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Celibato obbligatorio, per taluni «un inferno». Un articolo sulla rivista dei dehoniani “Il Regno”

Celibato obbligatorio, per taluni «un inferno». Un articolo sulla rivista dei dehoniani “Il Regno”

Il celibato obbligatorio dei preti è argomento che riemerge qua e là nella Chiesa, e non solo a livello di base, che spesso si esprime a favore dell’introduzione del celibato opzionale o dei preti sposati, ma anche nella sua espressione gerarchica (per esempio al Sinodo per l’Amazzonia, v. Adista Notizie n. 7/20). Che, a questo livello, sia un cruccio cui porre rimedio quanto meno per alleviare il problema della scarsità di vocazioni presbiterali, è dimostrato tra l’altro dall’interesse suscitato da una riflessione apparsa sul n. 2/21 del quindicinale dei religiosi dehoniani, Il Regno (n. 2/2021, del 15 gennaio), per la penna dello psichiatra e bioeticista Raffaele Iavazzo intitolata “Il disagio dei preti. Pastori nuovi, nuovi pastori”. Di tale interesse, serpeggiante più che esplicitato, riferisce ora lo stesso Iavazzo sulla citata rivista (sotto il titolo “Di formazione, di guida, d’accompagnamento laicale, di una riforma del celibato“, 21/9):  «Nell’articolo pubblicato a inizio anno – scrive – ho cercato di lanciare un sasso nello stagno della riflessione sul celibato obbligatorio. Quell’articolo mi ha portato la sorpresa di un interesse insospettato da parte di molti lettori, alcuni dei quali vescovi».

«Con tanti sacerdoti ho un contatto consolidato d’amicizia e a motivo della mia professione di psichiatra e di formatore», dichiara Iavazzo nel secondo articolo, “legittimado” dunque i suoi interventi sull’argomento in questione. «Questo mi mette in una buona posizione per conoscere sia il mare di bene che essi generano sia i casi meno fortunati, che portano ogni giorno i segni delle loro ferite e dei loro disagi. Quello che mi spinge a tornare a scrivere sul tema (cf. Regno-att. 2/2021) è il fatto che questi casi meno fortunati, pur rimanendo decisa minoranza, rappresentano un buon numero, che davvero merita un’attenzione non più rinviabile anche a livello istituzionale».

L’autore nel suo excursus analizza l’impatto psicologico dell’obbligo celibatario nelle varie fasi della vita del prete e mette in questione la prassi ecclesiale. Dichiara subito il suo stupore di fronte al «costante bisogno di discrezione, per non dire di silenzio» di fronte a «questioni così gravi, come quella sessuale, per esempio, o come quella del precipitoso calo delle vocazioni», osservando che «Chi ha il dovere di guidare è affetto in maniera sempre più evidente da afasia e disorientamento, fatto salvo l’impegno di pronunciare ufficialmente parole di sdegno e di principio». «Oggi – continua – si rimane impassibili di fronte a intere comunità senza eucaristia per mancanza di preti, eppure qualsiasi studioso di storia della Chiesa può concordare sul fatto che il clero, per come lo conosciamo oggi, non è frutto della volontà divina, è un prodotto storico, che può essere soggetto a modifiche» e dunque «abbiamo il dovere di lasciare alla libertà dello Spirito se e come e quando sottoporlo a cambiamenti (…) dentro un quadro organico di riforme dell’intero sistema ecclesiastico». La constatazione suggerisce a Iavazzo le domande: «condivide la Chiesa che obbligare tutti quelli che intendono dedicarsi al servizio della comunità a un’astinenza coatta della sessualità è assumersi una responsabilità che i fatti dichiarano insostenibile per molti e quindi ingiusta e quindi improvvida? Lo sa la Chiesa che ci sono uomini che per questo vivono un personale inferno? Lo sa che spesso in questo inferno trascinano altri, la cui unica colpa è solo quella di amare?».

«Si moltiplicano le situazioni di smarrimento e di paura», racconta lo psichiatra, «una folla di uomini che s’interroga sul senso della propria vita e del proprio destino. Sono uomini che cercano respiro e hanno un gran desiderio di vivere senza vergogna e senza sentirsi immeritevoli di perdono, per uscire da un letterale inferno. Purtroppo accanto a loro ci sono altri uomini che dovrebbero guidarli e che sembrano ugualmente spaventati e non sanno accompagnarli e tacciono come per tacita delega, in attesa di qualcuno che lo sappia o voglia fare».

Cosa fanno, si chiede con apprensione, i maestri, i padri spirituali, i confratelli, i loro vescovi e i cardinali, le comunità di tanti uomini sofferenti? «Sanno sostenerli, motivarli a recuperare le parole di vita eterna, sanno essere strumenti di riconciliazione di perdono, di ripresa della strada?». Sono «un esercito di pastori», persone «mediamente timorate e bene intenzionate» e «dichiaratamente ben formate». Da loro «ci si può attendere una buona parola. Spesso vorremmo che i loro discorsi non fossero, come si dice, all’acqua di rose, con parole auliche e retoriche, e non si riferissero solo a valori universali di unanime consenso. Vorremmo parole adeguate a questi tempi di emergenza, parole consapevoli che le chiese sono sempre più vuote e i preti sempre più scarsi e quelli sulla breccia sono pieni di problemi e sofferenze e avvertono il vuoto che si sta loro creando attorno. Mentre abbiamo l’impressione che di fronte a certe storie dei loro sacerdoti usino parole imbarazzate, si sentano come sorpresi e impreparati. Ci vuole compassione anche per loro. Ci vuole compassione a pensare a questo declino senza fine». 

*Foto tratta da pxhere.com, immagine originale e licenza

 

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