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Volta la “carta”. E scopri l’inganno. Ma nel mondo cattolico il dibattito non decolla

Tratto da: Adista Notizie n° 12 del 28/03/2015

38051 ROMA-ADISTA. Il paradosso è evidente. È stato da poco eletto come capo dello Stato un esponente di quel cattolicesimo democratico che, tra l’altro, è stato fondamentale nella fase di elaborazione e stesura della nostra Carta costituzionale; eppure oggi, mentre quell’area culturale e politica raggiunge i vertici della Repubblica, la Costituzione sta per essere modificata, anzi stravolta nei suoi principi fondamentali. Di più: il cattolicesimo democratico e conciliare rivela drammaticamente in questa fase la propria crisi culturale, oltre che una presenza quasi irrilevante nel dibattito pubblico e in quello parlamentare. Schiacciati dal “Partito della Nazione” da un lato e, dall’altro, da una destra su posizioni ormai fortemente marcate in senso populista, antieuropeo e xenofobo (in alleanza con movimenti che si richiamano all’immaginario fascista), coloro che per decenni hanno tradotto le istanze sociali del cattolicesimo, che hanno sostenuto la necessità di un mercato temperato dai valori della solidarietà e della giustizia sociale, che hanno “guardato a sinistra” per mediare le proprie istanze con quelli delle organizzazioni che rappresentavano il lavoro salariato, sembrano oggi ridotti alla semi-irrilevanza.


Carta straccia

Tutto questo proprio nella fase in cui il governo Renzi sta procedendo ad una riforma che smantella contenuti e valori della Carta promulgata nel 1948. Approvata in seconda lettura al Senato con i soli voti della maggioranza (357 favorevoli, 125 contrari, ma mancano all'appello una ventina di deputati del Pd), adesso l'iter parlamentare prevede, come per tutte le leggi costituzionali, un secondo passaggio alla Camera e poi un altro ancora al Senato (sempre che le camere la approvino senza apporvi modifiche, altrimenti continuerà il suo passaggio tra Montecitorio e Palazzo Madama). Se la legge non verrà approvata con almeno due terzi dei voti favorevoli, potrà essere sottoposta a referendum confermativo.

La nuova Costituzione porterebbe al superamento del bicameralismo perfetto. Camera e Senato avrebbero infatti competenze diverse. Il Senato, in verità, pochissime. A Palazzo Madama siederanno in 100 in luogo dei 315 di oggi, così ripartiti: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, 5 personalità illustri nominate dal presidente della Repubblica. I senatori non saranno più eletti, poiché saranno i Consigli regionali a sceglierli, con metodo proporzionale, fra i propri componenti. Inoltre le Regioni eleggeranno ciascuna un altro senatore scegliendolo tra i sindaci dei rispettivi territori, per un totale, quindi, di 21. La ripartizione dei seggi tra le varie Regioni avverrà "in proporzione alla loro popolazione", ma nessuna Regione potrà avere meno di due senatori.

Quanto alle competenze, il nuovo Senato non potrà più votare la fiducia ai governi in carica, mentre la sua funzione principale sarà quella di «funzione di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica», ossia Regioni e Comuni. Potere di voto vero e proprio invece il Senato lo conserverà solo in materia di riforme costituzionali, leggi costituzionali, leggi sui referendum popolari, leggi elettorali degli enti locali, diritto di famiglia, matrimonio e salute e ratifiche dei trattati internazionali.

Per il resto il Senato potrà esprimere solo pareri, che dovrà emettere in tempi brevissimi e che la Camera potrà o meno accogliere. Se si considera che la legge elettorale proposta da Renzi assegna una quota rilevante di seggi come “premio di maggioranza” alla lista vincitrice (da non confondere con il partito: due o più partiti possono unirsi in una sola lista elettorale, con un solo leader, un solo programma, un solo simbolo e un solo gruppo parlamentare) risulta evidente che il disegno di legge costituzionale non solo supera il bicameralismo, ma in qualche modo anche il parlamentarismo, assegnando un potere quasi assoluto alla coalizione che vince le elezioni, pur senza che essa ottenga la maggioranza assoluta dei voti. A ciò va aggiunto il rilevante potere che la nuova Costituzione assegna al presidente del Consiglio. I decreti governativi ritenuti essenziali dovranno essere votati dalla Camera entro il termine tassativo di 60 giorni, passati i quali il provvedimento sarà posto in votazione senza modifiche. Prendere o lasciare. Viene introdotta inoltre una corsia preferenziale per i disegni di legge governativi. Secondo le modifiche apportate all’articolo 72 della Costituzione, il governo potrà chiedere che la Camera esamini il testo presentato dall’esecutivo entro 60 giorni.

Cambia anche – e dati gli scenari geopolitici attuali la questione desta nel movimento cattolico e in quello per la pace più di qualche preoccupazione – l’attuale articolo 78 della Costituzione, quello che norma le moda­lità della dichia­ra­zione dello «stato di guerra». Nel testo della riforma basta un voto della Camera dei Deputati (senza deliberazione del Senato) a maggioranza assoluta dei componenti. 

Un uomo solo al comando

Insomma, in pochi mesi potremmo trovarci in una cornice istituzionale diversissima da quella che ha caratterizzato la storia repubblicana. Ma il dibattito all’interno della stampa cattolica langue. Anche tra i settimanali diocesani, oltre che su Avvenire e sugli altri media cattolici istituzionali. Tra i pochissimi ad affrontare la questione, Luca Rolandi su La voce del popolo (Torino, 13/3): «In un Paese normale di avanzata e consolidata democrazia – spiega in un editoriale – il tempo delle riforme dovrebbe essere suggellato da una forte adesione tra società civile e rappresentanza politica». Inoltre, l’«approdo alla Carta Costituzionale fu il risultato di una condivisa e sofferta mediazione virtuosa nella quale le diverse anime ideali portarono quote di pensiero e progetto. La fase attuale ci impone una riflessione amara e preoccupata. In una convulsa fase di cambiamento del quadro internazionale», «avremmo preferito assistere ad un dibattito politico istituzionale più equilibrato, alto e condiviso». Invece, «siamo immersi nella ventennale anomalia italiana nella quale la politica non riesce a fare sintesi, riproponendo litigi, inchieste, tribunali e sentenze, rovesci e conflitti e non esiste ancora una prassi di alternanza tra esecutivi». Oggi, afferma Rolandi, «si procede più per slogan e parole d’ordine». «Ci si unisce più per la raccolta del consenso, piuttosto che per definire la cornice di orizzonti progettuali che traguardino il breve periodo. La riforma auspicata e giusta dovrebbe tenere conto di pesi e contrappesi, bilanciando poteri e competenza, con grande sapienza. Essere condivisa da tutti o quasi tutti, procedere in sintonia con un Paese che guarda con distanza se non disprezzo ciò che accade nei partiti e in Parlamento. La ricerca del leader, uomo solo al comando, come unica prospettiva politica possibile apre anche a possibili scenari di neo populismo che farebbero il male del Paese».


Da cattolici democratici a catto-renzisti?

Se il dibattito stenta però a decollare, una ragione sta forse anche nella frammentazione di realtà associative che si richiamano al cattolicesimo democratico e conciliare; una galassia priva di un reale coordinamento. L’esperimento più ambizioso di fare “rete” tentato negli ultimi anni è quello del portale C3dem (Costituzione, Concilio, Cittadinanza). Non a caso, proprio sul loro sito, nelle ultime settimane si è aperto un confronto sulle prospettive politiche di questa area culturale, a partire dalla notizia, comparsa su diversi organi di stampa, della possibile costituzione di una componente “catto-renziana” all’interno del Pd. A innescarlo, un intervento di Franco Monaco, deputato del Pd, cattolico democratico di area “prodiana”. «Come da copione – ha scritto Monaco – i promotori hanno smentito che si tratti di corrente e che la sua denominazione sia appropriata». Nonostante questo, Monaco ritiene che qualcosa stia avvenendo, e che sia necessario interrogarsi sul rapporto tra il corso renziano e la lezione incorporata dalle grandi figure del cattolicesimo democratico del passato. «A prima vista, l’impressione complessiva è quella di una distanza piuttosto che una consonanza tra quelle figure e la politica del Pd renziano. O quantomeno al suo stile e ai suoi paradigmi. Distanza non solo ascrivibile alla radicale differenza di contesto e di profili soggettivi. Si pensi a Moro e alla sua maieutica, alla paziente ricerca del consenso e delle intese, dentro e fuori del suo partito». «Si pensi a Dossetti, alla sua fedeltà creativa alla Costituzione, al suo culto per la democrazia parlamentare, alla sua diffidenza verso le derive leaderiste». «Si pensi al La Pira delle “attese della povera gente”, al fastidio sino all’irrisione nei suoi confronti da parte del “quarto partito”, la Confindustria capeggiata da Costa, nonché ai suoi aspri contrasti con la politica economica di stampo liberista di Einaudi e di Pella». «Non voglio essere frainteso: forse si può argomentare la coerenza del corso renziano con quell’alto patrimonio. Non lo escludo. Solo mi sento di sostenere che, chi legittimamente e persino utilmente si candida a riprendere creativamente quella ispirazione, debba misurarsi con l’interrogativo di una comparazione per nulla pacifica e pacificante. Misurandosi davvero a fondo con quello scarto, vero o apparente che sia». Lo esclude invece Lino Prenna, coordinatore di Agire politicamente, che in un intervento sullo stesso sito, interloquendo con Monaco dapprima ribadisce «il potenziale di attualità del cattolicesimo democratico», che si deve però «misurare sugli scenari dell’attuale stagione politica, per una non ripetitiva declinazione». Ma poi aggiunge: «Non mi sembra, dalle scarne notizie di cui dispongo, che la componente cosiddetta “catto-renziana” coltivi questa intenzione e sia riconducibile alla tradizione cattolico-democratica». Forse, piuttosto, «al modello ottocentesco del cattolicesimo liberale». 

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