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Il senso di Bossi per la colpa

Tratto da: Adista Notizie n° 15 del 21/04/2012

Confesso di averlo conosciuto dal vivo, l’Umberto Bossi da Cassano Magnago. Per tre anni (‘90-‘93) siamo stati colleghi nel Consiglio Comunale di Milano. Subito, in una pausa dei lavori della prima seduta, ci spiegò che andava a letto alle sei del mattino e si svegliava alle due del pomeriggio. Orari da spogliarellista, pensai. Alla seconda chiese di intervenire e vomitò parole di fuoco contro gli immigrati.

Dopo tre mesi avevo già emesso il mio verdetto: l’è un lazarun che fa il razzista. Uno così dura minga. Invece, quant’è durato! Ho sbagliato il pronostico anche sulla sua badante Rosy Mauro, pure lei in Consiglio comunale dal ‘93 al ‘97: mai e poi mai avrei immaginato di vederla così nigra et formosa alla vicepresidenza del Senato.

Ora che il bossismo è giunto al triste finale, si moltiplicano le analisi. In tanti dicono cose azzeccate, ma secondo me manca sempre il quid. Le domande più stringenti continuano a rimanere senza una risposta convincente: perché  Bossi è durato 20 anni e neanche l’ictus l’ha fermato? Perché le due regioni più cattoliche d’Italia, la Lombardia e il Veneto, che nel ‘900 hanno prodotto quattro papi, l’hanno sistematicamente votato?

Sapendo di sbagliare ancora una volta,  espongo una tesi che esce dal binario consueto. La tesi è questa: Bossi non è stato un politico, bensì un druido molto furbo capace di utilizzare a suo uso e consumo il plurisecolare complesso di colpa che tormenta il cuore lombardo. Bossi è stato eccelso nell’arte di colpevolizzare gli altri per esorcizzare il suo personale complesso di colpa. Per non essere sorpreso in difetto – perché non studi? perché non lavori? – ha preventivamente attaccato gli altri, facendo in modo di non trovarsi mai nella posizione del colpevole. Ciò gli ha reso voti e potere, ma non ha prodotto alcuna liberazione.

Esposta la tesi, potete tirare il fiato. Lo so, non vi ho convinto. Faccio un altro tentativo partendo più da lontano. La Lombardia è dai tempi di Ambrogio, 1.700 anni fa, terra cattolicissima. Parlo espressamente di terra, perché qui il cattolicesimo non è stata una vernice esteriore, ma è penetrato in ogni zolla della pianura e delle colline e forse anche nelle rocce delle Alpi Retiche. Ha generato fior di santi, di missionari, di uomini generosi e donne straordinarie. Però per infilarsi così profondamente nelle fibre lombarde ha fatto leva sul senso di colpa. Il senso di colpa è meccanismo spontaneo, individuale, universale – ti senti colpevole per il fatto stesso di avere un certo pensiero o una certa emozione, perché ti sei ammalato, perché non fai nulla, perché parti per le vacanze… – ma viene poi spesso, quasi sempre, rinforzato ad arte. La Chiesa cattolica l’ha fatto proliferare per secoli al fine di diffondere il senso del peccato e affermare l’esigenza della confessione. Ma anche oggi, scomparsa la cristianità, in un tempo ipersecolarizzato in cui nessuno si confessa più, il complesso di colpa non è scomparso, ma continua a roderci il cuore secondo due modalità: o ci fa stare sotto, tristi e perennemente in debito con qualcuno e per qualcosa; o ci mette sopra, autogiustificandoci e spingendoci a rivendicare arroganti la nostra perfezione. Il sotto e il sopra sono le due facce della stessa medaglia. Bossi il druido ha scelto di stare sopra per fare al meglio le sue scorribande. Lui perfetto, gli altri sbagliati. Lui in credito, gli altri in debito. Finita la sua corsa, lascia i lombardi ancora più smarriti di vent’anni fa. L’ipertrofico e autarchico senso di colpa non è andato via. Un’altra occasione sprecata. Quando giungerà il tempo della guarigione? Perché anche i lombardi meritano di essere uomini e donne come tutti gli altri esseri umani. Né nulla, né tutto. Fatti di luci e di ombre. Chiamati a gioia e libertà.

*ex vicepresidente dell’Azione cattolica ambrosiana

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