori.

Questo nella prospettiva temporale risulta essere un falso problema come emerge dall’esperienza delle comunità cristiane di base. Nel lontano 1984  un vescovo ha “scomunicato” due comunità presenti nella sua diocesi. Poche settimane dopo un altro vescovo, dopo aver portato il suo saluto ad un loro seminario nazionale, ha voluto esprimersi sul tema in esso proposto: Eucaristia, ricerca e prassi nelle comunità di base. L’anno successivo la Comunità dell’Isolotto, che era stata bandita dal suo vescovo, Florit, perché “solo gruppo politico”, si è sentita dire dal suo vescovo, Piovanelli,  in visita alla sua sede, «vi ringrazio perché ci siete». Non basta affermare che era cambiata la persona chiamata ad essere il suo vescovo, forse bisogna ricordare la funzione delle pietre “scartate” di ieri e di oggi.

È indubbio che il Vangelo ha bisogno della chiesa per essere “annunciato” e la profezia ha bisogno dell’istituzione per assolvere alla sua funzione. Questa può, però, ridursi ad «uno scheletro istituzionale, necessario e utile come sostegno, ma non sufficiente ad una vita piena, e pericoloso se tende a promuovere l’ossificazione di tutti i tessuti». È altrettanto essenziale, perciò, che non «si esaurisca il processo di ecclesiogenesi dal basso».

A Firenze, di là da ogni pur legittima soddisfazione e fuori di ogni trionfalismo, si è acceso un segno: la speranza che di questo processo siano in molti, «accomunati dalla passione per la chiesa», ad assumersi la responsabilità senza attendere deleghe o investiture.

Un segno di speranza che va ad aggiungersi ad altri già diffusi come il rilancio, anche nella base parrocchiale, dello studio dei testi conciliari e l’aumento dello spazio di comunicazione e di confronto intraecclesiali offerto dal nuovo “fascicolo arancione” dell’agenzia Adista.

Sono tutti segni di un impegno che non intende esaurirsi in un ghetto ecclesiocentrico, ma farsi altresì carico, pur nella distinzione di ruoli e di strumenti, sia della grave crisi della democrazia, che grava sul nostro paese anche a causa dell’interventismo della gerarchia ecclesiastica in netta contraddizione con il dettato conciliare, sia della ripresa di iniziative dal basso che liberino l’ecumenismo dalle secche della diplomazia istituzionale.

tratto da www.cdbitalia.it

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