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L’ospitalità nella tenda di Abramo

Tratto da: Adista Documenti n° 12 del 28/03/2015

È diventata piuttosto famosa la tesi di Hans Küng sulla pace e sulle religioni: non potrà esserci pace nel mondo senza che vi sia pace tra le religioni, e non potrà esserci pace tra le religioni senza conoscenza, senza dialogo e senza cooperazione. Il suo libro Cristianesimo e religioni universali. Introduzione al dialogo con islamismo, induismo e buddhismo termina con l’invito rivolto alle religioni a essere costruttrici di ponti. La sostanza che deve passare per questi ponti – una questione cruciale, secondo Küng, per la sopravvivenza del mondo umano – è la creazione di un’ethos mondiale. L’esistenza di «modelli etici globali», di «un’etica per il mondo intero», è tanto condizione per il dialogo quanto preoccupazione e sostanza del dialogo. Intendo qui porre l’accento su una posizione etica che può e deve essere esaminata dalle tradizioni religiose e che è condizione per il dialogo e per la pace: l’ospitalità.

La tesi che intendo presentare è questa: l’ospitalità è l’anima della religione. È l’anima delle grandi religioni dell’era assiale (concetto, attribuito a Karl Jaspers, che rimanda a un immaginario asse nel tempo a cui tutto farebbe riferimento, segnando un prima e un dopo nella linea del tempo, individuato da Jaspers nel periodo che va dagli 800 ai 200 anni avanti Cristo, caratterizzato da un insieme di trasformazioni che hanno configurato il tipo di coscienza umana che viviamo ancora oggi, ndt) e probabilmente è l’anima di ogni forma di religione. (…). Ma in questo testo mi limito alle tradizioni religiose abramitiche, prendendo come riferimento la grande figura comune alle tre tradizioni e ai loro testi sacri, in ebraico, in greco e in arabo. 

In primo luogo, mi soffermo sulla memoria di Abramo, nelle sue diverse versioni. In secondo luogo, evidenzio alcuni aspetti di queste tradizioni, approfondendoli tuttavia a partire dalla tradizione cristiana a cui appartengo. In terzo luogo, pongo l’accento sulle sfide e sul metodo che si dovrebbe seguire affinché Abramo e la sua discendenza diventino pietre angolari nella ricerca di un’etica globale. Infine, è necessario sottolineare come l’atteggiamento di ospitalità sia (…) un’esperienza radicale dell’esistenza umana che non dipende da una determinata tradizione. Viceversa, è tale da suscitare tradizioni: sia sovvertendo l’ordine vigente dell’ostilità e della xenofobia, (…), sia selezionando e rafforzando i migliori atteggiamenti per un’etica autenticamente umana.


1. L’OSPITALITÀ È L’ANIMA DELLA RELIGIONE

L’antropologia culturale, studiando culture non occidentali, si trova invariabilmente di fronte alla religione come espressione inglobante e come chiave di interpretazione della cultura. A partire da Émile Durkheim e da Max Weber, si può accettare l’assioma che la religione è l’anima della cultura e che la cultura, nelle sue diverse espressioni, si costituisce in realtà come corpo animato organicamente dalla dimensione religiosa. (…).

Karen Armstrong ricorda come la questione della religione si decida non in termini teorici, metafisici, ciò che nella teologia sarebbero dottrine e dogmi, ma in termini pratici. La religione - l’esperienza religiosa all’interno delle espressioni della cultura - è una questione di atteggiamento pratico: mille argomenti in difesa o contro la religione non valgono una genuflessione o una preghiera. Le grandi tradizioni religiose fondate nell’era assiale si caratterizzano per posizioni pratiche contrarie alla logica del sacrificio, pertanto per un’etica universale nel segno della compassione. Ciò non significa che non vi siano residui, impulsi e regressioni sacrificali e violenza di carattere religioso. Ma questo non rientra nella buona notizia di tali tradizioni. Vi rientra invece l’insegnamento dell’ospitalità – la theoxenia – come posizione religiosa al fondo della cultura dell’ospitalità in grado di superare l’ostilità.

Se l’ostilità produce sacrifici e comunione nel sacrificio, l’ospitalità genera un’esperienza trascendente di comunione di vita che non ha bisogno di morte, un superamento in direzione di una pace accessibile a tutti.

Nel panorama delle grandi tradizioni religiose che nascono a partire dall’era assiale, i monoteismi della culla religiosa del Medio Oriente, per diverse ragioni sia storiche che attuali, sono emblematici per il nostro tema: rappresentano un test.


2. ABRAMO, UNA FIGURA ISPIRATRICE DELLA FEDE 

Abramo, come è noto, è una figura evocativa, un memoriale, per le tre grandi tradizioni del Medio Oriente: ebrei, cristiani e musulmani ricordano Abramo come “Padre” e come modello di fede, “amico di Dio”. La tradizione cristiana segue da vicino la tradizione ebraica e adotta lo stesso insieme di Scritture nella conservazione delle diverse narrative che si riferiscono ad Abramo.

(…). Nella tradizione cristiana, Abramo è presentato come Padre dei cristiani nella fede, che è superiore e persino in contrasto con le opere della Legge. (…). Nel vangelo di Giovanni c’è un’importante disputa intorno alla figura di Abramo tra Gesù e i suoi interlocutori, e il criterio di verità e di valore è che Abramo non ha ucciso (cfr. Gv 8).

Ossia, il sacrificio religioso è smascherato, emergendo per quello che realmente è: un assassinio con motivazioni religiose. (…).

Nella tradizione musulmana (…), le narrative riguardanti Abramo e Ismaele sono, in gran misura, uguali a quelle relative ad Abramo e Isacco nella Bibbia ebraica e cristiana, dove il “non sacrificio” trionfa sul comandamento di sacrificare (parte della tradizione islamica individua in Ismaele, figlio che Abramo ha avuto dalla giovane schiava Agar, e non nel fratello consanguineo Isacco, che Abramo ha avuto dalla moglie Sara, il figlio che Dio ordinò ad Abramo di sacrificargli, ndt). Con in più l’originalità del passaggio di Abramo per la Mecca, dove la promessa divina inizia a compiersi: Ismaele (nato e vissuto alla Mecca, ndt) è l’origine benedetta di una discendenza di popoli e terre. Un’interpretazione, pertanto, di segno completamente diverso rispetto a quella che Paolo offre nella sua allegoria (contenuta nella Lettera ai Galati, dove Paolo contrappone Isacco, generato da una donna libera, a Ismaele, generato da una schiava, operando la distinzione tra una scelta libera e consapevole e una scelta obbligata, ndt) e che non rende giustizia ai musulmani e neanche agli ebrei. (…). 

Di fatto, le tre tradizioni ricordano che Abramo, dinanzi al comandamento del sacrificio, “non sacrificò”. Con tutte le varianti narrative, c’è un nucleo duro in comune. (…). Torneremo poi all’atteggiamento da assumere di fronte alle differenze irriducibili di ogni tradizione. Ora è importante sottolineare un altro punto in comune, attraverso cui si comprende il “non sacrificio” di Abramo: la sua apertura all’ospitalità, ricordata dalle tre tradizioni con la visita alle querce di Mamre e con gli avvenimenti di Sodoma e Gomorra.

3. ABRAMO, FIGURA ISPIRATRICE DELL’OSPITALITÀ

La letteratura relativa alla questione dell’ospitalità - oggi sempre più abbondante - impegnata a ricercare nelle religioni i comandamenti relativi a questo tema, si richiama invariabilmente al racconto di Abramo e dei viandanti che egli accoglie nella sua tenda. Tale posizione si riflette nella tradizione biblica e coranica. È importante sottolineare che qui troviamo anche una trasgressione rispetto a qualcosa di elementare: la naturale ostilità nei confronti di chi è estraneo, straniero, di chi viene da fuori. Esiste qualcosa di pericoloso e di potenzialmente mortale nell’arrivo dello straniero. Tale reazione di ostilità si spiega con il fatto che l’“altro”, per principio, è potenzialmente il “nemico”, colui che può avvicinarsi per fare del male, per portare malattie, per rubare o persino per uccidere. Poiché anche l’ostilità può rispondere a un certo comandamento naturale, in termini di sopravvivenza, per un gruppo attento a proteggersi si può comprendere come l’ospitalità non rappresenti qualcosa di così naturale, richiedendo al contrario un comandamento ad hoc, il quale obblighi a vincere la “paura dell’altro”, la xenofobia e l’ostilità.

La narrativa di Mamre (cfr. Gen 18) presenta una scena apparentemente prosaica, quella di Abramo seduto all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Anche lui ha vissuto da viandante, da nomade. E conosce sulla sua pelle i pericoli a cui va incontro chi si trova “dall’altro lato”. Perché anche arrivare e presentarsi come straniero dinanzi all’altro può essere pericoloso e mortale. Il forestiero che compare è normalmente più indifeso dell’abitante del posto. Abramo, come all’uscita da Ur e soprattutto come di fronte al comandamento del sacrificio, si trova anche qui di fronte a un tipico dilemma: può cedere all’impulso dell’ostilità come pure superarsi nell’ospitalità. Sa per esperienza che chi arriva ha bisogno di bere, di mangiare e di riposarsi. E opta senza esitazioni per l’ospitalità completa, mettendo tutto a disposizione dei pericolosi estranei che passano di lì. Va loro incontro prima ancora che arrivino e si presentino. È lui a prendere l’iniziativa offrendo la propria ospitalità e, dopo aver soddisfatto le necessità dei nuovi amici, a iniziare con loro una conversazione che si rivelerà molto feconda e lo confermerà nella sua avventura di fede. In realtà, l’atteggiamento dell’ospitalità è l’apertura che gli permette di progredire nella fede (...).

Così, secondo le Scritture, nei dilemmi di Mosè, di Elia, dei profeti in generale e anche nella figura di Maria e di Gesù, si riflette la figura fondante di Abramo viandante e ospite: il superamento di sé e il superamento di una forma di religione, in direzione di un’altra sempre più aperta, più universale, più centrata “sull’altro”, su colui che viene e che va, per quanto estraneo e potenzialmente pericoloso. La filosofia semitica può essere vista in opposizione alla filosofia ellenica. In quest’ultima trionfa l’identità personale, il viaggio di Ulisse di ritorno a se stesso, guerriero vittorioso sugli altri e su quanti gli hanno occupato la casa. Il peregrinare di Abramo è il superamento di sé senza ritorno, in direzione dell’altro, dell’estraneo, nella fiducia riposta nella parola di una promessa continua.


4. L’OSPITALITÀ NEI CONFRONTI DEL NEMICO

Il racconto di quanto accaduto sotto le Querce di Mamre va letto in contrasto con quanto avvenuto a Sodoma e Gomorra, le città inospitali, in cui l’ostilità trionfa sull’ospitalità. In questo senso, l’ermeneutica di Gesù è preziosa: il peccato di Sodoma e Gomorra è nella loro incapacità di aprirsi all’ospitalità, benché le città dell’epoca di Gesù si trovassero in una situazione ancor peggiore per lo stesso motivo (cfr. Mt 21-24). La caduta delle città è intrinseca alla violenza della loro ostilità. Nel filo rosso della salvezza che rende sacra la scrittura, incontriamo l’atteggiamento di ospitalità di Lot e della sua famiglia, parenti di Abramo in quelle città.

È necessario tuttavia tornare alle Querce di Mamre: Abramo, venendo a conoscenza del tragico imminente destino, trova il coraggio di intercedere per le città ostili (chiedendo al Signore di perdonare le città se vi troverà cinquanta giusti, e poi via via diminuendo il numero degli innocenti necessari per la salvezza fino a dieci, ndt). La sua preghiera sembra porre Dio dinanzi a un dilemma, interpellando la giustizia divina. E, pur mettendo se stesso in gioco, riconoscendo di essere polvere e cenere dinanzi alla giustizia di Dio, anche così, insiste e insiste. Per impedire il sacrificio, per quanta logica questo possa avere, e così preservare, rendere ospitale ciò che è ostile. La sua preghiera di intercessione, di fatto, è una forma di ospitalità addirittura per chi non la merita. Egli intercede per i nemici del suo Dio, ma ricorda al suo Dio che egli stesso può essere ospitale. Il racconto trasmette la sensazione che Abramo sia migliore, più ospitale, di Dio. Ma qui, con l’apertura ospitale di Abramo che si preoccupa persino del nemico di Dio, si sta superando un’immagine di Dio in direzione di quella nuova di un Dio sempre più ospitale, anche nei confronti di chi è più radicalmente altro, il nemico.

5. PER ABRAMO, L’ALTRO VIENE PRIMA

Nell’insieme delle memorie abramitiche, conviene anche ricordare il crocevia nel deserto in cui Abramo si incontra con il suo parente Lot. I due devono separarsi per cercare pascoli per le rispettive greggi. Abramo dà spazio a Lot perché scelga l’area migliore. Tale atteggiamento fa parte dell’ospitalità: è all’ospite che viene assegnata la priorità. Così, anche i piccoli, i poveri, lo stesso straniero – nel caso di Gesù, la cananea e il centurione, il samaritano offerto come esempio, l’amicizia con le donne, ecc. – assumono la priorità in una religione che consiste essenzialmente nel coltivare l’ospitalità.

Questo modo di vivere la religione distrugge o capovolge ogni gerarchia e ogni idea secondo cui ciò che costituisce la propria identità è migliore e pertanto merita il primo posto. L’atteggiamento ospitale, nell’assegnare la priorità all’altro, nel porre l’altro al centro, mette seriamente in discussione la religione autocentrata. Il dilemma del sacro è che, in questo caso, non è sacro ciò che si preserva come tale, ma ciò che si cede e che si dona ed è in questo dono di ciò che c’è di più sacro – nell’ospitalità che assegna la priorità all’altro – che si incontra il vero nuovo sacrificio, a partire da Abramo.

6. LA DISCENDENZA DI ABRAMO

Chi può essere chiamato figlio o figlia di Abramo? Evidentemente, la filiazione abramitica non è biologica, non è etnica. Si tratta di una figura religiosa che emerge nel passaggio storico dall’era pre-assiale all’era assiale, figura della compassione e dell’etica universale. Nel 1983, partecipai a una visita al luogo in cui si ricorda al tempo stesso la resurrezione del figlio della vedova di Naim da parte di Gesù secondo il racconto di Luca (Lc 7,11-17) e la resurrezione del figlio della vedova di Sarepta da parte di Elia secondo il primo libro dei Re (1Re, 17,7-24). Un palestinese musulmano del villaggio camminava a fianco a me con la chiave della piccola cappella in cui il gruppo dei cristiani sarebbe andato a pregare. Pur non conoscendomi, mi diceva, con un tono amichevole e ospitale: “Siamo tutti parenti in Abramo e sono felice che veniate a visitarci”. Era un grande figlio di Abramo: credeva che l’estraneo potesse essere un fratello e ci dava il benvenuto aprendoci la porta e permettendoci di pregare a modo nostro, secondo la nostra tradizione. 

Vi sono discendenti di Abramo nel nostro tempo, anche al di fuori delle tre grandi tradizioni uscite dall’Oriente semitico. In un tempo in cui le religioni formatesi nell’era assiale si trovano in un processo di grande trasformazione, in cui si renderà necessaria una transustanziazione delle religioni in un mondo in ebollizione, il criterio abramitico dell’ospitalità diventa al tempo stesso un criterio ermeneutico per valutare e valorizzare le tradizioni religiose ricevute in eredità da un passato venerabile, un criterio pratico per la convivenza umana nel presente nella riconciliazione e nella pace e un criterio ermeneutico di speranza in un futuro realmente possibile per la grande famiglia umana.

La grande questione di questo momento, per le religioni che ancora conservano una gerarchia e che normalmente mettono se stesse al primo posto, non è ciò che esse hanno in comune, ma l’irriducibile alterità di ciascuna di esse come ricchezza da rispettare. Atteggiamenti di disprezzo, di discredito e di critica distruttiva, ma anche di assimilazione, non sono accettabili. Non c’è alcun modo di universalizzare una tradizione o un’esperienza. Queste possono essere messe in comune solo nel senso di venir accolte nella loro estraneità, all’interno della biodiversità propria della vita. Si tratta, allora, di ascoltare le differenze e di comprendere gli altri a partire dalle proprie diversità irriducibili, come pure di prendere sul serio la legittimità delle diverse identità per la narrativa e per la memoria che ciascuna identità conserva di se stessa.

Ciò non significa che siamo condannati a mondi plurali senza contatto e senza comunione. Abramo, per rimanere nella tradizione semitica, è una delle figure umane che insegnano a seguire criteri che siano superiori a quelli delle strutture religiose per evolvere come umanità: il criterio della vita dell’altro che viene per prima, dell’ospitalità come vero sacrificio.

In ogni modo, per il dialogo tra ebrei, cristiani e musulmani, la domanda su chi è Abramo e quale sia la discendenza di Abramo è ineludibile.

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