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Studi di genere. La dottrina è sempre in ritardo

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 17 del 09/05/2015

Tempo fa ho partecipato a una conferenza su “Genere e sviluppo economico in Africa”. Un tema relativamente poco controverso, dato che le disuguaglianze di genere e il ruolo delle donne nelle economie dei Paesi del Sud sono da tempo oggetto di dibattito, nonché di interventi specifici nel settore della cooperazione allo sviluppo. L’unico giornalista presente a documentare l’incontro lavorava per un giornale cattolico, il che mi stupì positivamente. Ma quando si trattò di intervistare una delle esperte africane presenti alla conferenza, il giornalista ci chiese timidamente, forse consapevole di formulare una richiesta paradossale: «Potremmo tradurre con “relazioni tra uomini e donne” ogni volta che la signora parla di “genere”? Altrimenti potrei avere difficoltà a pubblicare il pezzo...».Che cosa, nel mondo cattolico, ha reso il concetto di “genere” così sospetto e ostile da renderlo indicibile?

Che cosa lo ha trasformato nello spauracchio in cui far confluire tutto ciò che minaccia la morale cattolica nel campo della famiglia, della sessualità, delle relazioni, della natura umana? Se non sorprende che la pastorale di Ratzinger, relativamente conservatrice da questo punto di vista, abbia fatto da sfondo alla nascita di un sentimento “anti-gender” in settori consistenti del clero e dell’associazionismo cattolico, occorre osservare che la posizione più aperturista di Bergoglio sull’omosessualità non ne ha frenato il consolidamento. A gennaio, lo stesso papa ha parlato di «colonizzazione ideologica» del gender (non a caso spesso i media cattolici preferiscono usare il concetto nella sua versione inglese, come se si trattasse di un’intrusione aliena alla nostra tradizione intellettuale) e, più recentemente, nell’udienza generale dello scorso 15 aprile, ha suggerito che la teoria del gender sia «espressione di una frustrazione e di una rassegnazione» di fronte alla differenza sessuale, e che con essa «rischiamo di fare un passo indietro».

Ciò che il papa suggerisce pacatamente – invitando al tempo stesso a ridare forza alla «reciprocità fra uomini e donne» e a riconoscere maggiore peso e autorevolezza alla voce di queste ultime – la redazione di Avvenire trasforma in proclama a caratteri cubitali, come nell’inserto Noi. Genitori e figli, pubblicato lo scorso 22 febbraio e dedicato interamente alla “grande bugia” del gender. Se l’editoriale iniziale cerca di sgombrare il campo dalle accuse di omofobia e ribadisce la «ferma condanna» a qualsiasi forma di intolleranza verso le persone con orientamento omosessuale, il resto del fascicolo è un atto di accusa a tutto campo contro teorie che vorrebbero negare «la verità fondante del maschile e del femminile». Un’infografica a metà dell’inserto paventa ad esempio che, se cominciamo col riconoscere che la mascolinità e la femminilità sono almeno in parte costruzioni sociali o culturali, finiremo per pensare che l’appartenenza di genere «si può variare a piacimento»: al contrario, lo sforzo delle scienze sociali è perlopiù quello di sottrarre l’appartenenza di genere tanto alle visioni naturalistiche quanto a quelle spontaneistiche e individualiste, reintroducendo una riflessione sui fattori socio-politici che influenzano, in ogni epoca storica o contesto culturale, l’identità maschile e femminile. La stessa infografica proclama poi che la differenza genetica tra i sessi si traduce in «differenze peculiari fisiche, cerebrali, ormonali e relazionali», facendo piazza pulita di tutti i dibattiti che, nelle scienze cognitive e sociali come nella psicologia, cercano tuttora di precisare – o di smentire – i legami tra differenza sessuale e inclinazioni o comportamenti. 

In realtà, gli studi di genere costituiscono un campo interdisciplinare composito, dove convivono e dibattono approcci teorici diversi (nessuna singola “teoria” o “ideologia”, dunque), di cui solo alcuni sono legati a forme di attivismo politico (come il femminismo nelle sue diverse declinazioni, o più recentemente l’attivismo lgbt e queer), e solo una minoranza arriva a decostruire radicalmente la differenza sessuale o a sostenere l’arbitrarietà delle classificazioni sessuali e di genere. Ma per combattere efficacemente l’impatto politico delle rivendicazioni lgbt e del femminismo, bisogna confezionare un “nemico” più spaventoso: gli studi di genere vengono allora rappresentati come una miscela esplosiva di relativismo radicale, edonismo e consumismo spinti, progetto totalitario di ridefinizione della natura umana e dei rapporti sociali, insomma un indottrinamento a cui nessun genitore vorrebbe mai esporre i propri figli. In questa operazione, mirata ad alimentare il “panico morale” anti-gender, vale tutto. Anche la pubblicazione di dati infondati, come – sempre nell’utile ed esplicativa infografica – il fatto che il governo australiano riconoscerebbe ufficialmente 23 generi diversi, notizia tratta da un blog pro-life e non confermata da alcuna altra fonte (la realtà è che quei pochi governi al mondo che riconoscono un terzo genere lo fanno per non imporre prematuramente, alla nascita, un’identità agli individui intersex, oppure per riconoscere, in età adulta, identità transgender radicate nella storia e nella tradizione locale, come gli hijra nel subcontinente indiano). Oppure, come fa in un’intervista pubblicata nell’inserto lo psicanalista Mario Binasco (lo stesso che paragonò la proposta di legge sulle unioni civili al sedicente Stato Islamico, e che fu al centro di una polemica sulla sua affiliazione accademica poi risultata falsa), si mette in discussione la neutralità scientifica delle teorie di genere, che a differenza di una legge fisica sono teorie “di qualcuno”, cioè situate in un preciso contesto e influenzate da chi le formula (critica per nulla nuova, che si applica a tutte le scienze sociali, e anche alla psicanalisi praticata da Binasco, senza per questo invalidarle). Senza contare che a queste teorie si può persino attingere per fondare un’azione politica e di trasformazione della realtà: l’idea di “inverare la teoria” su cui si fonderebbe il pensiero marxista-leninista, secondo Binasco. E su questo, brividi di terrore da parte dei genitori anticomunisti.

Tra la destra cattolica e i settori più radicali del movimento queer, l’incompatibilità non solo di obiettivi politici, ma anche di sensibilità e di sistemi di valori, è probabilmente destinata a durare. Ma, se allarghiamo lo sguardo oltre le aree più “estreme” della contrapposizione, la radicalizzazione del confronto non è inevitabile. Se una qualche forma di dialogo costruttivo può essere ristabilita attorno a questi temi, non può che passare da una riduzione del livello di allarme: niente più proclami o caricature sulle presunte ideologie che vogliono “colonizzarci”, niente più copia-e-incolla da blog o interviste a esperti accuratamente scelti tra quelli ideologicamente affini, ma un confronto serio che, assieme alle critiche, permetta di apprezzare i diversi contributi che gli studi di genere hanno portato alla nostra comprensione della società e alla possibilità di trasformarla. Ad esempio, il riconoscimento del ruolo del lavoro delle donne nello sviluppo economico dei Paesi del Sud come nella tenuta del welfare nei Paesi del Nord; gli strumenti per individuare le disuguaglianze e le discriminazioni fino a quel momento invisibili o taciute; la sfida alle identità maschili troppo prescrittive e l’esplicitazione del legame spesso rimosso tra mascolinità e violenza; anche – e questo è uno dei principali oggetti della contesa – il supporto a un lavoro educativo in grado di decostruire stereotipi e pregiudizi, e di prevenire esclusioni, bullismo e omofobia a scuola. 

Difficile dire se e quando questo avverrà. L’ottimismo di Vito Mancuso, che in un editoriale pubblicato da Repubblica pochi giorni fa si dice sicuro del fatto che la Chiesa cattolica «arrivera? ad accettare la sostanza di cio? che essa definisce “teoria del gender” e che oggi tanto combatte», come in passato ha accettato – con un certo ritardo – le teorie copernicane, lo Stato unitario italiano, la libertà religiosa o l’evoluzionismo biologico, è a prima vista consolante. Ma una simile visione ottimista lascia irrisolte molte questioni: ad esempio, qual è il prezzo di questo costante ritardo della dottrina nell’accomodarsi alla realtà in trasformazione? E nel caso specifico, quanti omosessuali cattolici – e non – continueranno a soffrire delle conseguenze dell’ostinazione della Chiesa a non negoziare con teorie e approcci che permettono loro di affermare in maniera più compiuta la propria identità o il proprio orientamento sessuale? Perché altre Chiese cristiane sono state capaci di elaborare riflessioni e pastorali più inclusive e meno conflittuali sul tema dell’omosessualità e a integrare i contributi positivi degli studi di genere? Perché l’approvazione della prima legge sul cambiamento di sesso nel 1982 – tutto sommato più dirompente rispetto alle richieste odierne di allargamento dei diritti civili – destò molte meno polemiche in campo ecclesiastico mentre oggi la contrapposizione è così forte? C’entra forse qualcosa il progressivo calo dei fedeli e delle vocazioni e la tentazione della Chiesa cattolica di recuperare terreno e ruolo politico attraverso le battaglie per i “valori non negoziabili”?

* antropologo

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