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VICARIATO E “AVVENIRE” ALL’ATTACCO: CHE “GENERE” DI EDUCAZIONE È QUESTA?

Tratto da: Adista Notizie n° 9 del 08/03/2014

37540. ROMA-ADISTA. Non c’è che dire: ormai la lotta a quella che è stata ribattezzata “l’ideologia di genere” sembra proprio essere diventata una delle priorità della Chiesa cattolica. A ogni tentativo messo in campo da istituzioni, associazioni, scuole per contrastare il diffondersi di impoverenti stereotipi di genere e del bullismo omofobico, corrispondono, da parte ecclesiastica, fiumi di parole e di inchiostro, fino a scomodare il Vangelo, per dimostrare la pericolosità di questo tipo di approccio.

Ultimo a finire nel mirino il «Piano di aggiornamento per l’anno scolastico 2013-2014 per le educatrici dei Nidi e le insegnanti delle Scuole dell’infanzia di Roma Capitale» che prevede, tra le altre cose, un pacchetto di seminari su “Educazione al genere e alle differenze”. In un’intervista alla Radio Vaticana (24/2) don Filippo Morlacchi, direttore dell’Ufficio per la Pastorale scolastica del Vicariato di Roma, afferma che questo progetto «segue una strategia molto più ampia, volta direttamente alla formazione degli insegnanti, per giungere, attraverso gli insegnanti, a modellare anche la sensibilità dei bambini. Chi lavora con i bambini e l’infanzia – prosegue Morlacchi – ha molto chiaro che, per un bambino e una bambina, la differenza sessuale non è uno stereotipo culturale imposto, ma è un’evidenza palese, lapalissiana. Il problema, secondo me, è che questa proposta pedagogica si fonda su un’antropologia, su una visione dell’uomo, che ritiene che l’identità sessuale sia una realtà accidentale, mentre l’elemento fondamentale è l’identità di genere, che la persona nella sua libertà decide di assumere. Questa priorità del dato psicologico sul dato biologico e somatico suppone un’antropologia, una visione dell’uomo, difficilmente compatibile con il Vangelo, anzi, non compatibile».

Concetti ribaditi in un editoriale apparso, nella stessa data, su Roma Sette, supplemento di Avvenire per la diocesi di Roma. «Anche la scuola sembra uno sconfinato, desolato ospedale da campo, nel quale non si sa bene dove mettere le mani, tante sono le urgenze», scrive Morlacchi. «Proprio per questo lascia perplessi il fermento che agita da qualche tempo il mondo della scuola in relazione alle cosiddette “tematiche gender”. Fino a qualche anno fa, i pedagogisti e gli insegnanti più avvertiti si battevano soprattutto per una scuola inclusiva, accogliente, attenta all’integrazione degli stranieri e al sostegno degli svantaggiati, oltre che, ovviamente, capace di attrezzare culturalmente gli alunni. Obiettivi nobili e meritori, e purtroppo ben lontani dall’essere raggiunti, ma ora passati in secondo piano. La priorità emergente, il pensiero dominante sembra, già nella prima infanzia, la proposta dell’ideologia gender, ossia la dottrina secondo cui il dato biologico originario del dimorfismo sessuale è marginale rispetto alla costruzione dell’identità di genere».

Morlacchi se la prende poi con i tre opuscoli contro omofobia, bullismo e discriminazione – Educare alla diversità a scuola – realizzati dall’Unar (l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, istituito nel 2003 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Pari Opportunità), in collaborazione con l’Istituto Beck e destinati agli insegnanti delle scuole primarie, secondarie di primo grado e di secondo grado. L’accusa è di mettere «tutto in un unico calderone: la doverosa accoglienza delle differenze individuali e l’impegno di “instillare atteggiamenti positivi” verso differenze di orientamento sessuale, identità sessuale o ruolo di genere. Si vuol così avviare – è l’opinione di Morlacchi – una vera rivoluzione culturale, di cui la maggioranza delle famiglie italiane, impegnata ad affrontare tanti problemi educativi con i loro figli, non sembra proprio sentire il bisogno».

I tre opuscoli erano stati al centro del fuoco incrociato anche nei giorni precedenti. In un articolo a tutta pagina apparso sul quotidiano dei vescovi il 14 febbraio, Lucia Bellaspiga definiva il lavoro di Unar e Istituto Beck come «una serie di assurdità volte a “instillare” nei bambini fin dalla più tenera età preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra un padre e una madre… Al loro posto un relativismo che non lascia scampo ad alcun valore. Il tutto mascherato da rispetto per le diversità (quando invece si cerca di omologare tutto, raccomandando persino di appiattire la preferenza nei maschi per il calcio o la Formula 1 rispetto alle femmine) e per diritto alla propria identità (quando viene negata anche quella di uomo e donna, trattati come pura astrazione)».

Accuse respinte al mittente dall’Istituto Beck che – oltre a precisare che gli opuscoli non erano destinati agli alunni ma agli insegnanti – ha sottolineato come «le influenze che l’ambiente socio-culturale e religioso può esercitare nel generare omofobia e omofobia interiorizzata, non soltanto sono di pacifica osservazione, ma conclusioni a cui pervengono numerosi studi scientifici».

Sulla vicenda era intervenuta – sconfessando l’operato dell’Unar – anche Maria Cecilia Guerra, allora viceministra del Lavoro e delle Politiche Sociali con delega alle Pari Opportunità del governo Letta, scatenando la reazione di Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno e M.i.t. i quali hanno sottolineato che il progetto risponde al tentativo «di aprire una breccia in un sistema di rappresentazione mediatica cannibalizzato dagli stereotipi, sulle persone gay, lesbiche, bisessuali, trans» così come «sulle donne, sugli stranieri e su tutto ciò che poi sul piano sociale si trasforma in bersaglio ricorrente di discriminazioni e crimini d’odio».

Stesso trattamento aveva ricevuto, solo un mese fa, la campagna contro il bullismo omofobico “Lecosecambiano@Roma” lanciata dall’assessorato alla Scuola del comune di Roma. In un’intervista a Radio Vaticana (23/1) Emma Ciccarelli, presidente del Forum delle Famiglie del Lazio, si lamentava della mancata concertazione con le associazioni familiari: «Non vogliamo che i nostri figli abbiano un’educazione sessuale di Stato, ma che ciascuna famiglia possa avere la libertà e la possibilità di scegliere come educare alla sessualità i proprio figli», commentava. «Noi chiediamo, come famiglie, di essere partecipi nella strutturazione di certi interventi. Noi contestiamo questo intervento, che è legato al bullismo di tipo omofobico: noi non riconosciamo questo tipo di termine, ma preferiamo parlare più in generale di bullismo perché per noi la persona ha valore a prescindere dalle sue scelte, dai suoi orientamenti sessuali». (ingrid colanicchia)

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