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Ma chi sono i cattolici?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 116 del 14/11/2009

Si ravviva l’attenzione verso i cattolici. Anche dopo le primarie del PD non mancano giornali che si chiedono: dove andranno i cattolici? Resteranno? emigreranno al centro? scivoleranno a destra? O si rifugeranno in chiesa?

E ci sono tanti altri temi che provocano i cattolici: dall’etica sessuale dichiarata a quella praticata; dalle disposizioni per affrontare la fine della vita all’insegnamento della religione nelle scuole, al crocifisso nelle aule…

Raccolgono invece meno attenzione, ma non sono meno importanti per la coscienza cristiana, le leggi e gli atteggiamenti sull’accoglienza dei poveri e dei rifugiati, sul rispetto dei clandestini e delle persone arrestate, sui diritti civili di tutte le persone. La grande sfida tra egoismo e solidarietà.

Qui non vorrei entrare nel contenuto delle diverse scelte che si pongono, ma soffermarmi sulla soglia: quando si dice “i cattolici” a chi ci si riferisce? Ai battezzati, ai credenti, ai praticanti ? A quelli che dicono di riconoscersi nella tradizione e nelle “radici cristiane”, a quelli che leggono il vangelo, a quelli che lo vivono nel segreto della coscienza, a quelli che fanno parte concretamente delle comunità cristiane? A quelli che dicono “Signore, Signore”, o a quelli che fanno la volontà di Dio?

Per carità, non si tratta di giudicare o condannare le persone; viviamo tutti una esperienza complessa, in cui si mescolano atteggiamenti e momenti diversi: carne e spirito, nostalgia del passato e passione per il futuro, fedeltà e debolezze. L’inedito della fede e la consuetudine della devozione. La generosità dell’amore e l’egoismo individuale. E tuttavia bisogna anche cercare di fare chiarezza, non per un esercizio formale o per la presunzione di raggiungere quaggiù una purezza quanto invece per una responsabilità verso se stessi soprattutto gli altri. Per esempio: come si potrà spiegare domani ai giovani che i cattolici si sono spostati a destra perché la sinistra proponeva più giustizia sociale, equità fiscale, accoglienza per i disperati che attraversano il mare su barche e gommoni, rispetto per la dignità e la coscienza di tutte le persone. Perché mai i cattolici dovrebbero identificarsi con i nostalgici e gli egoisti? Oltretutto, a ben vedere ci sono stati e ci sono molti credenti fra quanti vogliono costruire una società rinnovata e migliore; ma sembra quasi che siano mal tollerati, gente marginale, un po’ disobbedienti. Talora sembra persino che i buoni cattolici siano quelli che vanno al family day anziché quelli che hanno una buona vita familiare; quelli che vogliono a tutti i costi il crocifisso sui muri anziché quelli che si occupano dei fratelli crocifissi.

A proposito del crocifisso occorre rilevare che, più dell’oggetto in sé la questione è il significato che gli si vuole attribuire. Il Crocifisso è il segno dell’amore per gli altri fino al dono della vita: se fosse presentato così, secondo verità, chi potrebbe considerarlo una provocazione? Ma, purtroppo, spesso è inteso e presentato, anche dai cristiani, come un marchio, il segno di un possesso, di una tradizione che si contrappone ad altre. In tal modo rischia di perdere la sua universalità, l’essere speranza offerta a tutti gli uomini.

Riscoprire che i cristiani non sono una corrente di un partito e neppure un popolo che corre a ripararsi sotto le bandiere delle forze nostalgiche, conservatrici e spregiudicate, ma sono quelli che vivono (cercano di vivere, consapevoli di tutti i loro limiti e infedeltà) la koinonia secondo il vangelo… questa sarebbe la buona notizia, non solo per una politica più umana  ma anche per una testimonianza cristiana più limpida.

Sarebbe straordinario se cominciassimo a chiamare cristiani, e cattolici, quelli che lo sono davvero e non quelli che si definiscono tali. Sarebbe un guadagno per la verità. E porterebbe buoni frutti in futuro, anche se un po’ di scompiglio nel presente.

Del resto l’avevano detto San Paolo e Ignazio di Antiochia; e l’aveva ripetuto il cardinale Dionigi Tettamanzi al Convegno ecclesiale di Verona (2006): «Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. È meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo».

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